sbavature

In evidenza

I suoni si gonfiano dalla vecchia radio;

morbidi sul rumore di fondo

assomigliano a colpe mai perdonate.

Onde medie e valvole imprecise, per scelta,

oggi riportano ai tepori rumorosi d’infanzia,

agli elastici un po’ lenti,

alla voglia di rimettere a posto indumenti

negli accordi che sbavano appena.

Basta tendere l’orecchio e s’ intuiscono pensieri,

che infilano imbuti di note:

pare, m’era sembrato, mi pareva,

bianchi e neri di suoni, simmetrie di sentimenti, rimbalzi.

La musica ? Non ci salverà, come i ricordi.

Il pensiero è altrove,

nella luce d’inverno che corre presto nella notte,

rossa ed umida in cerca di calore,

da far vibrare di carezze il cuore.

Nuove resilienze

In evidenza

La pioggia ha concesso una tregua, avremo tre giorni di sole e poi di nuovo pioggia. Questa lunga stagione di calore e siccità ha accumulato un’enorme energia, distribuendo nel mare e sulla terra. Non tutto riceve con la stessa gratitudine, il mare è troppo caldo e i granchi non diventano moeche, la terra si raffredda prima, l’aria lo racconta bene ma tutto interagisce col mondo vegetale e animale, che restano indecisi sul da farsi. L’autunno e l’inverno erano stagioni di quiete, ora i delicati sensori della memoria delle specie cercano di interpretare i segni, novelli auspici, per essere meno confusi sul futuro.

La pioggia forte ha sconvolto i piani, dopo tanta siccità il desiderio d’acqua rende fragile il terreno, gli argini, noi stessi. La fragilità in cui tutti viviamo dovrebbe costantemente preoccupare e far chiedere atteggiamenti conseguenti, lo capiscono anche alberi e insetti, e questo dovrebbe essere chiaro alla politica e a chi amministra, ma non è così.

Si invoca la resilienza, parola prestata dalle proprietà dei materiali, trasferita all’uomo, messa persino negli affari e nelle questioni sentimentali, declinata nel solo significato positivo, ovvero la capacità di ritrovare se stessi dopo un evento traumatico.
Ma esiste una parte che non viene esaminata, ovvero se ciò che ha determinato l’evento fosse o meno evitabile. Sembra strano che ciò influenzi la resilienza? No, se pensiamo che non siamo metalli o pezzi di plastica, se non pensiamo che le popolazioni che traversano mari e deserti poi alla fine arrivino uguali a chiedere asilo e vita, se per noi stessi non crediamo che tutto ciò che ci accade non ci cambi dentro, non muti, gli amori, le gioie, la specie.

Per questo nelle dichiarazioni di chi è investito dalle bufere di questi giorni o dalla possibile perdita del lavoro, fa emergere accanto alla resilienza, la rabbia o lo sconforto, o la rassegnazione. Tutte emozioni che non solo modificano la resilienza, la sua positività nel ricominciare, ma cambiano l’animo delle persone, la percezione di essere comunità e subentra una rassegnazione al degrado.

Così c’è anche una resilienza negativa che appartiene a chi ha il potere o detiene privilegi fondati sull’appropriazione di beni comuni, una resilienza che tiene strette le sedie occupate e rende impermeabili alle priorità della realtà, indifferenti al clima e alla guerra altrui, supponente sul mondo e sulla verità. Una resilienza che si nutre di parole e non fa nulla di concreto oltre far finta di esserci prima di tornare al sicuro, professionisti di ogni prima emergenza prevedibile. Sono i resilienti confacenti alla vischiosa gestione di un presente fatto di promesse. Fa cosi specie sentire l’annuncio del possibile rischio dei prossimi giorni  da parte di chi governa che ci si chiede chi doveva introdurlo nell’agenda delle priorità. Quando si capirà che gli eventi accidentali non sono in gran parte tali, allora la resilienza positiva consentirà di cambiare il modo di vedere il mondo di chi lo governa, di chi specula sulle disgrazie, di chi non fa bene il compito a cui è chiamato. E chi fa informazione questo dovrebbe capirlo, prevedere ciò che accadrà e dire chi ne è responsabile. Ogni giorno perché gli eventi hanno radici nel non fare e di questo bisogna parlare chiedendo non le scuse ma la decenza del silenzio di chi ha governato lasciando che la fragilità crescesse, cambiasse i ritmi vitali, diventasse tragedia per molti. E si dovrebbe pure dire che il denaro potrebbe cambiare le cose, che produrre, mangiare, muoversi, rispettare diversamente il mondo cambierebbe la storia e i conti in banca di chi continua a devastare e consumare ciò che è di tutti. Allora la resilienza potrebbe fare il suo lavoro ed essere amica del giusto vivere, non del sopravvivere.

