luoghi dove si mangia

Pantaloni neri, camicia bianca, a gruppetti i camerieri parlano, si muovono, non capiscono nulla del mondo fuori dal loro momentaneo occuparsi e sembra che lo scopo sia il movimento. Nei vicoli, nelle piazze, ristoranti in cerca di clienti, profumi forti e tavoli di antipasti troppo abbondanti. Resteranno giorni ad invecchiare immersi in finti oli di prima spremitura. Qualcuno osserva il menù, pochi si siedono, c’è spazio tra i tavoli adesso più distanziati per il covid. Lentamente, senza obbligo d’ora, in parte i locali si riempiono, gesti usuali. Togliere una giacca, avvicinare una sedia, distrattamente prende il pane dal cestino e sbocconcellare, osservando. Attorno si infittiscono i dialoghi, le voci si alzano e si abbassano, come onde di un mare che sta sopra le teste, che smuove l’aria di odori e di particelle d’unto. L’unto scende nell’anima, nel cuore, qualche Inquietudine emerge, i sorrisi vagano leggeri. Si parla e non si osserva. Quell’unto che il menù decanta nelle pietanze si rincantuccia negli angoli dove le scope non arrivano, inacidisce, penetra, fornendo il colore del luogo. Ogni luogo è la somma di un passato, di un guasto che si è trascinato in avanti sino a diventare identità. E chi ora è seduto, lo fa per novità, caso o abitudine, deciderà poi se mutare la condizione iniziale, conta il sapido o il raffinato scindersi dei sapori? Già essere seduti in un ristorante, vedere il muovere dei camerieri è una quasi novità che annuncia un mutare della situazione propria e altrui, si diluisce l’ansia dei mesi di cattività.

alla ricerca dello yoghurt perduto

Le latterie non esistono più. Qualcuna ne porta ancora il nome ma è altro da quei luoghi fatti di una stanza con le pareti di bianche piastrelle, 20×20, fino ad altezza braccio teso verso l’alto. Là dove lo straccio imbevuto di varecchina e l’invocazione per l’artrite incontravano una cornice blu che chiudeva l’ambito del pulito. Sopra tutto, vegliava e illuminava il neon da 40 watt e ad esso, in campagna, s’aggiungeva il rotolo di carta moschicida coperto di incauti insetti. Presidio igienico del cielo per sanare l’ambiente.

In latteria si comprava il latte, sia quello non pastorizzato da versare in recipienti portati da casa che quello in bottiglia, pastorizzato. Erano bottiglie costolute, dal collo largo, coperte da un tappo di stagnola con la data di scadenza e vuoto a rendere. Rompere la bottiglia del latte per strada portava male, non che avesse influssi sul futuro, ma poteva comportare qualche sberla utile ad incarnare l’attenzione, quindi massima cura nel trasporto e sulle scale da fare con attenzione. Il lattaio portava anche il latte a casa, ma c’era un sovrapprezzo e quindi si preferiva la libera latteria. In questa stanza bianchissima, impudica dietro una vetrina spoglia di cose, oltre al latte c’erano dolcetti de poche: pescetti, cordoni di liquirizia, farina di castagne in bustine, pastiglie alla menta, boli gommosi, “more“di vari colori. In bella mostra delle paste secche sotto una campana di vetro o in una vetrinetta, erano dolci che resistevano al tempo, occhi di bue con marmellate dure al centro, frolle a losanga o tonde, con ciliegia o senza, sfoglie perplesse che piano perdevano consistenza, e c’era anche un’ imitazione del millefoglie farcito con una crema bianchissima e appiccicosa. Queste dolcezze non erano prive di effetti secondari in relazione alla vetustà e al caldo di stagione. Le mamme le proibivano, e ciò ne aumentava il fascino ben sapendo che chi sgarrava veniva punito o meno dal caso e dalla pancia.

Le latterie più evolute avevano anche la macchina per il caffè, erano un quasi bar già presagio sulla loro evoluzione. Altre, più ruspanti affiancavano dolci da fetta, fatti in casa, con un inconfondibile odore di uova poco fresche e una densità elevata. Se ci fosse stato allora un test granulometrico per dolci, queste fette avrebbero potuto fare da unità di misura: tutto quello che si poteva produrre in casa, avrebbe avuto densità inferiore e qualità maggiore. Anche di questo le mamme e le nonne andavano fiere. E mentre distinguevano bisbigliando i dolci portati in omaggio, tra quelli di pasticceria e quelli di latteria, con fierezza non li compravano. Nella latteria erano poi allineati, sul banco di vetro e su uno scaffale, dei vasi esagonali di dimensioni importanti che contenevano biscotti secchi dai nomi esotici, marie, petite beurre, oswego, baicoli, savoiardi ma anche dei biscottoni enormi da inzuppo e meraviglia delle meraviglie, i wafer. Uno per premio se accompagnati, due se da soli e si riusciva a fare la cresta sul prezzo del latte. Il gesto con cui la lattaia col suo camice bianco, apriva il vaso e con le stesse dita che avrebbero ricevuto monetine e banconote consunte, prendeva con delicatezza il biscotto e lo porgeva, sembrava un rito che produceva già dal gesto il piacere dello sgranocchiare successivo. Piano, a bocconcini piccoli, si mangia per piacere non per fame. È vero, la fame era altra cosa e si sarebbe saziata con cose molto più consistenti, ma il piacere fugace e immediato aveva una sensualità che prefigurava cose oscure di cui non si sapeva nulla, ma che certamente c’erano nell’età in cui, liberi, si sarebbe potuto avere la completa sazietà del proibito.

