vicoli che accolgono l’anima

In evidenza

Avevo diverse cose da dire, pensieri che si rincorrevano seguendosi e poi tornando daccapo. Nel mio scrivere circolare in fondo torno sempre sui miei passi, come faccio in città cercando vicoli e percorrendoli fino in fondo.

Abiti in un vicolo, direte, allora sarà per questo, e invece no, è la tangibilità del limite che m’interessa, la costrizione a guardarsi attorno, in alto perché avanti non si può andare. I vicoli nascono per qualche abuso perpetrato chissà quando: qualcuno ha deciso di mettere una casa dopo un giardino, di chiudere una strada. E qualcun altro gliel’ha lasciato fare. La città ne ha molti, alcuni dopo portoni altosonanti, altri anonimi e solitari.

Quella del vicolo è una bella metafora di ciò che sta accadendo attorno a noi: si chiudono strade che prima portavano pensieri, diversità, saperi e chi potè (o può), vi installò la sua casa facendo proprio un percorso aperto. È l’arteriosclerosi della società che mentre rende facile il viaggiare rende difficili i cammini individuali e interiori. Guardavo il vicolo dove abitava mia zia, neppure quello era un vicolo perché prima era una strada: strada vecchia. La vecchia toponomastica  ancora affissa lo dice: vicolo vecchio, già strada vecchia. Adesso c’è un cancello di ferro e neppure il vicolo non si può più percorrere, anche la vista verso l’alto è stata preclusa. In fondo a quel vicolo c’è una villa e un altro cancello impermeabile alla vista. Lo so per averci passato giocato vicino nei pomeriggi d’estate. Poi ci fu un fatto terribile, che accadde quando ero ragazzino, il proprietario della casa durante una gita in montagna, uccise i figli e la moglie e poi si suicidò. Dissesti finanziari, dissero in casa, ma c’era molto pudore nel parlarne. Non credo che quanti abitano nel vicolo, ora divenuto un cortile, sappiano di queste cose. Arrivano, aprono un cancello col telecomando, poi una saracinesca di garage con un altro telecomando e salgono nelle case con il loro esterno fatto di pensieri, sensazioni che si adegua al vicolo chiuso, alla casa: ora sono prigionieri e protetti. Un tempo in quella strada giocavamo in parecchi, in tutti questi anni in cui guardo sotto il portico di accesso, non ho mai visto un bambino che gioca oltre l’inferriata. Tutti adulti prigionieri.

Per rifarmi la vista, allora, ho percorso un altro vicolo vicino. Misterioso come il suo nome, tabacco, però stretto e corto come quelli del monopoli. In fondo ha il solito cancello di banale lamiera, senza la creanza d’un fabbro e gli alberi, che spuntano oltre i muri con i cocci di bottiglia, sembrano guardare oltre. La strada scivola tra muri e usci che danno sull’acciottolato antico, fatto di sassi della Piave, come si diceva un tempo, è tutto così stretto che le case s’inerpicano a cercar aria. Questo è un vicolo che rende inutili i cartelli di divieto di sosta, però il guardar alto rivela un ponte tra case, pietra traforata e una stanza di passaggio: hanno tentato di chiudere il cielo e non ci sono riusciti e così ne è venuta una continuazione del portico sul corso. Una finta, insomma, e pure riuscita a mezzo. Ovunque giardini pensili in queste minime strade, e subito la sensazione di essere arrivati al fondo dell’orizzontale.

Camminando con intenzione curiosa, mi accorgo che la città che ho in testa non è la città reale. La mia è una città di fatti, di relazioni, di presenze che si conoscono, che scambiano e confrontano; quella che vedo è una città che fugge da sé. Non la città dei futuristi, che sale verso un nuovo, sferragliante avvenire e neppure la città storica, pur così presente in queste strade, ma è una città che si chiude, che gira il capo e non ascolta.

Ora serve l’eccezionale per smuovere le spalle, per far girare i passi, mentre è il quotidiano, così pregno di realtà, che dovrebbe portarci in un vicolo dell’anima, costruito con pazienza e aperto dentro di noi, per riflettere su dove si sta andando, guardare in alto e attorno, riconoscendo con meraviglia che non sappiamo dove siamo. E in fondo, nel giardino segreto, si potrebbero coltivare le piante che fanno bene, un orto dei semplici da aprire a chi bussa, un condividere per aprire una strada oltre noi che abbiamo capito il concetto del limite. E allora anche un vicolo avrebbe un senso e uno scorrere che accoglie ed è parte del fluire verso la città comune. Le parole non hanno mai un senso a caso.

la sera è il mondo

Da qualche tempo un branco di lupi attraversa l’altopiano, attacca qualche preda facile, un vitello, un asino, anche i ghiri e poi si sposta nell’altopiano vicino. Fanno così anche gli orsi. Stasera camminavo al limite del bosco, pieno di verde e intricato di cespugli, guardavo la bellezza delle macchie di colore, i grappoli di bacche rosse del Sorbo, il verde del muschio ch’era velluto d’ombre vive, pensavo ai lupi e all’ambiente che si assestava dopo tanta rapina di case sempre vuote. Il bosco, gli animali, rioccupavano gli spazi lasciati liberi e trovavano nuovi equilibri.

