lo stupore del cuore

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Di tutte le parole che avremmo potuto trovare rimase la semplicità e il silenzio,

il pudore che frena la bocca prima delle mani.

Rimase l’aria sospesa ad attendere paziente,

e guardandoci negli occhi si riempì ciò che non riusciva ad esser detto.

Cercavamo motivi di scherzo, allora,

perifrasi d’amore che colmassero lo stupore del cuore.

Questo sentire nuovo,

che metteva ali all’ essere,

nel suo ignoto scuotere non aveva un fine,

si scioglieva, sì, con noi,

pozza di cera travolta dalla luce,

ma eravamo

e ciò bastava, tanto da non poter essere di più.

Tutto questo l’abbiamo gettato?

Un angolo di cuore, non di ricordo, attende una mano

in forma di bacio, di carezza, di tocco gentile,

e vuol vedere, e sentire

ciò che già abbiamo sentito e visto.

Rendere nuovo ciò che ora non basta,

innocente il vivere e ciò che non lo è più:

eccolo di nuovo,

che vuol essere lo stupore del cuore

e solo ciò desidera e attende.

che accade all’amore?

Se ne andava con la pazienza di chi guarda, tra strade improvvisamente meno frequentate e indifferenti. C’era tutto quello che serviva, palazzi, portici, pietre improvvisamente bianche  per carenza di smog e radi passanti. Per lo più studenti che non avevano voluto tornare a casa. Pensò, al perché si va via e poi si torna. Alle vite che hanno stagioni diverse e non più confrontabili. Alle età che si stratificano e trascinano in confusioni che assomigliano ad edifici in cui l’opera si aggiunge e sembra una comodità, una bellezza aggiunta ma in realtà rende meno intelleggibile il confine e le età della vita come gli stili diventano indefinite. Non c’è più un’età dell’andare e del tornare con esperienze nuove che facciano crescere chi è rimasto, ma piuttosto un’inquietudine da cercare che sposta in avanti il mometo in cui fermarsi. Così, con facilità, ora l’umanità occidentale, e non solo, s’era messa in movimento ed era diventata nomade rifiutando le stanzialità, ma portando con sé le caratteristiche che poi le lingue non mimetizzavano, le città non annullavano, neppure la difficoltà che accompagnava ogni nuovo stare, nascondeva nella speranza di un meglio che si contrapponeva al luogo da cui si era partiti, perché tutti abbiamo un luogo, una savana o una foresta vicino al cuore. E quel sentire, che in fondo caratterizza la specie, che si traduce in binomi difficili come amore, abbandono, appartenenza e libertà erano una serie di verbi da coniugare in nuovi e antichi modi. Come a dire che l’essenza delle cose resta tale e in fondo ciò che conta è come si ama e come si è amati. Così gli venne in mente un passo di Americanah:

Come hai potuto farmi questo? Sono stato così buono con te!

Già guardava alla loro relazione con la lente del passato. La sconcertò come l’amore romantico fosse capace di trasformarsi, con che rapidità la persona amata potesse diventare un estraneo. Dove andava a finire l’amore? Forse l’amore vero era quello familiare, in qualche modo collegato al sangue, dato che l’amore per i figli non moriva come l’amore romantico.

E questo delimitare l’amore in quello romantico non era forse l’incapacità di una evoluzione che non c’era statat e che ora, nella pandemia diventava un serrare le fila, un fidarsi di pochi, com’era accaduto  ai tempi dell’aids e ancor prima in ogni momento in cui fidarsi era il portare fuori l’amore che c’era dentro.

Cosa stava accadendo per davvero? Ce lo stavamo chiedendo oppure ci rifugiavamo in territori dove la sicurezza viene assicurata da altri. Il vaccino oppure il suo rifiuto, la banalizzazione o il terrore della malattia. E i bollettini giornalieri che effetto avevavno nei confronti di chi era attento oppure di chi voleva ignorare. Come tornare nel buio dell’umanità sapendo che ovunque si era c’er auna possibilità e un pericolo e che la scienza poteva salvare chi credeva in essa ma anche chi non la stimava. Tutto questo per avere una possibilità di una normalità nuova dove gli aspetti fondamentali del vivere avessero un senso, anche una prospettiva. E con chi ci si schierava, con chi voleva arginare o con chi spingeva verso un nuovo distopico e senza alcuna garanzia?

Camminare nella vecchia città dava una dimensione alle cose, non alle persone. Le persone al tempo della pandemia avevano scelte binarie, passioni improvvise e necessità di capire di chi fidarsi. Non bastava la mascherina perché il distanziamento, sepur selezionando doveva cadere per alcuni o alcune. Ci doveva essere un ritorno alle funzioni, ai desideri, alla spinta delle pulsioni che si combinasse con il pericolo per un po’, ma anche evolvesse verso qualcosa di più solido dell’amore romantico. E rivolgersi alla specie non era sbagliato, come non era sbagliato andare e parlare lingue nuove. C’era un sottointeso mutare che prendeva consistenza e diventava società. Era stato così più volte nella storia dell’umanità ma mai con così tanti mezzi in campo e tanta indeterminatezza del futuro. La domanda da porre e porsi era: come poteva essere nuovo il mondo senza un nuovo uomo e senza un amore dato e ricevuto che aggregasse, rendesse più vivibile la vita. In fondo tutto questo era accaduto per ignavia, per non aversi saputo opporre a un mondo divorato dagli interessi di pochi e se questi fossero continuati avrebbero divorato gli uomini e l’amore. Così capiva che il tradimento banale che aveva originato quel dialogo in Americanah, era stato un incespicare nella difficoltà di avere idee chiare su di sé. E le idee chiare nascevano dal coraggio di scavare dentro ovunque si fosse, non solo dall’andare. Che la morale stessa, le forme dell’amore potevano nascere solo dalla ricerca che avveniva in ciascuno che cercava un altro che avesse lo stesso sentire e lo stesso afflato verso il mondo. Insomma l’amore al tempo della pandemia evolveva con questa e aveva il pregio di essere una cosa che dipendeva da ciascuno, non solo un insieme di norme e comportamenti. Che accadeva all’amore quando si sarebbe cambiato il permanere in un essere cambiati e nomadi. Questo dava una prospettiva a un nuovo genere umano che si spargeva ovunque e trovava risposte nette per sé. E tutto questo gli pareva si fosse messo in moto e mutasse il mondo. 