Poi in contenitori da mezzo litro e da un quarto, negli anni ’50, apparve un’ evoluzione del latte, lo yoghurt. Anch’esso in recipiente dalla bocca larga ma con una densità molto maggiore del latte e una vena acidula che dapprincipio lo faceva respingere, ma che poi il gusto chiedeva di riprovare. Quel sapore, donato come assaggio da una bella ragazza in un camice aderente e bianchissimo, era stata la scoperta in una di quelle fiere campionarie che portavano le novità dal mondo al nostro Paese Fu classificato in casa come americanata e ciò bastava per l’embargo, ma di fronte alle innumerevoli proprietà benefiche che venivano enumerate, magari un assaggio si poteva fare. Assaggio, rifiuto, embargo, contingentamento. Ovvero come rendere piacevole una cosa altrimenti da scartare, collocandola nell’olimpo dei desideri. Ne parlavamo tra noi ragazzini, e c’era chi lo mangiava ogni giorno senza grandi benefici però il fatto che tra le virtù ci fosse quella di far scomparire gli incipienti bruffoli pre adolescenziali lo rendeva comunque un oggetto del desiderio. Così una volta a settimana una bottiglietta di yoghurt veniva acquistata e consumata. Effetti prossimi allo zero, ma se anche le ragazzine se lo spalmavano sulla pelle per rendere morbido ciò che già era morbido come essere da meno?

Parlo di uno yoghurt che non assomiglia minimamente alle bevande e ai prodotti di culto odierni. Acidulo e denso ma non solido, con un sapore persistente e un senso di sazietà che durava almeno per l’intero contenuto e che era un’ evoluzione del solito latte mattutino, un omaggio alla modernità che avanzava e che proprio da quelle nuove bevande cambiava le latterie. Infatti nelle vetrine prima spoglie, sulle mensole di vetro cominciarono a vedersi cioccolatini di vero cacao e non più quei cremini di surrogato di cioccolato per la merenda delle 16. Scatole di caramelle che sbiadivano in attesa di compratori, persino uova di Pasqua piccolette che superavano indenni la festa, ma la latteria evolveva, e adesso vendeva coca cola da un frigo rosso a pozzetto, aggiungeva cose salate e manteneva, per gli estimatori, i biscotti nei barattoli. La vetrina si arricchiva di giocattoli minuscoli in plastica, si consegnavano raccolte a punti, e da sotto il banco il caffè veniva corretto con prugna o con fernet. Insomma con lo yoghurt si era spalancata l’evoluzione della latteria che era un po’ l’evoluzione della specie.

Adesso lo yoghurt lo faccio in casa, è bello denso, ricco di fermenti e di probiotici, gli enzimi fanno il loro lavoro silente e allegro, ma ciò che ogni volta voglio ricreare è il sapore di quello yoghurt che non fanno più da nessuna parte, che non faceva passare i bruffoli, che sembrava essere il nuovo che entrava in un mondo ancora con la carta moschicida e le paste secche. Non mi riesce e non si trova perché non ci sono più le latterie, e allora per chi lo farebbero quello yoghurt, quelle bottiglie di vetro spesso con la bocca larga e il tappo di stagnola? E che novità avrebbero questi luoghi per i sazi, i soddisfatti che hanno miriadi di biscotti e dolci da rifiutare. Ecco perché credo che con lo yoghurt siano cominciate a morire le latterie, era il nuovo che si spostava altrove e rendeva inutile tutto quel bianco, quel pulito di piastrella, quei dolci rari, poco buoni ma  semplici che erano il preannuncio di altri desideri e piaceri. E sarebbero venuti a loro tempo, come la libertà di viverli, questa era la speranza che chiudeva all’età passata e apriva alla nuova.

d’inverno, gli storti con la panna

 