La sera avanza in fretta sui monti, regala gli ultimi spettacoli di rosso e poi cede al blu intenso. La sera ha in sé la nostalgia del riparo e del sonno, credo che l’istinto della tana preceda l’uomo, ma ha, in questo raccogliersi, il pensiero che spazia attorno e mentre vede la meraviglia sente che non può appartenere a nessuno, che è connessa alla quiete e quindi alla pace. I pensieri mettono assieme le notizie e sentono la minaccia che incombe su di noi, su chi ci è caro, sull’intera specie. I pensieri seguono il passo, sono lenti, non fuggono ma pesano e si pongono domande senza risposta:non c’è ragione all’irragionevole, non c’è giustificazione alla minaccia dell’estinzione.

Penso che attorno a Cernobyl ora la foresta ha ripreso ciò che le era stato tolto, che i luna parck arrugginiscono e tetti e pavimenti si sfondano mentre alberi crescono dentro le case. Penso agli animali che sono tornati e rioccupano gli spazi degli uomini, entrano nelle aule, guardano indifferenti, una frase lasciata a mezzo sulla lavagna, i banchi rovesciati, i gessi colorati sparsi sulla cattedra. Penso ai pochi uomini che abitano quei luoghi e attendono che si concluda la vita perché non saprebbero dove andare. Ho letto molto di ciò che è rimasto, visto documentari, fotografie, è la bellezza rovesciata, senza un occhio che la apprezzi, senza una ragione che non sia quella di essere.

Sull’orlo del vulcano si può tornare indietro, bisogna chiederlo incessantemente, perché la nostra sera non sarà la sera del mondo ma quella del capire la bellezza, dell’esistente per produrla, in un sorriso di vecchio, nelle parole di un bambino, nella forza di un amore che coinvolge e travolge. Alla sera del mondo deve essere posto l’argine della luce, della volontà di vivere, dell’amore che non può morire. Non così. Non può essere questa la sera del mondo.

sassi sulla riva

Non posso pensare che tu pensi a me,
non come vorrei,
solo che mi sembra strano che non accada
e ciò dipende da quel sentimento che sembra rendere tutti eguali,
ma mi sbaglio,
e ad ogni errore sento che un pezzo s’è staccato.
Così nasce un piccolo dolore,
un’ asincronia tra ciò che sono e ciò che sei
anche se la ragione, con pazienza, spiega
l’inutile pretesa d’essere investigato
e compreso nelle pieghe dei desideri,
questo rivela almeno a me la complessità dei mondi che costruisco,
e ne vedo la bellezza e gli enigmi.
Resta la distanza del desiderio da ciò che accade,
e così sgorga la solitudine:
tra pensieri e sassi variopinti sulla riva,
che si calpestano incuranti,
d’essere stati loro vivi ben prima d’ogni nostro sentire. .

che accade all’amore?

Se ne andava con la pazienza di chi guarda, tra strade improvvisamente meno frequentate e indifferenti. C’era tutto quello che serviva, palazzi, portici, pietre improvvisamente bianche  per carenza di smog e radi passanti. Per lo più studenti che non avevano voluto tornare a casa. Pensò, al perché si va via e poi si torna. Alle vite che hanno stagioni diverse e non più confrontabili. Alle età che si stratificano e trascinano in confusioni che assomigliano ad edifici in cui l’opera si aggiunge e sembra una comodità, una bellezza aggiunta ma in realtà rende meno intelleggibile il confine e le età della vita come gli stili diventano indefinite. Non c’è più un’età dell’andare e del tornare con esperienze nuove che facciano crescere chi è rimasto, ma piuttosto un’inquietudine da cercare che sposta in avanti il mometo in cui fermarsi. Così, con facilità, ora l’umanità occidentale, e non solo, s’era messa in movimento ed era diventata nomade rifiutando le stanzialità, ma portando con sé le caratteristiche che poi le lingue non mimetizzavano, le città non annullavano, neppure la difficoltà che accompagnava ogni nuovo stare, nascondeva nella speranza di un meglio che si contrapponeva al luogo da cui si era partiti, perché tutti abbiamo un luogo, una savana o una foresta vicino al cuore. E quel sentire, che in fondo caratterizza la specie, che si traduce in binomi difficili come amore, abbandono, appartenenza e libertà erano una serie di verbi da coniugare in nuovi e antichi modi. Come a dire che l’essenza delle cose resta tale e in fondo ciò che conta è come si ama e come si è amati. Così gli venne in mente un passo di Americanah:

Come hai potuto farmi questo? Sono stato così buono con te!