nessuna novità

È una pressione continua. Una notizia elide la precedente e tutto alla fine si sovrappone, si mescola e sembra uguale al grigio che assorbe i colori. Chi produce realtà sa che bisogna alzare la posta, colpire l’immaginazione e il sentire, perché le notizie vengono e svaniscono subito. Siamo finiti in una dittatura del presente senza futuro.

Sembra che il rifiuto della condizione di incertezza produca una bulimia di nuovo senza conclusione. Ed è aria mossa da chiacchiere che si sovrappongono, di cui non resta traccia se non in quel senso di mancanza che fa capolino quando ci si ferma e sembra che non si sia davvero fermi ma che una ricerca continui sotto traccia. Senza volontà, per disagio, bisogno di completezza, perché la coscienza si acquieti.

. Anche tutto questo connettersi, il mi piace sciorinato perché è più facile dare nulla che essere Inerti. È un gradire senza il contrario, la conversazione momentanea, che è chiudersi al rischio del rapporto profondo, alla domanda del che fare di noi.

Come dire la delusione se il rapporto è talmente esile che non c’è attesa, condivisione, scavare reciproco, realtà. La severa maestra è fuori dal virtuale e quindi non si impara, non si accumula esperienza, ma solo fatti che neppure hanno il pregio della verità anche quando sono veri.

È sommamente triste dipendere dalla velocità di una risposta e dalla riconferma che se l’indeterminato altro esiste allora, forse, anch’io esisto. Ecco l’incosistenza poco virtuosa dell’altro essere.

l’uomo che guarda

L’uomo che guarda non ha rigore critico, consequenzialità logiche: guarda, assorbe, pensa.

L’uomo che guarda ha un mondo dentro che cede ad altri con fatica, forse un’offesa antica ne ha generate altre. Si è formato così, l’uomo, per vicoli obbligati e per sottrazioni, imparando come i gatti ma senza la loro libera morbidezza. Guarda, pensa, confronta, si lascia andare ai pensieri che sono sotto le parti bianche di ciò che non si scrive o dice e a volte neppure si pensa. Le parti bianche nascondono i ricordi e ognuna ha un pezzo di futuro che il calendario dell’avvento della vita sembra non aver mai sollevato, né ha osato staccare per scoprirne la dolcezza o l’obbligo. Eppure non è vero, tutti quei calendari sono stati percorsi, le scelte fatte, ma ciò che sembrava era altro, così anche le ferite si sono unite ai momenti di felicità e hanno trovato la loro radice: sono ricordi che il bianco non fa emergere, eppure ci sono. Attendono e non servono finché l’uomo che guarda non si deciderà a servirsene. La speranza e il nuovo sono un’immensa volontà di non apprendere, di vedere oltre, di non usare la similitudine come guida per decidere, per non ripercorrere.

A volte, alla fine di un’esperienza, guardando o udendo la giusta sequenza di parole, da ciò che era bianco emergono i colori e le situazioni rimosse tornano irridenti. Una ridda di sentire si scatena, emerge un giudizio anche dove non si è voluto giudicare mai e la nave beccheggia. Si sente l’ancora che cerca sul fondo un appiglio per fermare lo scivolare e finalmente capire, ma troppo spesso è sabbia e il pensiero si allontana.