tra pioggia e portici

La pioggia aveva spinto tutti sotto i portici. Chi col bicchiere in mano, altri con la compagnia dell’affanno d’una corsa recente, pochi con la cartella o un fascio di giornali. Bagnati i maglioni a righe grosse, i capelli e il viso, la barba; la pioggia era un gel che s’era abbarbicato ai peli. Bagnati gli impermeabili, fastidiosi gli ombrelli che non si sapeva mai dove mettere e appesi al braccio gocciolavano nelle scarpe. Imperava su tutto una musica nuova e insieme antica: un vociare sovrapposto, come di animale che dorme e alita rumoroso, risuonando riflesso dalle volte a botte o a crocera dei portici. Tutti avevano da dire e tutti nello stesso tempo, così s’incagliavano i discorsi, le voci si alzavano e spezzavano i ragionamenti. Nessuno ascoltava davvero, neppure quelli zitti, tutti presumevano e andavano alle conclusioni non dette e replicavano. Ciò che non era ancora detto diventava asserzione senza padrone. E così tutti avevano da dire, o assentivano o negavano in un muoversi di mani e di teste davvero singolare, da studiare in una specialità comunicativa nuova, ovvero quel dire contemporaneo e sovrapposto di teste e bocche e braccia che erano in competizione verbale ed esprimevano un senso e uno stile che ricomprendeva un’età. 

Le ragazze erano parte di questo mescolarsi di voci e bagnato. Meglio attrezzate, con cappucci e impermeabili di nylon, si esponevano di più, erano impavide, consce e già pronte ad andarsene per loro conto a casa di qualcuna. Non avevano bisogno dei maschi, non di tutti. Di quelli interessanti sì, e forse di qualcuno in particolare, ma era cosa loro. Avevano idee e consapevolezze nuove, libertà inusitate che stupefatti capivamo in un senso semplice: era finita un’idea su cui non avevamo mai riflettuto, quella dei vantaggi dell’essere maschio e il nuovo, loro, ci ricomprendevano in modo diverso. Questo ci confondeva, ma anche affascinava profondamente, come un’avventura di cui non vedevamo il limite. Era un orizzonte senza una linea che lo contenesse con infiniti colori che ne descrivevano la voglia di andarci. Comunque, le ragazze, se ne sarebbero andate, tutte o quasi, e chi restava si sarebbe ricomposto e ammucchiato a discutere e bere, finché finiti i soldi, sarebbe rimasto il parlare, il freddo incipiente e la pioggia, e il restare, perché le case a cui tornare non sembravano mai accoglienti ma erano una tana. Un rifugio, per poche ore e poi fuori di nuovo, all’aria, alla pioggia. Immemori e colpevoli degli impegni non onorati, delle fatiche evitate, alla ricerca del desiderio che diventasse concretezza e poi fare, essere, soddisfazione, dubbio, novità e problema. Animali senza una traccia da seguire che non fosse quella usata per anni e poi arricchita in aggiunte di amici, di bere, di fumo, di discorsi senza limiti che comprendevano l’utopia e la ragione. Parole, approfondimenti, incazzature e rotture infinite, in un prendersi e lasciarsi che spingeva in avanti il discorrere e l’andare in una specie di formalizzazione di ciò sarebbe accaduto. Un flow chart delle azioni essenziali di quella nostra età, per poi raccontarlo e capire che era un non essere mai andati via, ma solo un argomento e un sogno da realizzare in una vita ancora aperta e piena di possibilità. Un luogo del tempo, della stagione, del ridere e della miseria della condizione giovanile. Questo era il tema che assorbiva tutto: la miseria della condizione vissuta, con libertà piene sulla bocca dei più vecchi e invece piccole prigioni da cui fuggire per chi era consapevole che era prima di tutto un esercizio verbale. Una costruzione di mondi possibili, di speranze e di delusioni infinite che si spaccavano in mille maledizioni e poi ricominciavano daccapo.

 

alla ricerca dello yoghurt perduto

Le latterie non esistono più. Qualcuna ne porta ancora il nome ma è altro da quei luoghi fatti di una stanza con le pareti di bianche piastrelle, 20×20, fino ad altezza braccio teso verso l’alto. Là dove lo straccio imbevuto di varecchina e l’invocazione per l’artrite incontravano una cornice blu che chiudeva l’ambito del pulito. Sopra tutto, vegliava e illuminava il neon da 40 watt e ad esso, in campagna, s’aggiungeva il rotolo di carta moschicida coperto di incauti insetti. Presidio igienico del cielo per sanare l’ambiente.