Già guardava alla loro relazione con la lente del passato. La sconcertò come l’amore romantico fosse capace di trasformarsi, con che rapidità la persona amata potesse diventare un estraneo. Dove andava a finire l’amore? Forse l’amore vero era quello familiare, in qualche modo collegato al sangue, dato che l’amore per i figli non moriva come l’amore romantico.

E questo delimitare l’amore in quello romantico non era forse l’incapacità di una evoluzione che non c’era statat e che ora, nella pandemia diventava un serrare le fila, un fidarsi di pochi, com’era accaduto  ai tempi dell’aids e ancor prima in ogni momento in cui fidarsi era il portare fuori l’amore che c’era dentro.

Cosa stava accadendo per davvero? Ce lo stavamo chiedendo oppure ci rifugiavamo in territori dove la sicurezza viene assicurata da altri. Il vaccino oppure il suo rifiuto, la banalizzazione o il terrore della malattia. E i bollettini giornalieri che effetto avevavno nei confronti di chi era attento oppure di chi voleva ignorare. Come tornare nel buio dell’umanità sapendo che ovunque si era c’er auna possibilità e un pericolo e che la scienza poteva salvare chi credeva in essa ma anche chi non la stimava. Tutto questo per avere una possibilità di una normalità nuova dove gli aspetti fondamentali del vivere avessero un senso, anche una prospettiva. E con chi ci si schierava, con chi voleva arginare o con chi spingeva verso un nuovo distopico e senza alcuna garanzia?

Camminare nella vecchia città dava una dimensione alle cose, non alle persone. Le persone al tempo della pandemia avevano scelte binarie, passioni improvvise e necessità di capire di chi fidarsi. Non bastava la mascherina perché il distanziamento, sepur selezionando doveva cadere per alcuni o alcune. Ci doveva essere un ritorno alle funzioni, ai desideri, alla spinta delle pulsioni che si combinasse con il pericolo per un po’, ma anche evolvesse verso qualcosa di più solido dell’amore romantico. E rivolgersi alla specie non era sbagliato, come non era sbagliato andare e parlare lingue nuove. C’era un sottointeso mutare che prendeva consistenza e diventava società. Era stato così più volte nella storia dell’umanità ma mai con così tanti mezzi in campo e tanta indeterminatezza del futuro. La domanda da porre e porsi era: come poteva essere nuovo il mondo senza un nuovo uomo e senza un amore dato e ricevuto che aggregasse, rendesse più vivibile la vita. In fondo tutto questo era accaduto per ignavia, per non aversi saputo opporre a un mondo divorato dagli interessi di pochi e se questi fossero continuati avrebbero divorato gli uomini e l’amore. Così capiva che il tradimento banale che aveva originato quel dialogo in Americanah, era stato un incespicare nella difficoltà di avere idee chiare su di sé. E le idee chiare nascevano dal coraggio di scavare dentro ovunque si fosse, non solo dall’andare. Che la morale stessa, le forme dell’amore potevano nascere solo dalla ricerca che avveniva in ciascuno che cercava un altro che avesse lo stesso sentire e lo stesso afflato verso il mondo. Insomma l’amore al tempo della pandemia evolveva con questa e aveva il pregio di essere una cosa che dipendeva da ciascuno, non solo un insieme di norme e comportamenti. Che accadeva all’amore quando si sarebbe cambiato il permanere in un essere cambiati e nomadi. Questo dava una prospettiva a un nuovo genere umano che si spargeva ovunque e trovava risposte nette per sé. E tutto questo gli pareva si fosse messo in moto e mutasse il mondo. 

ho pensato noi

Ho pensato noi che camminiamo,
sullo sfondo d’azzurri monti,
mentre attorno il terreno è brullo d’erba secca,
chiazzata di neve, dura di ghiaccio rappreso.
Ho pensato a noi che andiamo,
cercando il calore nel passo,
mettendo i pensieri nella orizzontale luce,
e sappiamo che si torna sempre.
Non sui passi fatti,
non sui luoghi,
ma nel tempo in cui ciò accadde
e quel tempo è un motore che al contrario gira
e mette, aggiunge, accatasta ciò che si è vissuto.
A questo tornano i passi dispersi altrove,
all’interrotto e all’incompiuto,
perché questo è ciò che rimane
e non è rimpianto, neppure colpa
ma l’impossibile sogno di compiere le vite.