L’uomo che guarda, ricorda e ciò che vede gli sembra sia già stato, ma era differente, lui era differente, nel cammino già fatto tutto quello che si è scelto si è sovrapposto, e quello che non è bianco, ora, rappresenta insieme il passato e il futuro. Ma è un attimo, un’immersione per disincagliare un’ancora e poi ancora andare.

L’uomo che guarda attende e non ha fretta come chi sa che prima o poi, vedrà ciò che era così semplice da capire e così bello da vivere. Capisce, sia pure a tratti, che l’ha vissuto ed ora ne cerca il ricordo in ciò che vede e sente perché in altra forma si rinnovi. Non è forse questa la speranza, ovvero che ogni cosa sia nuova e antica assieme, conosciuta, sperata, buona da scoprire e vivere. Per diversamente e nuovamente vivere, guarda.

stropicciar di carte

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Nello stropicciar di carte,

pennini asciugano significati, s’intingono di lettere.

L’attesa aveva un senso, se può avere un senso l’attesa,

quand’era diluita in possibilità tessute di poca trama:

così si vanta l’intuito, senza dire,

del suo cervello tattile proteso

e della mia passione di sentircapire il presente tra le dita.

Tutto vero,

anche del portare al fiuto il mescolar del mio e d’altro sentore,

del distendermi che divora sensi trasversali,

di questo ha intuito,

ancora.

Pile di fogli bianchi, fittamente ordinati,

in attesa,

non del caso e della sua arroganza,

ma di ciò che è stato, delle parole che non hai detto ancora mai,

e se al finir della luce ritrovo serenità

nel frusciar di fogli, senza lettura,

sono preso d’un bisogno d’altro respiro, mai provato.

Postato su willyco.blog  e poi mutato

senza memoria

L’ha visto mia moglie e mi ha chiamato. È a terra, la testa poggia sul braccio ripiegato, il corpo steso, l’altro braccio s’allunga come uscisse dall’acqua e chiamasse aiuto. È davanti al cancello chiuso della canonica, poco discoste ci sono la valigia e uno zaino.
Sono le 11 del mattino, e siamo a fianco della chiesa. Gli chiedo se sta male, non mi aspetto risposta, ci sono 3 gradi e chissà da quanto tempo è a terra. Altre persone passano per la strada davanti la chiesa, forse lo vedono come un fagotto abbandonato. Per fortuna risponde, prima in modo incomprensibile poi dice che vuole parlare col prete, ma non si alza, chiede di stare quieto, per terra. Suono il campanello. Il prete torna domani, dice la donna che fa le pulizie, ha due parrocchie e non ci sono preti. È inutile chiamarlo perché non verrebbe. Dico all’uomo che si alzi, fa troppo freddo e deve cercare un posto caldo. A fatica si alza, con accessi di tosse e il respiro rotto dalle parole che escono confuse. Mi richiama il 118 che avevo avvisato quando lo pensavo ferito o peggio. L’ambulanza arriverebbe se confermo la chiamata, ma lui non vuole l’ambulanza, vuole il prete e vuole tornare a casa. Casa. A pezzi esce la sua storia. È del nord dell’India, immigrato regolare in Italia, a casa era motorista di motori marini e di elicotteri. Qui faceva il bracciante nei campi dei vivaisti. Mi mostra delle foto sul cellulare. Capisco che gli hanno rubato tutto fuorché i documenti e non vuole più stare in Italia. Dorme all’addiaccio da tre notti perché per entrare in un asilo notturno serve il tampone e lui non ha più nulla, ma non vuole soldi. Vuole tornare a casa. La mascherina gli scende sul mento e gli vengono attacchi di una tosse profonda, la voce si rompe. Gli chiedo di tirar su la mascherina chirurgica. Ci sono adesso altre due persone con noi, anche il sagrestano. Si convince a entrare in chiesa. È malfermo, un po’ confuso. Cerchiamo una soluzione. La Caritas, ha un ufficio in città ma è aperto domattina. La persona che mi risponde, dice che deve passare domani, gli spiego che con un’altra notte al freddo, questa persona avrà solo il problema di essere seppellito. L’ufficio apre domattina, mi suggerisce di parlare con il Comune. Vado dai carabinieri, gli spiego la situazione. Il carabiniere è gentile, mi dice che se ne occuperanno. Intanto, l’uomo, stremato, ha preso sonno su una panca in chiesa. Il sagrestano ci assicura che la Chiesa non chiude e che gli porterà qualcosa di caldo da mangiare. Le telefonate si susseguono, assistenti sociali, vigili urbani, tutti prendono nota della situazione. Mi rendo conto che però non arriva nessuno. Intanto dorme, forse sogna casa. Penso che oggi è la giornata della memoria, ma che nessuno vuole vedere la sofferenza, che la speranza diventa disperazione e che sentiti al telegiornale i morti di freddo, gli annegati in mare, i bambini che soffrono con le loro madri non sembrano appartenere al mondo caldo e protetto in cui viviamo. Penso che la cura di chi non ha nulla, subisce un torto, l’abbiamo affidata allo Stato, ma lo Stato ha procedure, sportelli, orari, poi c’è il buio per l’umanità più debole. È la giornata della memoria, non so se l’uomo indiano riuscirà a tornare a casa. Se racconterà che l’Italia non solo non gli ha dato una possibilità, ma gli ha tolto tutto, fuorché la vita.

