un vecchio signore di provincia, ovvero il curriculum che preferisco

Un vecchio signore di provincia. Ecco quello che sono.

Mi piace la parola signore, come molte altre me l’ha insegnata mia nonna, prima in dialetto, sior, e poi in italiano. E aggiungeva la e finale per dare il giusto tono a ciò che evocava. Quella e metteva assieme il rispetto e la gentilezza, dovuti anzitutto agli altri, sennò che sior sarissito, uno de quei che gà solo più schei de i altri, ma no i xe siori dentro. E così insieme evocava il tratto un po’ distante che si doveva acquisire per chi cerca di capire gli altri ed è cosciente d’essere uomo.

Così questa ed altre parole fondamentali sono cresciute con me, si sono radicate nei significati, divenendo quasi ideogrammi di vita, sigilli per racchiudere contenuti ed esprimerli. Se gioventù sapesse e vecchiezza potesse, me lo ripete spesso un quasi coetaneo che guarda le cose con più distacco di me e ha un concetto del tempo più concreto del mio. S’approfitta, non di rado, della sua prima qualità e io ascolto e poi faccio a mio modo. Come sempre ho fatto. Come si fa ad essere vecchi? Mia madre a 92 anni non lo era e tantomeno mia nonna, entrambe avevano molto da fare con la vita, trafficavano con essa e le davano l’impressione che essa avesse il predominio nella cronologia degli anni, ma non era così.

Sempre mia nonna, mi insegnò che lo scorrere, il lasciar perdere si diceva transete in dialetto e non aveva una sola parola che lo traducesse in italiano, perché era un atteggiamento che faceva parte della nostra cultura nei confronti della vita. Poi scoprii che era venuto direttamente dal latino transeat e che aveva attraversato i secoli e le invasioni, annichilamenti di civiltà, le rovine domestiche sino a definire un modo di vedere nei confronti della vita e del tempo. Passa e scorre. Transete. Non badarci troppo. 

Ho tenuto lo scorre perché il flusso avvolge come un abbraccio e fa sentire chi è davvero vicino. Non è facile condividere in un flusso. Bisogna parlarsi nel movimento, lasciarsi intuire, avere tempi coordinati. Chi corre troppo si perde e chi rallenta per suo conto è impossibile aspettarlo, ma se la fortuna assiste una vena di un flusso ne incontra altre di simili. Con loro riesce a parlare, il che significa condividere la sostanza delle cose: quelle preziose, quelle a cui si tiene davvero. E che poi, a ben rifletterci, si racchiudono in poche parole. Ciascuna così densa di significato da essere un contenitore e ciascuna contenente molta ricchezza di umanità per riconoscersi. Questo non ha tempo, ma spera solo nell’occasione di trovare chi può capire, perché in un flusso bisogna rispettare per amare chi è vicino ed avere lo stesso tempo, e viceversa. Cosa non facile, ma possibile.

Per descrivere ciò che ho attorno, ho a disposizione un lessico che si è costruito deponendosi negli anni, come quelle rocce limose che solidificandosi mettono in mostra diversi colori delle stagioni passate. Anche per questo c’è una parola della mia lingua materna che mi assiste ed è ponà. Parola che dice l’accoccolarsi nella cuccia, l’appoggiarsi a un sostegno comodo, ma anche e soprattutto il depositarsi. E quando ne chiedevo ragione a mia nonna, lei mi spiegava che come il mare lentamente deposita cose poco consistenti sulla riva sino a farne un terreno solido al camminare, così le cose, con dolcezza, si depositano dentro di noi e diventano ciò su cui troveremo sostegno.

Sono un vecchio uomo di provincia, che lavora il necessario per dirsi che sa far qualcosa e che sta tra libri e altre cose poco utili. Uno che si arrabatta col tempo, che lascia depositare le parole e ne tiene alcune come importanti per davvero. E quest’ultima frase potrebbe essere il curriculum a cui tengo.