avarietà

Durante la lunga camminata, durata 3 ore, comprese le soste varie all’ombra, ebbe modo di pensare alla letteratura spagnola e francese, al problema della mobilità e delle città imperfette, all’idiosincrasia per la complessità farlocca, al contenuto del frigo. Questi pensieri non avevano necessariamente questo ordine e neppure si staccavano gli uni dagli altri con quella necessaria limpidità e nettezza che fa di un argomento un insieme conchiuso anche quando lascia la porta aperta alla successiva elaborazione, erano piuttosto un passar di palo in frasca seguendo la sollecitazione momentanea, la spesa da fare, la necessità di onorare un impegno che l’avrebbe costretto a smontare un ragionamento e poi a rimontarlo, mentre quel ragionamento lo sentiva tirato per le motivazioni e affrettato nelle conclusioni. Eh sì, la complessità davvero lo respingeva e non quella che si muoveva dentro una scheda di un computer oppure in tutta quella parte del sapere che solo poteva intuire esistesse, ma piuttosto, solo per fare un esempio, ciò che si celava in uno strumento finanziario che incorporava spazzatura e brillanti e vendeva entrambi come fosse solo composto dai secondi.

Non pioveva da troppo tempo, il fiume era basso e mostrava resti di murature dentro all’alveo, forse mulini, oppure pile di ponti abbattuti da piene o magari case perché quel fiume, come tutti quelli serpeggianti nella pianura, era pensile e quindi era stato soggetto alle precipitazioni delle stagioni di mezzo, finché non si era arginato. Questo aveva determinato vari effetti, la strada di sommità arginale su cui camminava, ad esempio, che gli impolverava scarpe e abiti, ma anche non pochi tronchi morti, ovvero anse del fiume che erano state rettificate e avevano generato delle isole virtuali, circondate dal vecchio tracciato e al cui centro stavano le case che prima erano in riva e poi si erano trovate ad essere in mezzo a terreni nuovi da coltivare. In questo regimentare, rettificare, lui trovava una ragione semplice, una utilità immediatamente comprensibile, anche se non era stato propriamente così perché la velocità di corrivo, ovvero lo scorrere che ogni bambino conosce quando mette una barchetta di carta in un rigagnolo che confluisce in una pozzanghera o un tombino, era aumentata e il fiume aveva portato in mare e in laguna sedimenti che prima si sarebbero disseminati per strada, contribuendo al progressivo interramento della foce e alla creazione di barene che prima semplicemente non c’erano. Come tutto questo c’entrasse con la letteratura spagnola e in particolare con Marias era da chiedere a quella complessità su cui non indagava mai e che era costituita dalle misteriose connessioni che sinapsi, messaggi elettrici, scorrimenti ormonali mettevano assieme nel cervello e in tutte le altre parti del corpo destinate a ricordare e ad elaborare qualcosa. Quello che gli pareva particolarmente confacente al percorso che stava facendo era il racconto che proprio Marias, faceva della finta traduzione che due interpreti facevano a due ministri che s’incontravano. Lui uomo e lei donna come i due traduttori però a parti invertite e come alle frasi formali e strettamente inerenti ai rapporti tra governi, d’improvviso uno dei traduttori introducesse parole non dette e che si riferivano alla vita normale della ministra e che il gioco proseguisse con il garbo e la discrezione che queste cose devono avere per non essere fasulle, mettendo nella risposta dell’altro discrezione e al tempo stesso un rivelare un proprio sentire. C’era cioè, una verità semplice che si nascondeva nella complessità e questa era  riferita al vivere comune, alle difficoltà che tutti conosciamo e al lasciarsi andare ad una speranza che diventava comunicazione intima. Confidenza insomma, perché accanto alla complessità di un codice verbale che doveva essere decrittato, messo in relazione alle infinite subordinate dell’ordine che si esprime in un governo, in una società e nelle relazioni che essa ha con altre società e altri governi formando alla fine un meccanismo di pesi e contrappesi in cui l’immobilità mobile sembra il bene da raggiungere, come la minaccia senza esecuzione o la promessa senza il coinvolgimento, tutto questo, pensava, aveva a che fare con un fiume rettificato che aveva prodotto effetti collaterali e con la vita di alcune famiglie che si erano trovate separate da quelle che erano le loro abitudini e persino dal loro lavoro precedente, dovendo tener conto di nuovi ostacoli per portare i mezzi agricoli all’interno dell’isola che si era creata attorno a loro.