Preso per mano nel pomeriggio di domenica,
ad aggiunger festa, ci pensava mamma,
della mia bocca, nella sciarpa rossa, in attesa,
prima dello sfavillar della gelateria,
guardavo il fiato che si rapprendeva.
E tutto era dolce e di sapore pieno,
come l’anno appena nuovo,
senza lunedì di pena.
Mi chiedi d’adesso,
del vivere che ha impastato creta e gesso,
dei dolori e delle gioie rifiutate,
della speranza troppo spesso vilipesa
d’esser portata appresso,
posso dirti che fa compagnia
a chi fedele è restato,
fosse uno slancio, una fantasia, un abbraccio,
il resto se n’è andato col vecchio che ha pesato,
ed ora penso a ciò che potrà essere vissuto,
con la smemoratezza del bimbo
dagli storti con la panna, appagato.

dialoghi con la mezzaluna

La sua mano era piccola, le mie di più, correggeva il prendere e il tenere, raccontava calma il pericolo. Stava attenta. Ero su una sedia per arrivare alla stufa, mi lasciava apparentemente fare. In realtà soddisfaceva una curiosità sapendo che presto mi sarei stancato e sarei tornato ai miei giochi poco lontani. La vita d’inverno avveniva in cucina, tra vapori e profumi di cibi forti, giocattoli sul pavimento, libri e quaderni sulla tavola. Mia nonna aveva ironia e pazienza, accettava dal nipote discorsi sconclusionati, canzoni allegre, silenzi e caparbietà. E siccome lei cucinava spesso, accettava anche le curiosità e la voglia di provare. Se sto volentieri in cucina credo dipenda da quel suo rendere piacevoli e poco costrittive le cose, ma anche dalla magia del soffiare sui mestoli di legno a cui accostare le labbra per assaggiare. Credo dipenda dai sapori intensi e dal ruvido profumo delle tradizioni che soffriggevano e si consumavano in interminabili cotture, dal senso di casa che tutto questo generava come anticipo dello stare assieme a tavola.

Il gusto del cibo e del farne per altri e per sé, senza volerlo e per naturale affetto, questo mi è stato insegnato, con una libertà inusitata, ovvero quella del poter avere il poco e il molto, senza altra regola che non sia il piacere. Penso a come è nata una piccola attenzione alle dosi dopo molti intrugli sperimentati assieme, al senso dell’accordo tra il mio gusto e quelli che avrebbero condiviso. Ci è voluto molto tempo e doveva avere uno stomaco d’acciaio, mia nonna. Forse le guerre e le difficoltà l’avevano temprata, o era quel bene immenso di cui mi avvolgeva che la faceva pazientemente provare le cose che mettevo assieme. Quello che ho appreso è nato lì, con quelle mani che guidavano e dicevano che bisogna girare in senso orario la polenta, restando attenti agli spruzzi (i sbiansi) e tenendo fermo il caliero; il paiolo inadatto ormai ai nostri piatti fuochi, ma incomparabile per fare di una farina grossolana, dopo 50 minuti, una crema morbida. E penso all’uso dei pochi strumenti che erano nel cassetto e facevano tutto senza ausilio di macchine: anche oggi quando adopero la mezzaluna è con quel movimento strano che ho imparato allora, fatto di squilibri e forza, con il ritmo che bisogna trovare per non stancarsi e fare di un insieme di verdure riottose, un battuto.

Erano cose semplici e dense, che spesso avevano una naturale prossimità di produzione, destinate a essere consumate presto, fatte con misura ampia e semplicità, per saziare e aiutare a crescere. Non c’era la pornografia del cibo, il mostrare senza fare, l’esaurirsi nel vedere, esisteva una connessione profonda tra bisogno e soddisfazione, tra desiderio e stagione, per cui l’eccezionale restava tale, perché era parte di una cultura antichissima dove qualcosa avveniva solo in alcuni momenti dell’anno. Di tutto questo veniva dato insegnamento a chi c’era, ed io che ero maschio tra le donne, imparavo il poco necessario a sopravvivere quando sarei stato autosufficiente. La mezzaluna insegnava l’autosufficienza quanto il coltello affilato con cui prima tagliare la cipolla. Insegnava una misura che magari ora non conta nulla, ma che, per chi l’ha avuta, ha fornito un senso di famiglia al cibo, al farne a volte per altri, al chiedersi se basta o meno. La mezzaluna mi ha dato certezze, le spezie e il sale mi hanno regalato il dubbio. E così lo zucchero. Ma tutto aveva, e ha, una forza che nessuna rappresentazione riuscirà a dare ovvero quella del dono di chi cucina ed è la rappresentazione del condividere, ovvero dello sperperato amore. L’unica forma che conosco del sentire.

p.s. lascio la ricetta di un biscotto invernale che ancora faccio e che continua a piacermi. Ruvido il giusto e sincero di gusto.