In latteria si comprava il latte, sia quello non pastorizzato da versare in recipienti portati da casa che quello in bottiglia, pastorizzato. Erano bottiglie costolute, dal collo largo, coperte da un tappo di stagnola con la data di scadenza e vuoto a rendere. Rompere la bottiglia del latte per strada portava male, non che avesse influssi sul futuro, ma poteva comportare qualche sberla utile ad incarnare l’attenzione, quindi massima cura nel trasporto e sulle scale da fare con attenzione. Il lattaio portava anche il latte a casa, ma c’era un sovrapprezzo e quindi si preferiva la libera latteria. In questa stanza bianchissima, impudica dietro una vetrina spoglia di cose, oltre al latte c’erano dolcetti de poche: pescetti, cordoni di liquirizia, farina di castagne in bustine, pastiglie alla menta, boli gommosi, “more“di vari colori. In bella mostra delle paste secche sotto una campana di vetro o in una vetrinetta, erano dolci che resistevano al tempo, occhi di bue con marmellate dure al centro, frolle a losanga o tonde, con ciliegia o senza, sfoglie perplesse che piano perdevano consistenza, e c’era anche un’ imitazione del millefoglie farcito con una crema bianchissima e appiccicosa. Queste dolcezze non erano prive di effetti secondari in relazione alla vetustà e al caldo di stagione. Le mamme le proibivano, e ciò ne aumentava il fascino ben sapendo che chi sgarrava veniva punito o meno dal caso e dalla pancia.

Le latterie più evolute avevano anche la macchina per il caffè, erano un quasi bar già presagio sulla loro evoluzione. Altre, più ruspanti affiancavano dolci da fetta, fatti in casa, con un inconfondibile odore di uova poco fresche e una densità elevata. Se ci fosse stato allora un test granulometrico per dolci, queste fette avrebbero potuto fare da unità di misura: tutto quello che si poteva produrre in casa, avrebbe avuto densità inferiore e qualità maggiore. Anche di questo le mamme e le nonne andavano fiere. E mentre distinguevano bisbigliando i dolci portati in omaggio, tra quelli di pasticceria e quelli di latteria, con fierezza non li compravano. Nella latteria erano poi allineati, sul banco di vetro e su uno scaffale, dei vasi esagonali di dimensioni importanti che contenevano biscotti secchi dai nomi esotici, marie, petite beurre, oswego, baicoli, savoiardi ma anche dei biscottoni enormi da inzuppo e meraviglia delle meraviglie, i wafer. Uno per premio se accompagnati, due se da soli e si riusciva a fare la cresta sul prezzo del latte. Il gesto con cui la lattaia col suo camice bianco, apriva il vaso e con le stesse dita che avrebbero ricevuto monetine e banconote consunte, prendeva con delicatezza il biscotto e lo porgeva, sembrava un rito che produceva già dal gesto il piacere dello sgranocchiare successivo. Piano, a bocconcini piccoli, si mangia per piacere non per fame. È vero, la fame era altra cosa e si sarebbe saziata con cose molto più consistenti, ma il piacere fugace e immediato aveva una sensualità che prefigurava cose oscure di cui non si sapeva nulla, ma che certamente c’erano nell’età in cui, liberi, si sarebbe potuto avere la completa sazietà del proibito.

Poi in contenitori da mezzo litro e da un quarto, negli anni ’50, apparve un’ evoluzione del latte, lo yoghurt. Anch’esso in recipiente dalla bocca larga ma con una densità molto maggiore del latte e una vena acidula che dapprincipio lo faceva respingere, ma che poi il gusto chiedeva di riprovare. Quel sapore, donato come assaggio da una bella ragazza in un camice aderente e bianchissimo, era stata la scoperta in una di quelle fiere campionarie che portavano le novità dal mondo al nostro Paese Fu classificato in casa come americanata e ciò bastava per l’embargo, ma di fronte alle innumerevoli proprietà benefiche che venivano enumerate, magari un assaggio si poteva fare. Assaggio, rifiuto, embargo, contingentamento. Ovvero come rendere piacevole una cosa altrimenti da scartare, collocandola nell’olimpo dei desideri. Ne parlavamo tra noi ragazzini, e c’era chi lo mangiava ogni giorno senza grandi benefici però il fatto che tra le virtù ci fosse quella di far scomparire gli incipienti bruffoli pre adolescenziali lo rendeva comunque un oggetto del desiderio. Così una volta a settimana una bottiglietta di yoghurt veniva acquistata e consumata. Effetti prossimi allo zero, ma se anche le ragazzine se lo spalmavano sulla pelle per rendere morbido ciò che già era morbido come essere da meno?

Parlo di uno yoghurt che non assomiglia minimamente alle bevande e ai prodotti di culto odierni. Acidulo e denso ma non solido, con un sapore persistente e un senso di sazietà che durava almeno per l’intero contenuto e che era un’ evoluzione del solito latte mattutino, un omaggio alla modernità che avanzava e che proprio da quelle nuove bevande cambiava le latterie. Infatti nelle vetrine prima spoglie, sulle mensole di vetro cominciarono a vedersi cioccolatini di vero cacao e non più quei cremini di surrogato di cioccolato per la merenda delle 16. Scatole di caramelle che sbiadivano in attesa di compratori, persino uova di Pasqua piccolette che superavano indenni la festa, ma la latteria evolveva, e adesso vendeva coca cola da un frigo rosso a pozzetto, aggiungeva cose salate e manteneva, per gli estimatori, i biscotti nei barattoli. La vetrina si arricchiva di giocattoli minuscoli in plastica, si consegnavano raccolte a punti, e da sotto il banco il caffè veniva corretto con prugna o con fernet. Insomma con lo yoghurt si era spalancata l’evoluzione della latteria che era un po’ l’evoluzione della specie.