Tutto questo cosa avesse a che fare con quell’impegno che si era preso di scrivere una relazione sull’evolvere di una parte della città e più precisamente della zona industriale che stava mutando funzioni e che si spopolava di aziende senza che nulla venisse fatto per trattenere il lavoro e le competenze che si erano formate e che ne avevano fatto la fortuna nel tempo, non gli era ben chiaro. Ciò che gli sembrava evidente era che sarebbe tornato con i negozi chiusi e che il frigo era scombinato come i suoi pensieri e se certamente qualcosa si sarebbe potuta mettere assieme questa sarebbe stata una immagine, purtroppo veritiera, della sua incapacità ad essere un buon ospite e a stupire la persona che avrebbe cenato con lui. Persona di cui conosceva davvero poco i gusti e le idiosincrasie e che ne avrebbe tratto un’impressione falsata di noncuranza dell’essere accolta. Quindi il pensiero si spostava su come combinare le cose scombinate e trarne un insieme credibile per rappresentare un’abilità. Concluse che sarebbe stato un disastro e che la cosa più semplice non era dire la verità, che avrebbe testimoniato la scarsa cura che aveva messo nel predisporre l’incontro, ma lasciar parlare le cose e parlar d’altro. Togliere dalla testa il pensiero della relazione da scrivere con tutte le sue criticità e girare il tacco. Sì la cosa migliore era tornare indietro e concentrarsi sul verde che vedeva prorompente vicino all’acqua e su cosa avrebbe costruito per dare un senso al piacere di vedersi, all’accoglienza, alla relativa marginalità del cibo rispetto ai discorsi. Avrebbe iniziato con un calice di vino rosso e una musica che gli piaceva, sperando non fosse astemia e che i suoi gusti musicali non fossero troppo distanti. Una musica sincera per ciò che mostrava e un vino che dicesse con allegria il benvenuta che gli si era formato dentro e che cresceva ad ogni passo. Di questo si accorse perché non solo il passo si era fatto più veloce, ma che il cuore un po’ gli batteva e non solo per lo sforzo. E questo certo avrebbe portato alla necessità di una doccia e di un lasciarsi andare al non pensiero di ciò che lei avrebbe pensato ma solo al piacere che fosse lì con lui. 

e così si è consumato il giorno

E così si è consumato il giorno. Color perlaceo come il cielo di questa giornata con una pioggia attesa ma rada. Spruzzo per i vetri, gocce che si rincorrono, il tremolare rapido delle immagini che poi tornano limpide. Neppure un acquazzone, solo acqua dispersa, complice un po’ di vento e così la terra è appena bagnata. Non piove da troppo tempo e sempre più mi rendo conto della situazione. Dovrei dire che il presente senza oggetto in cui viviamo, ora un oggetto ce l’ha ed è pure preciso: è già nella fase due ma non ha una soluzione visibile. Possiamo compiere notturni atti di trasgressione, infrangere regole senza pericolo per altri, ma è solo per il gusto di farlo perché ciò che comunque detta legge è la distanza sociale, che tradotta nell’umore significa malinconia.

E comunque l’avventura è diventata intorno a casa, la scoperta da esteriore si porta verso il trascurato per mancanza di tempo, verso il particolare. Basta una frase, un pensiero che ne rincorre un altro e come una nube, l’acchiappa, si mescola, allora ne nasce un’intuizione che apre una porta. Oltre c’è l’azzurro, i prati, il mare, la sabbia, i pini, ma tutto fuso, indistinto com’è nelle possibilità che hanno come unica realtà una strada malamente tracciata tra l’erba. Ed è facile perdersi, deviare, guardare per aria o nel posto sbagliato. Trovarsi con la sensazione che sia passato qualcosa d’importante, magari non così tanto da cambiare il mondo o solo noi stessi, ma originale, mai pensato prima e che quel sentiero sia finito in un nulla d’erba che ancora rasserena eppure non è la stessa cosa. Non si tengono le parole per la coda quando sono colme di significato, bisogna lasciarsi andare a loro, immergersi in esse, seguirle senza metterci nulla o quasi di pensato e loro ti conducono, ti portano in luoghi che avrebbero bisogno di sviluppo, di tempo senza tempo, di storie per nascere e poi crescere, nostre prima di diventare autonome e d’altri.