Zaeti

250 gr. di fioretto di mais
250 gr. di farina 00
150gr.di burro sciolto a bagnomaria
200 gr. di zucchero
2 uova
100 gr. di uvetta
50 gr. di pinoli o mandorle a pezzetti (meglio i pinoli)
latte per ammollare l’uvetta.
1 bustina di lievito
un pizzico di sale
Si monta lo zucchero con le uova e si aggiunge alle farine continuando a mescolare, il pizzico di sale, poi il burro e i pinoli e l’uvetta. Infine il lievito. La pasta dovrebbe essere abbastanza consistente, si regola la morbidezza con il latte che ha ammollato l’uvetta.
Si mettono su una carta da forno, la dose è un cucchiaio per biscotto. Si inforna a mezza altezza in forno a 160° per 20 minuti. Se il forno scalda solo da sotto, si girano dopo 15 minuti.
Spolverare con zucchero a velo.

cuocere il pane il primo giorno dell’anno


Fuori c’era il sole limpido e rosso del pomeriggio e un vento a piccole raffiche fredde. Tra l’una e l’altra l’illusione che si fosse quietata la lama gelida di tramontana. Gli abeti si scuotevano, i faggi vibravano perdendo le ultime foglie. Entrambi immagino osservassero i mucchi di rametti secchi e di foglie, che erano stati lasciati attorno ai tronchi ed ora si disperdevano in colonne e mulinelli.
Di questo inverno strano e senza neve attorno i ricordi di ciò che siamo stati, e nel farlo poi ne siamo sconsolati e attoniti per il risultato, come se il nuovo non fosse nel ripetersi di gran parte delle abitudini e dei gesti ma imprevedibile e meraviglioso nel suo risultato. Così pensavo augurandomi e desiderando per chi mi è vicino, sia l’abitudine con le sue certezze d’identità come il nuovo che essa produce e intanto infornavo il pana.
La sera precedente, c’era ancora luce, guardando dalla finestra avevo impastato il pane. A lungo e a mio modo, senza la meticolosa minuzia degli appassionati panificatori del web, piuttosto pensando al fare bene augurante del gesto, al coincidere tra parola e sostanza che risiede in qualcosa che poi diverrà intimamente nostro, ma non solo nostro perché sarà diviso con altri, e l’aggettivo buono lo distaccherà da qualcosa di consueto perché è sempre diverso e in fondo nuovo e il buono coincide più con la novità che col ricordo.
Cuocere il pane il primo giorno dell’anno e mangiarne anche nei giorni successivi in una continuità che appartiene a ciò che si fa lo sento beneaugurante. E anche come lo si pensa con la parola che diviene fare e non solo significato mi sembra un gesto significativo.
Nella laica modalità dello stare assieme a pranzo ci si sceglie, ma è già un dopo l’aver preparato, si condivide non il fare ma la parola che unisce, il cibo che dev’essere sapido, soddisfacente il corpo oltre il necessario. Così la convivialità che diviene eccezione e si distacca dagli innumeri pranzi e cene consumati per abitudine è già un ulteriore l’aver costruito il modo dello stare assieme, l’averlo preparato.
Così il fare il pane il primo giorno dell’anno è per me un fatto simbolico di qualcosa che precede ciò che avverrà poi in una sorta di auspicio dell’essere assieme. Fare il pane è uno sperimentare il senso del miracolo che avviene nel combinare e trasformare le cose. Mobilitare i lieviti, farli agire con le farine, aspettare i tempi e le temperature che li fanno prosperare, e lasciare che si esprimano nella semplicità del soffice e del bianco dentro un involucro di profumata croccantezza oppure sperimentare e dare un sapore ulteriore con l’olio o i semi.
Mi piace fare il pane e ancor più il primo giorno dell’anno, magari non verrà qualcosa di memorabile, non sarà qualcosa da confrontare con quello del fornaio ma è il fare che continua e si rinnova in gesti antichi ed è buono per più giorni.
Ci si innamora anche delle metafore per sentire la vita che è sempre nuova e non dimentica mentre continua.

non dare caramelle agli sconosciuti

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Fuori il cielo è diventato color piombo. Ha anche la stessa consistenza. Solo le nubi verso occidente sfrangiano al giallo. A chi conosce un po’ di chimica qualitativa viene da sorridere perché i sali di piombo sono rivelati dal giallo e l’aranciato. Intanto cumuli nembi, incuranti delle spiegazioni sui colori, si sono caricati di lampi, e adesso tutto si sussegue con quel timore atavico che lega l’uomo alla folgore. Finita la festa di saette, alcune vicine, sarà la pioggia ad avvolgere strade e case.

Tutto consequenziale, prevedibile, si può essere persino grati del rumore sul tetto e del brontolio che s’allontana. Evidentemente, non c’è nulla da capire, basta sentire e vedere.