Adesso lo yoghurt lo faccio in casa, è bello denso, ricco di fermenti e di probiotici, gli enzimi fanno il loro lavoro silente e allegro, ma ciò che ogni volta voglio ricreare è il sapore di quello yoghurt che non fanno più da nessuna parte, che non faceva passare i bruffoli, che sembrava essere il nuovo che entrava in un mondo ancora con la carta moschicida e le paste secche. Non mi riesce e non si trova perché non ci sono più le latterie, e allora per chi lo farebbero quello yoghurt, quelle bottiglie di vetro spesso con la bocca larga e il tappo di stagnola? E che novità avrebbero questi luoghi per i sazi, i soddisfatti che hanno miriadi di biscotti e dolci da rifiutare. Ecco perché credo che con lo yoghurt siano cominciate a morire le latterie, era il nuovo che si spostava altrove e rendeva inutile tutto quel bianco, quel pulito di piastrella, quei dolci rari, poco buoni ma  semplici che erano il preannuncio di altri desideri e piaceri. E sarebbero venuti a loro tempo, come la libertà di viverli, questa era la speranza che chiudeva all’età passata e apriva alla nuova.

cose un po’ fruste

 

A volte mi commuovo. Senza una ragione apparente, si affolla ciò che è stato ed è poi altrimenti evoluto oppure s’è spento senza far rumore, come accade a chi parte e poi non torna. C’erano state promesse e speranze, ma sin dall’inizio si sapeva che quel salutarsi era un addio. Un chiudere che l’illusione e la speranza rendevano meno doloroso, ma era nell’aria, nelle parole trattenute, nello scambio che durava molto più di quanto sembrasse necessario. Questo è il farsi delle scelte, del caso e di ciò che accade, la testimonianza di aver conosciuto e profondamente vissuto che resta dentro di noi con quell’insoluto che ogni scelta ha comportato, ogni pienezza ha generato, ogni cosa ha incorporato. Dovrebbe bastare, ma non è mai abbastanza come accade in tutti gli amori, compreso quello per ciò in cui si è creduto con tale forza da piegare il desiderio, da posticipare la necessità. Di questo, nella mente e attorno a me c’è larga traccia e così mi prende una vaga nostalgia per il contenuto delle cose che non sono mai davvero tali per chi le conosce per davvero. Per chi le ha scelte, le ha tenute appresso e consumate con l’attrito che genera quel rapporto che non è mai solo uso, ma piuttosto un parlarsi, un gettare tra l’inanimato e il sentito, un dialogo.

Guardavo fuori, la campagna che s’accosta alla città, che si ricorda di ciò che era nei fossi e nei campi appena arati. Che ha piccole macchie d’alberi selvatici, testimoni di litigiose eredità oppure d’attese di cambi di piani regolatori già troppo permissivi. Nel tramonto guardavo il cielo che s’aranciava di luce e nubi strette, il pensiero andava al rumore del legno che brucia nei fuochi improvvisati nella spiaggia e vedeva, e sentiva, il crepitio dell’alta catasta dell’inutile che bruciava a bordo del campo.

Nei ricordi e nel presente, ho un filo e nessuna traccia, uno svolgere che non tesse perché non conosce chi sia all’altro capo. Non è forse questo il gioco di ciò che è ancora in attesa di noi, che aspetta per dirci, non il consueto e l’abitudine ma il nuovo che vorrà coinvolgerci? Parlo a me, alle cose, al buio e alla luce. Ricordo. Un ricordo qualsiasi.

Quella mattina era poco dopo l’alba quando cominciammo a camminare. Era luglio e il caldo ci avrebbe colti per strada, ma con buona parte del cammino fatta. Era già un’avventura fare colazione mentre fuori c’era la notte. Fremevo impaziente, nei calzoncini corti avevo i pochi soldi per il ritorno in treno, un coltellino, uno zainetto di tela verde con l’acqua e due panini. Chissà come avevo convinto mia madre che sarebbe stata una camminata lunga e sicura. Forse perché eravamo in tre coetanei e le madri si parlano e si sorreggono nel convincersi. Uscimmo e andammo. Poi, appena usciti dalla periferia, c’era la strada, polvere, campi, paesi sconosciuti, fontane con acqua fresca e una meta. Quanto parlammo. Mi resta solo l’impressione del parlare perché avvenne ed eravamo in fila, scherzando ininterrottamente su quella strada con tre diversi motivi per farla. Chi voleva ringraziare per la promozione ottenuta, chi per dimostrare l’indifferente vigore fisico, chi, ed ero io, il bisogno d’esserci senza avere un merito né qualcosa per cui ringraziare. Forse volevo connettere qualcosa che da tempo era disgiunto e non trovava sintesi. Un sentire differente che implicava un passaggio attraverso qualcosa di banale e più grande, com’è per ogni iniziazione. E io non sapevo cos’erano le iniziazioni, non sapevo nulla delle discontinuità del tempo, dello strapparsi della tela che mi sembrava così determinata, conseguente e sicura nel suo andare da qualche parte e poi improvvisamente ti lasciava solo davanti a te.