Eravamo alla fine di un cammino lungo, fatto di scarpe impolverate, sete e ombra alle spalle. Una grande radura, dei segnali imprecisi che indicavano la direzione e il sentiero che si sdoppiava: puntava in una direzione e poi nell’altra fino a farci trovare al punto di prima. Era la fine o quasi di una traversata e Fiesole il punto d’arrivo, ma non si vedeva. C’erano dei colli e molto verde, alberi, arbusti alti che mascheravano le direzioni. Parlammo dopo molti silenzi che testimoniavano di non sapere e ci sembrò fosse rimasto un sentiero nell’erba. Una direzione già percorsa, ma poi abbandonata. La seguimmo fino a capire che stavamo entrando nella tana di un cinghiale, ne seguì una corsa sconnessa all’indietro, una paura di zanne, di piccoli disturbati, di una madre inferocita, finché tornati nella radura, tornammo a ridere. Di noi, dell’incapacità di vedere l’evidenza e quindi l’errore e ancora di legare i tanti passi fatti con qualcosa che li completasse. Bisognava fermarsi, seguire il pensiero nuovo, lasciare che maturasse e divenisse direzione, così trovammo la strada.

E così sono le parole nuove che si formano e indicano qualcosa che è appena conosciuto, mai pensato prima in quel modo e già diviene fascino e possibilità, ma serve tempo. Non quello di prima ma quello della realtà di adesso, che non è solo minacciosa, ma riporta le cose e noi alla luce, a ciò che conta e contiene tutto il bello e il suo contrario, ciò che dev’essere scoperto e la banalità che ora non ci attira più nel suo lucore privo di contenuto. Ho la sensazione che la scelta e la sua possibilità emerga ora con più forza e torni a noi. Questo tempo che abbiamo a disposizione, regalato, se non ci indica nulla di nuovo, sarà tempo perso.

cose un po’ fruste

 

A volte mi commuovo. Senza una ragione apparente, si affolla ciò che è stato ed è poi altrimenti evoluto oppure s’è spento senza far rumore, come accade a chi parte e poi non torna. C’erano state promesse e speranze, ma sin dall’inizio si sapeva che quel salutarsi era un addio. Un chiudere che l’illusione e la speranza rendevano meno doloroso, ma era nell’aria, nelle parole trattenute, nello scambio che durava molto più di quanto sembrasse necessario. Questo è il farsi delle scelte, del caso e di ciò che accade, la testimonianza di aver conosciuto e profondamente vissuto che resta dentro di noi con quell’insoluto che ogni scelta ha comportato, ogni pienezza ha generato, ogni cosa ha incorporato. Dovrebbe bastare, ma non è mai abbastanza come accade in tutti gli amori, compreso quello per ciò in cui si è creduto con tale forza da piegare il desiderio, da posticipare la necessità. Di questo, nella mente e attorno a me c’è larga traccia e così mi prende una vaga nostalgia per il contenuto delle cose che non sono mai davvero tali per chi le conosce per davvero. Per chi le ha scelte, le ha tenute appresso e consumate con l’attrito che genera quel rapporto che non è mai solo uso, ma piuttosto un parlarsi, un gettare tra l’inanimato e il sentito, un dialogo.

Guardavo fuori, la campagna che s’accosta alla città, che si ricorda di ciò che era nei fossi e nei campi appena arati. Che ha piccole macchie d’alberi selvatici, testimoni di litigiose eredità oppure d’attese di cambi di piani regolatori già troppo permissivi. Nel tramonto guardavo il cielo che s’aranciava di luce e nubi strette, il pensiero andava al rumore del legno che brucia nei fuochi improvvisati nella spiaggia e vedeva, e sentiva, il crepitio dell’alta catasta dell’inutile che bruciava a bordo del campo.

Nei ricordi e nel presente, ho un filo e nessuna traccia, uno svolgere che non tesse perché non conosce chi sia all’altro capo. Non è forse questo il gioco di ciò che è ancora in attesa di noi, che aspetta per dirci, non il consueto e l’abitudine ma il nuovo che vorrà coinvolgerci? Parlo a me, alle cose, al buio e alla luce. Ricordo. Un ricordo qualsiasi.