Nell’uso delle parole, ben più pericolose delle saette, c’è un senso che appartiene a chi le dice. Chi ascolta, non di rado, manifesta una prevedibilità che coincide col desiderio. Si vorrebbe finisse in un certo modo la frase, il racconto, oppure capire così tanto da coincidere con la testa di chi ha scritto. Ma questo è il caso migliore, perché la maggior parte ascolta o legge distrattamente: non vuole fare fatica. Per questo non si deve spiegare, evitare le glosse che peggiorano l’incomprensibilità. Pensate ai vostri anni scolastici o ai libri complicati, chi leggeva davvero le noiose note a piè di pagina, o peggio a fine volume, spesso più oscure del testo e soprattutto quando si leggeva, quell’andare avanti e indietro non peggiorava forse l’attenzione,  rivelando i buchi e l’ignoranza pregressa?

C’era però un fatto piacevole in tutto ciò, l’attenzione sviava verso angoli inattesi, poco spieganti, ma interessanti e fecondi. Spesso emergeva l’idea che superata la fatica quei pensieri così freschi e nuovi sarebbero stati ripresi, che qualcosa di originale sarebbe nato da quello che si comprendeva più o meno. Non andava così, ma l’impressione che qualcosa di utile fosse nato dall’incomprensione restava.

 Per questo bisogna accettare l’oscurità.  Anche propria. Perché è feconda e perché le parole nel migliore dei casi sono imprecise. E poi non si vuole davvero dire tutto, ma ciò che conta è selezionare chi è curioso, e può diventare complice. Cioè talmente vicino da interagire con le nostre presunte oscurità.

E per questo penso sia meglio non dare caramelle agli sconosciuti, le masticherebbero, impazienti, chiedendone altre. Una caramella come una nube, non si spiega, ma  che fine farebbe la dolcezza di ciò che davvero si vuole condividere?

a proposito di enigmi, meglio il primo o il secondo brano? 🙂

elogio della verza

Con i primi freddi, anzi con la prima brinata, le verze che erano ben presenti in ogni orto, diventavano più buone. Così si diceva, forse perché la fibra dura delle foglie esterne, ghiacciando, diventava morbida. Mio nonno allora cominciava una cura a base di zuppa di verze, il broeton (gran brodo, forse per la quantità di liquido che accompagnava le foglie), e di verze soffegae (soffocate dal coperchio, stufate). Sembrava fosse una dieta dimagrante e depurante in preparazione degli stravizi delle feste, ma soprattutto era un antidoto al freddo che entrava da ogni interstizio (e ce n’erano molti) nella casa. Di sicuro qualche effetto l’aveva perché qualche chilo lo perdeva. Lui sosteneva che la verza aveva proprietà sgrassanti visto che si accompagnava così bene con il maiale. Le spuntature, le costicine, i cotechini, insomma dove c’era grasso la verza assorbiva. Così diceva mio nonno che tutto era fuorché un nutrizionista. Di certo gli piacevano i sapori forti, quelli di pianura, da nebbia e da gelo. Tornando a casa col tabarro, sul birocio col cavallo o in bicicletta doveva avere un freddo terribile. Tutto era frammisto nelle diete di periferia che era già campagna. La verdura aveva dominato estate e primavera, l’autunno era stato un po’ più parco, ma col gelo c’era poco. Era tempo di carciofi, radicchi di campo, trevigiano da imbiancare per marcitura delle foglie esterne e poi le verze, i broccoli. Le patate erano scorta di carboidrati che non mancava, ma la verdura fresca serviva, eccome se serviva, visto che le vitamine della frutta erano precluse. Quand’ero bambino ricevevamo due casse che a me piacevano come contenitori per i giochi, erano fatte di vimini e scorza d’albero intrecciate, piene di arance, limoni e mandarini, mandate da amici di Latina ed sempre manomesse perché gli agrumi, come datteri e banane erano merce rara e costosa. Ma erano una festa a parte, che non era frequente né diffusa.

Per trasmissione culturale, credo, i nonni mi iniziarono alla cultura della verza, università essenziale del sapere padano. Non quello di Bossi e Salvini, ma quello che scorreva da migliaia d’anni nella valle più produttiva e a quel tempo povera, d’Europa, la pianura padana. La verza la si trova ovunque nelle ricette invernali delle regioni della valle, nella cassoela milanese, nelle ricette piemontesi ricche d’agli, fino farle parlar slavo e mescolarla con i fagioli nella jota delle valli friulane dove l’Italia non si distingue più dalle propaggini dell’est. A casa sarebbe stata, assieme al baccalà, ai radicchi con pancetta e gli gnocchi, una costante invernale. Come il freddo e la neve. Credo che poche piante siano generose e umili come la verza e che poche si prestino altrettanto all’estro: dall’essere bollite per stomaci deboli, sino al trionfo della stufatura e al sapore sapido che da chissà cosa viene estratto considerata la semplicità che l’accompagna nella preparazione. Quindi semplicità, umiltà, generosità, doti che accompagnavano i popoli della pianura, avvezzi a conoscere invasioni d’altri e forse per questo dotati di un relativismo salutare. Dalle mode culinarie straniere, dalle culture, traevano quello che poteva essere coltivato e incontrare il gusto. Credo che gli gnocchi conditi con zucchero e cannella di tradizione tedesca e triestina difficilmente avrebbero attecchito in alcune parti povere del veneto, nel polesine o nella bassa padovana ad esempio, se non fossero stati il succedaneo festoso ma compatibile dei blasonati agri dolce, dei saor raffinati, della repubblica del leon. E così per il cren che nelle ruvide basse accompagna ancora i bolliti, mentre nelle parti più raffinate e pedemontane il dolce e il pepe si mescolano nelle mostarde, nella pearà, nella pevarada e poi mutano sino agli gnocchi con le susine e nelle brovade di confine .