La nozione dell’ignoto, chissà davvero quando si matura, diventa una scelta che accende le guance, rende urgente l’andare, chiude ciò che precede e spinge incoercibilmente oltre. Per alcuni non viene mai ma lei, la nozione, ci prova e quando si è bambini o poco più, accade che ci sia un protrarsi dell’insufficienza propria, del sentirsi inadeguati, né una cosa né l’altra soddisfano appieno. Allora servirebbe ci fosse chi capisce che si è sull’orlo dell’ignoto, chi aiuta a decifrare le parole che non si conoscono, chi ridà un senso a ciò che si rifiuta e renderà fulgida parte della vita che si vive e si vivrà. Ma così non accade e non era così quella  mattina, né lo è stato per molto tempo innanzi e forse neppure ora. I segni di un’antica lotta non si cancellano mai, al più s’imbellettano sotto altro finché non diventano cari.

Comunque, con i piedi stanchi e gonfi arrivammo, facemmo il lungo portico in salita. Ci inginocchiammo nella chiesa. Ciascuno pensò qualcosa, ma non per molto, e uscimmo. Fuori c’era il sole a picco del mezzogiorno, una vasca colma sotto la fontana in cui immergere i piedi a turno, l’acqua fresca e un prato in cui stendersi sotto un albero a piedi nudi a guardare il cielo tra le foglie. Ricordo il silenzio tra scoppi di parole. I propositi per la sera, le prese in giro scherzose e quel silenzio in cui ciascuno metteva l’utile e l’inutile di quei 40 chilometri di fatica. Il senso. Perché c’era un senso che riguardava ognuno di noi. Non me ne accorgevo ma le vite un po’ si separavano. Una bocciatura, un andare al lavoro prima d’altri, un percorso di vita che seguiva per ciascuno un daimon differente. Eravamo amici e lo restammo a lungo, ma le vite andavano seguendo un filo di cui si aveva solo il capo dopo che i nodi dell’infanzia, delle prime avventure, si erano sciolti in piccole distanze. Avevo un coltellino rosso, piccolo e affilato quanto bastava per fare la punta a un bastoncino. Lisciarlo della corteccia e lanciarlo verso il cielo, oppure ricavarne una fionda per future imprese. Credo di averlo fatto anche allora, ridendo perché ormai eravamo troppo grandi per quelle cose. Nel primo pomeriggio tornammo verso la stazione, e in treno verso casa. Già la sera non fummo insieme. Quel coltellino c’è ancora, consumato e messo in un cassetto. Non può dire nulla a nessuno se non a me, non può sciogliere nessun nodo se non i miei. Forse per questo a volte, senza ragione mi commuovo, perché le cose un po’ fruste e invecchiate con me mi ricordano altro ed è difficile, forse un delitto buttar via, parlo dei ricordi, ciò che per poco non è stato, oppure lo è stato davvero ma non come avremmo voluto.

Sono i nostri piccoli fallimenti, le ferite che c’hanno fatto male e insegnato, che tracciano una mappa di ciò che abbiamo camminato. La nostra mente conosce bene quella mappa, la dispiega, e se la guarda bene, vede che sono loro, i nodi di ciò che siamo, che ci chiedono di camminare ancora. 

 

non senza fadiga si giunge a la fine

Il garbin, la quasi tramontana si è girata in scirocco. Mutevole il vento, immagine di una stagione che non ha tante idee ferme. Così a Venezia la marea era indecisa e si è fermata un po’ sotto alle previsioni, ma abbastanza alta da far danno e creare ulteriore ansia. Come gli amori pervicaci non finisce e morde pietra e legno, rispecchia le luci, bagna le piazze, si insinua corrosiva nelle case.

È tempo di auguri e tornano alla mente cavalcate scomposte fatte di visi, di ricordi, di sensazioni senza nome. Le conoscenze che non sono mai state amori sono corde annodate, nodi laschi che si dissolvono e lasciano oppure si stringono. Mai alla gola ma in quel tronco, che tronco non è, dove si dispongono in buon ordine e corrono, nervi, segnali elettrici e chimici, dal cervello alle membra, al corpo, agli organi che fanno il loro mestiere, ma esigerebbero cura, attenzione d’emozioni, ascolto.

Andare a Venezia, come la scorsa settimana, per scoprire il silenzio delle calli stranamente senza turisti frettolosi, parlare con calma agli amici. Sentire il loro abbraccio che già si prolunga in avanti e coglie la coda del prossimo anno. Anno bisesto anno senza sesto. Come se gli anni precedenti avessero avuto una direzione, un andare preciso, un sesto festoso di futuro… Riprendo antichi auguri. Sono sempre buoni, ma attorno le cose mutano in fretta, indecise e vischiose. Incapaci di liberarsi della scoria della paura. Incapaci di speranze forti, di mani fidate per carezze e per guidare.

C’è chi forte, magari per paura, lo è da sempre, e chi per scelta, non lo è diventato mai.

C’è chi si è nascosto così bene che quando s’è cercato non c’era più da tempo e chi da sempre è stato in bella vista, ma l’hanno visto sempre poco.

C’è chi ha avuto momenti d’amore, così intensi che gli sono bastati per tutti gli anni a venire e chi, invece, quando vengono, non gli basteranno mai.

C’è chi dice che non ne val la pena e sta a guardare quel che accade e invece c’è chi sbaglia ogni volta un poco, ma si getta nella mischia per cambiare.

C’è chi ha avuto grandi passioni ma poi gli son passate, e chi proprio per le stesse passioni continua a pensare che sono la vita degna d’essere vissuta.

C’è chi è felice a Natale e nelle feste che stanno per venire, c’è chi cerca di essere felice ogni giorno dell’anno. 

C’è chi si entusiasma e poi gli passa, c’è chi per ogni entusiasmo cerca una ragione perché duri.