Quella mattina era poco dopo l’alba quando cominciammo a camminare. Era luglio e il caldo ci avrebbe colti per strada, ma con buona parte del cammino fatta. Era già un’avventura fare colazione mentre fuori c’era la notte. Fremevo impaziente, nei calzoncini corti avevo i pochi soldi per il ritorno in treno, un coltellino, uno zainetto di tela verde con l’acqua e due panini. Chissà come avevo convinto mia madre che sarebbe stata una camminata lunga e sicura. Forse perché eravamo in tre coetanei e le madri si parlano e si sorreggono nel convincersi. Uscimmo e andammo. Poi, appena usciti dalla periferia, c’era la strada, polvere, campi, paesi sconosciuti, fontane con acqua fresca e una meta. Quanto parlammo. Mi resta solo l’impressione del parlare perché avvenne ed eravamo in fila, scherzando ininterrottamente su quella strada con tre diversi motivi per farla. Chi voleva ringraziare per la promozione ottenuta, chi per dimostrare l’indifferente vigore fisico, chi, ed ero io, il bisogno d’esserci senza avere un merito né qualcosa per cui ringraziare. Forse volevo connettere qualcosa che da tempo era disgiunto e non trovava sintesi. Un sentire differente che implicava un passaggio attraverso qualcosa di banale e più grande, com’è per ogni iniziazione. E io non sapevo cos’erano le iniziazioni, non sapevo nulla delle discontinuità del tempo, dello strapparsi della tela che mi sembrava così determinata, conseguente e sicura nel suo andare da qualche parte e poi improvvisamente ti lasciava solo davanti a te.

La nozione dell’ignoto, chissà davvero quando si matura, diventa una scelta che accende le guance, rende urgente l’andare, chiude ciò che precede e spinge incoercibilmente oltre. Per alcuni non viene mai ma lei, la nozione, ci prova e quando si è bambini o poco più, accade che ci sia un protrarsi dell’insufficienza propria, del sentirsi inadeguati, né una cosa né l’altra soddisfano appieno. Allora servirebbe ci fosse chi capisce che si è sull’orlo dell’ignoto, chi aiuta a decifrare le parole che non si conoscono, chi ridà un senso a ciò che si rifiuta e renderà fulgida parte della vita che si vive e si vivrà. Ma così non accade e non era così quella  mattina, né lo è stato per molto tempo innanzi e forse neppure ora. I segni di un’antica lotta non si cancellano mai, al più s’imbellettano sotto altro finché non diventano cari.

Comunque, con i piedi stanchi e gonfi arrivammo, facemmo il lungo portico in salita. Ci inginocchiammo nella chiesa. Ciascuno pensò qualcosa, ma non per molto, e uscimmo. Fuori c’era il sole a picco del mezzogiorno, una vasca colma sotto la fontana in cui immergere i piedi a turno, l’acqua fresca e un prato in cui stendersi sotto un albero a piedi nudi a guardare il cielo tra le foglie. Ricordo il silenzio tra scoppi di parole. I propositi per la sera, le prese in giro scherzose e quel silenzio in cui ciascuno metteva l’utile e l’inutile di quei 40 chilometri di fatica. Il senso. Perché c’era un senso che riguardava ognuno di noi. Non me ne accorgevo ma le vite un po’ si separavano. Una bocciatura, un andare al lavoro prima d’altri, un percorso di vita che seguiva per ciascuno un daimon differente. Eravamo amici e lo restammo a lungo, ma le vite andavano seguendo un filo di cui si aveva solo il capo dopo che i nodi dell’infanzia, delle prime avventure, si erano sciolti in piccole distanze. Avevo un coltellino rosso, piccolo e affilato quanto bastava per fare la punta a un bastoncino. Lisciarlo della corteccia e lanciarlo verso il cielo, oppure ricavarne una fionda per future imprese. Credo di averlo fatto anche allora, ridendo perché ormai eravamo troppo grandi per quelle cose. Nel primo pomeriggio tornammo verso la stazione, e in treno verso casa. Già la sera non fummo insieme. Quel coltellino c’è ancora, consumato e messo in un cassetto. Non può dire nulla a nessuno se non a me, non può sciogliere nessun nodo se non i miei. Forse per questo a volte, senza ragione mi commuovo, perché le cose un po’ fruste e invecchiate con me mi ricordano altro ed è difficile, forse un delitto buttar via, parlo dei ricordi, ciò che per poco non è stato, oppure lo è stato davvero ma non come avremmo voluto.

Sono i nostri piccoli fallimenti, le ferite che c’hanno fatto male e insegnato, che tracciano una mappa di ciò che abbiamo camminato. La nostra mente conosce bene quella mappa, la dispiega, e se la guarda bene, vede che sono loro, i nodi di ciò che siamo, che ci chiedono di camminare ancora. 