Una cucina povera e ricca di sapore, accogliente e discreta, era la più bella metafora delle persone che ho conosciuto da bambino. Metto due ricette semplicissime, che faccio abitualmente e non per nostalgia, ma perché mi piacciono proprio nella loro ruvida schiettezza:  

La verza, meglio grande, viene lavata e privata delle foglie esterne con la costola più dura, queste vengono sminuzzate in pezzi più piccoli o affettate a strisce corte. In una pentola capiente, si mette a soffriggere una cipolla tagliata sottile con uno spicchio d’aglio, appena il soffritto è biondo si mettono le foglie sminuzzate, poi si aggiungerà anche il torsolo tagliato a pezzi. Si lascia che le foglie si insaporiscano per bene e poi si aggiunge acqua in relazione alla consistenza della zuppa che si vorrà ottenere. Si mette il sale grosso e si copre e si fa bollire molto a lungo. In pentola a pressione almeno 40 minuti, oppure un’ora e 20 e più in pentola normale. E questo è il broeton che va servito caldissimo, con olio crudo, pepe e formaggio. Una volta si usava polenta fredda dentro il brodo, oppure pane biscotto.

Oggi l’ho fatto con il cous cous alla faccia del sindaco della lega della mia città che non riceve il console del Marocco e devo dire che era proprio buono.

Per fare invece le verze soffegae si taglia il resto di verza in quarti, con la parte delle foglie più tenere e centrali, mondate del torsolo, e poi a strisce sottili. In una padella si soffrigge cipolla e aglio e man mano si mette la verza, si condisce con pepe e sale e con un po’ di dado granulare. Si copre e si mescola ogni tanto. Alla fine, quando le verze sono color giallo carico (25-30 minuti) si spruzza d’aceto e si consuma a fuoco alto per un minuto. Vanno bene come contorno per carni o anche da sole se arricchite di salsiccia sbriciolata e cotta assieme.

A casa usavano strutto, ma si può benissimo farne a meno. Con le foglie più tenere si può cucinare la verza lessa e condirla con olio e sale, oppure con la parte più interna, i cuori, tagliatii sottili e soffritti farne un brodo per i risi e verze. Insomma ci si può sbizzarrire nella semplicità.

Questo al nonno scappato di casa perché amava i cavalli a 14 anni e ritrovato dopo sei mesi in un circo a Napoli, sarebbe piaciuto. 

reti di città e agricoltura di prossimità

La scorsa settimana, ho curato un convegno sulla possibilità di invertire la tendenza all’uso di suolo e sulla ricomposizione del rapporto tra città e campagna.

Direte: ma cosa c’importa, tanto queste cose sono fuori dalla nostra portata. E invece io penso che i consumatori hanno un grande potere in mano per determinare come vivere, ma ancor di più possono imporre come configurare il territorio che determinerà la vita nostra e dei nostri figli e nipoti. Le città sono nate come risposta alla conservazione/consumo di cibo prodotto dalla campagna. Come luogo dove conservarlo e poter sopravvivere. E le città, e le loro attività di manifattura, si sono prioritariamente indirizzate a soddisfare i bisogni di tecnologia e di trasporto che la campagna e il cibo generavano.  Ma capisco che così non convinco nessuno. Che gli orti di città, il verde verticale, sono vissuti più come bizzarrie o risposte alla crisi piuttosto che come segno che si può andare in direzione diversa rispetto al solo cemento. E sento questa distanza dalla coscienza di poter modificare il modo di vivere, non solo come fatto individuale, ma collettivo, soprattutto ora che la crisi fa accettare molto di poco accettabile. Eppure questo sarà il tema dei prossimi anni perché c’è una tendenza mondiale a costruire megalopoli immani, da cui l’Italia, per fortuna, sembra restare fuori. Pensate che in Cina si programmano città da oltre 200 milioni di abitanti, l’equivalente di tre Italie messe assieme. Ma riuscite a immaginare come avverrà la gestione di questi aggregati immensi di individui, veicoli, abitazioni, di quanto territorio dovrà essere al servizio di tante persone solo per soddisfarne i bisogni primari. Eppure anche se fuori dalla competizione ai grandi aggregati urbani, l’Italia arriva, dopo oltre vent’anni di discussioni, con un procedimento legislativo sulle città metropolitane a rendersi conto che il paese inurbato ha una struttura e una complessità diversa dall’italietta che era fatta di campagna e piccoli centri.