C’è chi è solo e si riempie d’ amicizie che durano una notte, c’è chi sa di essere solo e cerca di farsi compagnia.

C’è chi ti dice sempre cosa fare e chi invece non ha mai davvero una risposta, però non smette di starti accanto.

C’è chi fa centinaia di auguri perché a Natale così si usa e c’è chi gli auguri li fa ogni giorno a chi vuol bene.

C’è il Natale, capodanno e l’Epifania, che le feste porta via, e c’è chi ogni volta che c’incontra ci fa festa.

Pare che non ci siano più partiti, che le differenze non contino più tanto, ma io che non ci credo e posso permettermelo, sto col partito degli inermi, dei deboli, dei consapevoli. Sto con quelli che non hanno gli auguri facili e che ogni volta ci pensano per farli. Sto con quelli che davanti a una pagina bianca hanno la penna che si raccoglie nei pensieri perché vuole scriverci il cuore. Sto con quelli che stanno spesso zitti, ma che parlano guardandoti negli occhi, che non hanno nulla da dimostrare, che non si vergognano di aver bisogno d’essere amati, che tengono come cara e imprescindibile la dignità propria e di chi gli sta davanti. Quelli che non hanno verità da imporre, tweet entusiasti da scrivere più volte al giorno, che sanno quanto faticoso e paziente sia l’esercizio della speranza, che si mettono a disposizione per ogni causa che ritengono buona, che non si contano per decidere se ciò che pensano è giusto, che portano avanti la vita con chi gli sta accanto e cercano che sia migliore per tutti.

Sto con quelli che si preoccupano della salute del pianeta, dei loro figli e nipoti e degli uomini che non conoscono ma sentono che sono uomini come loro.  Sto con quelli che non hanno bisogno di auguri perché ogni giorno con fatica li creano. Tutti questi li abbraccerei volentieri e a loro va il mio augurio perché le vite ci tengano assieme e che ci ricordiamo, loro e noi, d’essere davvero tanti.

C’è confusione attorno, frotte di persone seguono le stesse strade, stanno sotto le stesse luci, gli stessi addobbi. Le vetrine s’assomigliano, i negozi di intimo si tingono di rosso, nelle botteghe sotto il Salone rifulgono pile di cibi colorati. Mostarde e mascherponi montati con cura, formaggi con alfabeti colorati e arcani che parlano delle loro maturazioni, carni impudiche che si mostrano ordinando cotture lunghe e minuziose. Fuori le verdure si mettono in ordine, attendono, assieme ai coni di secchi legumi e alle polveri colorate delle droghe. È l’opulenza del commercio non la festa, ma la festa ha sempre portato con sé la trasgressione e il sonno che ordina sempre quel tronco ordinato che ci sovraintende e che sospende il pensiero. Non dobbiamo pensare, sembra suggerire, perché la festa sparirebbe. Si vedrebbe una realtà senza luccichii, né colori rutilanti. Ci si accogerebbe che molto è uguale e che manca ciò che conta per timidezza e poca ostentazione, ma quello lo portiamo con noi. È il nostro bagaglio dell’anno, non un peso ma quella guida che, al contrario del vento, non muta. Non porta l’acqua dove vuole, la tiene al suo posto, toglie il sale e sciacqua la nostra piccola casa. Un fortilizio oppure una tenda che sarà accanto in ogni notte stellata. Mi chiedo se ancora ci sarà quella persona vestita del bianco abito dei lebbrosi, all’angolo di una strada di Asmara, se la sua pazienza di vivere sarà durata tanto a lungo, se qualcuno si sarà preso cura di Lei. Mi chiedo dei bambini che giocavano sulla spiaggia con un pesce ormai secco, che ridevano per le macchie di petrolio che scivolavano dalla sabbia in mare. Mi chiedo se questi pensieri oziosi non abbiano la funzione della fune che ancora salva l’umanità che ciascuno possiede. Se il poco che ciascuno di noi deposita in una direzione comune non costruisca un paesaggio diverso che google map non riuscirà a vedere. Un paesaggio di coscienze, di anime che hanno quel tronco in cui tutto si ordina sin dall’inizio e che è il cervello con le sue leggi fonamentali. Mi chiedo del bisogo di silenzio che segue la confusione, che accompagna la trasgressione, che glorifica il corpo e lo spirito quando li tiene assieme. Mi chiedo del portolano che scrivo, della commozione che provo, del condividere il poco che si riesce e al tempo stesso vivere. Si può fare di più, quel che è possibile, basta non perdere ciò che ci tiene assieme, la speranza che muterà. Che anche la nostra piccolissima azione contribuirà a cambiare qualcosa, magari vicino a noi, magari dentro di noi. E che chi ci è vicino sentirà il sospiro che libera e che accoglie, che in qualche raro caso si fa parola.

A voi tutti i pensieri che vi servono, la strada che vi fa vedere il mondo e voi stessi assieme, l’amore che vi serve, la serenità che fa camminare e vivere.

una selva di cuori spezzati

Della giovinezza una costante rimane:

una selva di cuori spezzati,

di cocci mostrati impudichi al sole,

camicie azzurro pallido e candore sotto tailleur finto Chanel,

e polo e maglioni e jeans ed eskimo

e sciarpe d’autunno multicolori

e abbronzature salse di pelle e di mare.

E ancora una selva di cuori spezzati,

ricomposti, trepidanti, incollati.

Appesi ad un ramo, caduti, risorti, orgogliosamente svettanti,

graffianti nel cielo

e poi accoccolati, paurosi, dall’azzardo turbati,

ma dolcissimi

finché una canzone li avvolge

e cantando a squarciagola, rimangono teneri, ridenti e stonati.