 

l’abitante

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Non accadeva nulla. Il sentiero saliva, a destra il bosco, a sinistra il rudere di un tentativo di abuso edilizio. All’interno di quello che forse sarebbe stato un soggiorno era nato un albero ora grande e pieno di foglie. L’abitante senza vicini umani e con molti uccelli e piccoli voli tra i rami. Salendo non accadeva nulla che non fosse ripetibile, qualcosa di così memorabile da costituire un ricordo singolare. La vita scorreva con il ritmo del respiro e non aveva una trama che potesse diventare narrazione: avrebbe ripetuto i passi, la scaglia del calcare che spuntava tra il muschio, il resto di un reticolato con un fiocco di lana, erba, fiori incauti e rami seccati. Lontano il suono di una campana. E’ un vecchio dilemma quello dell’artificiosità delle storie, dei ricordi che si intrecciano con la necessità di interessare, di rappresentare una singolarità in cui ci sono protagonisti, decisioni, eventi che si configurano come emblematici. E’ il tema del divenire, il bisogno di un passato per costruire un futuro mentre siamo nell’entità più inafferrabile e banale per la grandissima parte della vita, ovvero l’adesso. Così il sentiero che si muoveva tra bisogni lavorativi dei boscaioli e le abitudini di escursionisti. Di certo portava da qualche parte, quasi certamente era, o un percorso circolare da case a case oppure un andare e ritornare su se stesso tracciato dal bisogno e dal piacere non dall’utilità e dal programmare futuri percorsi.

Ciò che fa la differenza è la persona che percorre il sentiero non la traccia e ciò che le sta attorno. Sono i pensieri diversi di ciascuno, il movimento degli occhi, il collegare le cose, la congiunzione dell’adesso con il conosciuto, il nuovo intreccio che esso può provocare nel passato. Oppure, i più bravi, vuotano di pensieri la testa e lasciano che ciò che è all’esterno entri e non diventi solo esperienza, ma vita, modo d’essere.

Il bisogno che accada qualcosa testimonia la lotta diurna contro il vuoto della noia, la forza vivifica dell’accadere contrapposta al succedere; nella prima c’è l’idea di poter influenzare le cose, nella seconda esse semplicemente si succedono senza un nesso che ci riguardi ma con una fortissima logica interna. A quella logica, che poi sarebbe quella del fluire, si può appartenere o meno, ma ciò che dovrebbe essere chiaro è che essa è disgiunta dalla felicità.

Non si è felici per caso, questa era la tesi che mi seguiva anche in quel sentiero, ma per volontà di voler mettere assieme cose disparate e controverse oppure per abbandono, per una resa così incondizionata che, come per il bimbo coccolato ogni movimento dell’accadere diventa carezza e occasione di allegria, in noi diventa un lasciarsi andare allegro e meravigliato.
Quasi sempre non accadeva nulla e questa era la storia, quella vera, quella che i 17 miliardi di individui che dalla comparsa del genere homo hanno abitato il mondo, hanno vissuto, con qualche rada eccezione che a pedate ha spinto innanzi tutto il genere. Non accadeva nulla e non avevo la facoltà di entrare nel pensiero altrui. Di questa seconda consapevolezza ero contento, non perché mi dispiacesse indovinare un desiderio di chi mi è caro o capire meglio chi ho di fronte, ma per il semplice motivo che gran parte dei pensieri sono sconclusionati, saltano di palo in frasca, sono ossessivi nel ripetersi, cercano soluzioni a problemi spesso privi di senso e stare nella testa di un altro a condividere il guazzabuglio che già ben conosco non aveva nulla di attraente. Se viene glorificata l’utilità del pensare e del fare, è perché essa genera plusvalore per qualcuno, ma anche e soprattutto perché il pensiero è fondamentalmente privo di essa, è anarchico e vitale come l’istinto, si muove per meandri sconosciuti, ma soprattutto è indifferente a ciò che dovrebbe provocare reazioni immediate. Insomma agisce per suo conto ed è pure duro di comprendonio. Se così non fosse giustizia e bellezza sarebbero perseguite e invece capitano per caso, come accidenti più che per volontà comune. Come quell’albero, unico abitante della casa in rovina e nato per caso dove doveva esserci altro, che faceva altra utilità rispetto a quella umana, ma era successo e ne aveva approfittato. Semplicemente vivendo.

nostalgie operose

Il pensiero torna a terre che mi sono care,

declivi e bosco ceduo, radi cacciatori, pietre che rotolano con un suono di percossa canna.

Curve verso l’ignoto in strade solitarie e sughere rosse di vergogna ai lati.

Da case che non conosco esce il fumo forte della quercia,

un sedile di sughero è vicino alla pietra che ospita la fiamma.

Ne conosco la consuetudine antica, le rade parole, il seguire pensieri nelle faville che s’alzano e il riposare l’occhio nella brace.

Accanto qualcosa cuoce o s’arrostisce senza fretta e parole mute aspettano.

Di solitudine si muore oppure ci si rafforza tanto da sentire incessante l’onda di ciò che attornia e si sminuzza negli infiniti discorsi delle cose,

dove ognuna ha una sua ragione, urgenza, bisogno d’attenzione,

un dire sommesso, che altrove, frettolosamente, vien chiamato amore.