Quindi pur restando fuori dalle progettate megalopoli, è certo che il panorama territoriale italiano muterà. Ma quali saranno gli effetti e soprattutto le nuove possibilità che il governo delle reti di città e delle città metropolitane potranno generare per una migliore vivibilità del territorio?

Se ci saranno razionalizzazioni infrastrutturali, nuova urbanistica e nuove suddivisioni degli spazi dell’abitare e del produrre. Se i cittadini delle reti di città prenderanno coscienza del loro consumare allora si genereranno nuove abitudini a ciò che il territorio produce, si rispetteranno le stagioni e crescerà il benessere. In pratica si tornerà ad un territorio che ha smarrito la sua cultura negli ultimi 50 anni e che ha confuso la possibilità di acquisto con il benessere. Una risposta possibile e relativamente facile, che apre prospettive inedite dal punto di vista qualitativo ed economico, è l’agricoltura di prossimità, dove campagna e città tornano ad integrarsi e si esce dal paradosso che schiaccia sotto i trattori la frutta in eccedenza, che manda al macero il cibo, perché il prezzo non vale il trasporto mentre contemporaneamente cala la possibilità di acquisto. La campagna e il territorio agricolo tra le città possono essere quasi autosufficienti e sopperire ai fabbisogni di frutta, verdura, carne necessari al buon vivere, conservando tradizioni, immettendo nuovi standard salutistici, producendo energia e ottimizzando i consumi.

Quindi le città, oltre a non consumare ulteriore suolo, possono, attraverso i loro cittadini consapevoli, generare una crescita compatibile verso produzioni a km zero, che creano lavoro e cominciano ad incrementare un benessere gestito localmente. Alcune risposte a questa domanda di qualità del vivere e di crescita sono già in essere. Sono le risposte dell’auto organizzazione del consumo, i GAS, i mercati di vendita diretta dei produttori, ma questo è ancora insufficiente rispetto alla domanda che attende di essere organizzata e di diventare interlocutore di prossimità. Attraverso il consumo e la sua domanda selettiva, si apre un ambito di organizzazione nuova del vivere e del produrre, molto compatibile con l’ambiente, perché, oltre a rispettarlo, lo migliora nell’attuale uso, abbatte la produzione di CO2 da trasporto, sviluppa nuove specie vegetali e conserva le culture del produrre, con una redditività e sviluppo nell’agricoltura di prossimità, difficile con l’uso estensivo e indifferenziato delle coltivazioni.

EXPO 2015 vuole dare una risposta al bisogno di alimentazione del mondo, e comunque essa sia, l’agricoltura di prossimità ne interpreta il lato più ecologico e più vicino al consumatore, fornendo una risposta economica e culturale di assoluto interesse per l’Italia, ma anche per altri Paesi dove la sovranità alimentare non è un’opzione ma una necessità. 

Tutto questo si potrà fare? Dipende da noi, da quanto queste possibilità diventeranno consapevolezza prima e domanda poi. Mangiare le fragole e le ciliege a natale è una curiosità, ma se noi conoscessimo il percorso di quel cibo, se avessimo coscienza delle relazioni tra allergie e conservanti, forse si preferirebbero le arance. L’anno prossimo sarà l’expo di Milano a portare il tema del mangiare a sufficienza e con una nuova coscienza, al centro dell’informazione, ma chiusa l’expo torneremo alle abitudini facili del tutto, tutto l’anno? Se così fosse avremmo sprecato un’occasione di libertà, per questo ragionare di queste cose riguarda tutti, ci dà la possibilità di mutare il mondo che ci attornia. E credetemi, anche se vi ho annoiato, provarci non è davvero poco.

mangiare come buttar giù roba

Le parole escono prima in fila, staccate, indecise e poi a fiotti, poi frenano e sono di nuovo staccate. Hanno un ritmo sincopato.

Dum, du du, dum, du du, dumdum, du, du, dum dum, ecc …

Siamo estranei alle variazioni, seguiamo i ritmi. I ritmi rassicurano, fanno capire quello che sta sotto. Il respiro della nostra idea del vivere che si manifesta. C’è ritmo anche nel mangiare, i bocconi passano dal piatto alla bocca, masticati scendono. Poi di nuovo. Si esprime molto nella sequenza, carenze soprattutto, indecisioni e piccole paure. Bocconi e pause, sono parole che si aggiungono alle altre. Di tanto in tanto un sorso di vino o di acqua. Pulire il piatto per finire, buttar giù cibo, emettere parole. Una macchina.