 

confessione alla stagione del gelsomino

Ho conosciuto l’amore che toglie la precisione, m’ è rimasta la passione per ciò che è simmetrico e imperfetto, per ciò che si rimanda per poca voglia, per il tempo dissipato nell’apparente nulla. Ho confuso i sogni con i progetti, usato matite molto grasse, dal segno obeso, per scrivere parole che dovevano solo suggerire. Tenendo ben presenti i numeri non ho concesso loro il futuro che avrebbero preteso, mentre  sono stato avaro nel gettare ciò che poteva aver vita. La notte l’ho mescolata con la mattina, senza lesinare per alzarmi presto. 

Mi sono preso cura e molto più spesso ho ricevuto attenzioni immeritate. Quasi mai chi mi ha lodato ha avuto la mia approvazione, sentivo cose che s’agitavano sotto le parole e portavano domande inopportune. Ho esplorato dentro e ho ascoltato, scialando il tempo. Non me ne sono subito pentito, ma dopo, almeno per un poco sì, m’è sembrato d’aver tradito, ma cosa e come, davvero, non l’ho capito. 

Spesso mi sono sorpreso di ciò che trovavo in me, e non tutto era buono, però ho portato pazienza e speranza assieme. Non fa così il giardiniere che pota e parla a una pianta con l’oscura sofferenza del vivere. Le racconta la gioia del fiorire, le muove appena la terra, toglie i parassiti, la osserva con occhi amorosi, e cercando d’ indovinarne bisogni, perdona sempre  le sue piccole intemperanze. Così  per me è stato, e ogni anno attendo la stagione del gelsomino, quando l’aria è tiepida e il bianco compie il miracolo nel suo profumo che perdona la passata stagione e attende quella che verrà. Così penso sia la cura e la ricerca di ciò che sono.

all’osteria del libero amore

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I colombini, dopo aver depresso i tulipani, crescendoci sopra e stortandoli senza riguardo, sono volati via. Metaforicamente volati, visto che artigliano con piacere la ringhiera e si rituffano tra le piante e insozzano il terrazzino. Pare che questo luogo sia favorevole ad amplessi e idilli, agli amoreggiamenti di colombi incontinenti.

Insomma mi trovo ad essere l’osteria del libero amore dopo tre covate che s’incrociano Kamasutramente tra di loro.

Spero nella pioggia, nella nascita dei tulipani e delle fresie, spero che si riprenda l’elicriso che vedo un po’ provato dalla cova.

Il rosmarino, pusillanime, ha ceduto le armi, resiste il timo e la ruta, furoreggerà la menta impavida. Forse i peperoncini mi faranno il regalo della loro autosemina.

Discosti e per loro conto, due piante di lantana, attendono sornione il primo accenno di tiepido costante.

E i colombi di tre generazioni impazzano.

30 settembre 2016

Amica mia cara,

ho messo l’inchiostro mocha nella stilografica, dismettendo il nero che da troppo tempo tempo rendeva i pensieri più netti sulla carta. Li pensavo dubbiosi e aperti, i pensieri, e loro con quel nero diventavano senza alternative, tanto che alla fine mi sentivo chiuso dalla mia stessa logica. Privato del dubbio. Così ho tolto il nero e sostituito anche le tende estive con queste più chiare che ora si gonfiano di luce. Sul mio tavolo, sempre troppo ingombro di sollecitazioni, di malie, di carte e ritagli, di penne, matite, c’è ora una luce calda che fa risaltare le possibilità del disordine. Interiore ed esteriore, come ai bei tempi. Però attorno vedo le cose in fila, consequenziali, e per quanto capisco, vorrei scriverti del loro stato. Mettere dei punti fermi in questo fluire dove tutto è relativo e il seguente annulla ciò che l’ha appena preceduto. Non è il panta rei eracliteo, quello che ci attornia, è un percorso di singulti, un film tagliato a pezzettini e rimontato, dove la ricerca del senso, alla fine, ci lascia disorientati e un po’ più soli. Non l’avevamo previsto, vero? Non io almeno e neppure tu, anzi ci pareva che tutto dovesse aprirsi, includere, essere più libero e crescere nel nuovo, invece nessuna di queste attese si è avverata, e ci troviamo stanchi e pieni di dubbi. Su di noi, anzitutto, mentre ci sono avversari agguerriti che sfondano il fronte delle certezze, che conformano nuove abitudini, che irridono e rendono ridicoli gli sforzi per tenere assieme, discutere, riflettere. Ricordi? A noi sembrava che questa fosse un’educazione permanente, un modo per andare avanti tutti assieme. Ora non importa chi è avanti e chi indietro e così emerge un disagio sterile, senza analisi né cura, un confronto di infelicità che trovano consolazione in chi sta peggio.

Mi chiedo quante categorie, quanti punti fermi siano rimasti di ciò che abbiamo vissuto. I tuoi anni ti sono molto più amici dei miei, ma non ci si badava poi tanto allora e la tua vita è stata un affermare la diversità, la necessità di essere te stessa. È una parte grande della tua bellezza, del fascino che porti con te, ma credo che anche tu avverta che ora è più difficile essere se stessi. Adesso è più complicato appartenere a uno di quei gruppi tumultuosi che piacevano ad entrambi, dove la discussione durava fino a tarda ora, irta di logica e avvolta di passione.

Dove farla questa discussione, adesso ?