Sono ritmiche le macchine. Anch’io sono una macchina, posso nutrirmi di silenzi, ma così ascolto e mangio troppo. Invece voglio sentire e rispettare il mio ritmo. Ogni vita ha un ritmo. Non è il senso delle parole, che è importante, certo, ascolto per questo, ma il senso non è tutto. Cosa ci sta sotto? Il cibo come bisogno? Parli di cibo, poco di quello che mangiamo, già di quello che mangerai. E c’è il ricordo epico di ciò che hai mangiato un’altra volta. Una sorta di pieno d’orchestra che fa irrompere il passato nel presente, lo condiziona e lo schianta sotto il peso d’un impossibile confronto. Che sia questo il tuo ritmo? No, questo è presente e passato.

Parli del presente, parli di sesso. Ridi. Non capisco se sia una risata che nasconde. Le risate liberatorie sono poche, molte nascondono, soddisfano il bisogno d’aria, prendono tempo. Come gli sbadigli. L’amante, ti diffondi in particolari. E’ come il cibo, ritmica nei modi. Finché ce n’è sul piatto, diventa finché ce n’è sul letto. Ti fermo, chiedo se valga la reciprocità. Tutto ciò che si può scambiare diventa equilibrato, tu diventi lei, spesso è indice di verità, e devo capire se tu per lei sei un amante, quindi non così essenziale. La cosa ti sconcerta, altra risata, bestemmia, risata, un fiotto di rassicurazioni, di sì. Entrambi eguali, quindi liberi. Com’è che dicevi? Il sentimento ai piedi del letto. Come le ciabatte o le scarpe. Te lo dico, ma non è un giudizio morale, solo che è una modalità difficile per le macchine. Le macchine hanno ritmo e sentimenti, non lo sapevi?

Vivere è come buttar giù roba, dici. Discutiamo. Mi prendo del moralista. Il pensiero si fa complesso, sovrapposto. Cosa mi nascondi? Gli schermi del ragionamento sono fuochi di sbarramento che occultano i punti deboli. La tattica è quella di distrarre l’avversario, attrarlo sul terreno dove si è forti e colpire con la razionalità. Non mi freghi, a me interessa il ritmo e questo non ha nulla di razionale. Per spiegartelo dovrei dirti che passato, presente e futuro sono cuciti con un ritmo fatto di azioni conseguenti, di spazi riempiti per lasciare vuoti a disposizione. E noi viviamo sui vuoti, ci servono per metter dentro ricordi inesistenti, cucire gli squarci e raddrizzare vite che altrimenti spererebbero gran poco. E’ il ritmo che rivela le paure, le sicurezze, i modi con cui si vive. Ci sono persone che parlano lentamente, che mangiano lentamente, la loro vita si dipana come una melodia nella notte, riempie ogni spazio. Si colma, non ha bisogno di ricordare per valutare se è felice adesso. Ma la felicità non c’entra con il metronomo interiore, è una conseguenza di una buona esecuzione. Quindi ci può essere sempre e in chiunque. Hai notato che la felicità arriva quando ci si ferma e poi diminuisce con il rimettersi in moto. Come fosse la fine di un’esecuzione, l’attimo prima dell’applauso.

Bizzarrie, pensieri anodini, mi torna in mente la divinazione con i fondi di caffè, c’è chi sente il pulsare nelle cose e trova la relazione con noi. Ci credi? No? Ma qual’è il ritmo della tua vita, quello che durerà? 

il carnevale era finito?

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S’era accorto ch’era stato un carnevale privo di maschere, ma con molte frittelle e golosità diffuse.

Pensò che c’era una sensualità particolare nella golosità, un cercare il gusto prima della bocca, nell’assaporarlo e aggiungerne altro. Era una ricerca del nuovo nel conosciuto.

In un gioco erano state messe a confronto diverse pasticcerie, ma era finito tutto anzitempo. Per sazietà, o forse per rifiuto d’essere fedele oltre l’insensatezza. E il carnevale era proprio passato, come gli anni, il colore e il folto dei capelli, i chili acquisiti, perduti, ripresi e tutto s’era rinchiuso in abiti che assomigliavano a costumi. Adeguati al lavoro, agli incontri, alla solitudine. Maschere essi, senza risata. Ma in fondo si rideva poi davvero nel carnevale o ci si mostrava?

Del carnevale non era rimasto nulla e così cominciò a pensare alla vita. Di quella, per fortuna c’era davvero molto, ma allora perché questa impressione di leggero vuoto. La stessa che lascia un treno sgusciato in una corsa, mentre lì, sulla banchina, dietro la linea gialla, c’era lui in attesa di un nuovo arrivo. Non era il suo il treno fuggito, ma qual’era il suo treno?