Dopo le riunioni, inzuppati di fumo, uscivamo e sotto qualche luce e balcone si continuava finché non c’era la protesta o il catino d’acqua di chi andava a lavorare presto e ridendo si tornava a casa. Anche noi andavamo presto al lavoro, ma quel tempo ci sembrava irripetibile e prezioso. Ci pareva di essere nel mondo, di contribuire a cambiarlo.

La distinzione era quella di Eco, tra apocalittici e integrati, adesso è tra digitali e analogici. Credo di essere irrimediabilmente analogico, di ragionare sempre per alternative con una pluralità di possibilità. Hai mai pensato a come cambiano i ricordi tra l’analogico e il digitale? Il nostro ricordo interagisce sempre con il presente, ne è modificato. Anche la scelta dei ricordi emerge da un sentire o da domande apparentemente scollegate. Il digitale, invece, è un processo logico, si sa cosa si cerca. E lo si trova nella sua incontrovertibilità, nella precisione delle parole e delle immagini che riportano date e minutaggi, persino il luogo diviene certo, e tutto ci mette soggezione con la sua definitività. Forse per questo lo accumuliamo, perché sembra un punto fermo e ci parebbe di cancellare ciò che siamo stati, ma alla fine di tutto quel documentare non si sa che farsene e lo si sente un giudice severo e sterile più che un amico che cresce con noi e ci modifica. Insomma è inutile come una cattiveria. E così accade in molto d’altro che un tempo faceva parte dell’universo del pressapoco ed ora è così preciso. A noi pareva ed era già molto, le cose si precisavano strada facendo, spesso mai del tutto, ma una direzione c’era.

Cosa ci sta accadendo amica cara, perché siamo così soli, contrapposti, insicuri e senza l’idea di dove vogliamo andare? Mi ripugna e respinge, sia il pessimismo che livella tutto in un male già vissuto e l’ottimismo forzato che non guarda la realtà, il disagio, la sofferenza. Credo che i cinici siano un po’ vigliacchi, per non soffrire si ritagliano uno spazio da cui osservare la sofferenza altrui e si congratulano con se stessi di esserne fuori. Anestetizzati, non aiutano nessuno, perché la sofferenza deve fare il suo corso. È la vita, dicono. Ma anche gli ottimisti forzati hanno una caratteristica che non me li fa sopportare, sono infingardi e perseguono la cecità selettiva. Confondono la loro attesa con la possibilità reale e sono divoratori di presente. Lo mangiano senza ritegno sottraendo agli altri il futuro. Propongono il proprio modello come assoluto e dissipano le possibilità di essere assieme perché chiunque non la pensi come loro viene escluso dal migliore dei mondi possibili. Il loro. E non hanno dubbi.

Noi forse di dubbi ne avevamo troppi, tu sai di che parlo: troppe domande, troppo preoccuparsi per gli altri, per i compagni e per quelli che non lo erano. Eravamo davvero un’entità collettiva con pensieri, destini, desideri e bisogni singolari, ma assieme. Adesso il dubbio è stato spazzato via e ci pensa la realtà a fare giustizia. Come la fa lei, senza guardare in faccia nessuno.

Tempo fa avevo aperto un blog, essilio, in cui pensavo di raccontare le mie crescenti difficoltà all’interno del mio partito che sentivo mi sfuggiva e non rappresentare più l’area di pensiero, di attesa di futuro in cui, assieme a molti altri, mi ero formato. Vedevo questa emorragia silenziosa di passioni che si spegnevano, di ideali che diventavano un peso e un errore se confrontati ai risultati. Sentivo che il futuro per cui mi avevo lottato era caduto sotto l’orizzonte e la vita mia, spesa tra lotte sindacali, politiche, l’impegno amministrativo, il lavoro e le sue scelte sembrava se non sbagliata, inutile. Mi sono fermato dopo pochi post, perché mi sono accorto che facevo parlare l’amarezza e non l’analisi, che quello che scrivevo diventava il diario di una sconfitta personale e collettiva e che questa percezione era meglio lasciarla scrivere ai fatti, ai gesti, sennò ci sarebbe stato il livore e questo non me lo potevo, e volevo, permettere.

Però le cose mutano, amica mia, è passato un anno e tutto sembra così distante anche se in fondo i mutamenti li abbiamo davanti, non a consuntivo. Riprenderò a scrivere di politica, di posizioni mie, perché la politica è sentimento se riguarda il rapporto tra noi e gli altri; che non sono altri ma persone. Riprenderò a scrivere di sentimenti, di realtà come la vedo e quindi di dubbi. Mi manca molto la vicinanza, l’amore che sgorga dalle cose, gli occhi che si illuminano, la voglia di abbracciare e il silenzio che l’accompagna per condividere a fondo l’esserci. Mi manca questa dimensione che è parte di un condividere e che non possiamo riservare all’eccezione troppo spesso fatta di negatività, di disastri. Mi manca proprio il condividere, la parola, gli occhi che sorridono, l’ironia e la voce che tace in un silenzio che ancora dice. Mi manca, dico, ma intanto ci sei, e c’è la vita, ci sono le idee e noi, assieme a tanta stanchezza, indomiti. Ci sarà modo per dircele queste parole, e per me, di fare esercizio d’ironia per stemperare ciò che sembra troppo grande, ma so che ti piace ricevere lettere, meglio se scritte a mano, così ti scrivo. 

È il romanticismo che ci ha fregato, amica mia, o forse è stata la nostra grande risorsa. Comunque sia, è bello aver vissuto e vivere così.

Con un abbraccio che duri quanto serve e un attimo di più.

willy