Oggi è la giornata della memoria, come allora, non ricordiamo nulla e non vediamo niente.

4 novembre

Pubblicato su willyco.blog 3 novembre 2015

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L’ auto s’inerpica nella sera, le curve si susseguono, i fari illuminano case spente o alberi fitti come palizzate. Gli alberi sono alti e giovani, due guerre hanno eliminato la storia dei boschi antichi e l’immensa distesa che riforniva la Serenissima di pennoni e fasciame per le galee. Per curve ripide, si sale, e il bosco circonda il sasso e l’asfalto, fino alla spianata dei cimiteri, dopo la strada prosegue senza più case. Fino in cima. Qui combatterono a lungo fanti che venivano da regioni lontane rispetto all’altopiano di Asiago. La brigata Liguria perse 2000 uomini in tre giorni, una carneficina, ma tenne l’urto della Strafexpedition. Qui erano loro a resistere e a Castelgomberto, la brigata Sassari. C’è una piccola cappella, che adesso i fari illuminano, poco oltre il cimitero inglese e quello italiano, con i caduti di entrambe le parti.

La strada adesso è più accidentata e ripida, c’è un silenzio che sospende la luce nell’aria, fino alla cima. Dove c’è oggi una malga e un allevamento di maiali, c’era il comando della brigata. La vista sull’altopiano è magnifica. È immerso nelle nubi, con i monti del Trentino a far da sfondo, e il chiarore del tramonto che scema rapidamente. Penso a ciò che vedevano quegli uomini nei pochi momenti di calma: attorno gli alberi spianati dalle artiglierie pesanti, ridotti a moncherini fumanti, le petraie e i prati che scendono a precipizio verso Cesuna.

Non c’è nessuno stasera, anche il finto rifugio illuminato, è vuoto. Torno fuori e guardo la distesa di nubi che scurisce, le prime piccole luci, i segni di vita delle strade. Il silenzio continua. Cosa sentivano i fanti, oltre gli scoppi, gli ordini concitati, i fischi dei projettili in arrivo ? E chi assaliva, gli Alpenkrieg tirolesi, cosa sentivano? L’epoca dei fatti è il maggio 1916, l’Italia non è ancora entrata in guerra con la Germania, il generale Cadorna, pur ripetutamente avvisato di una spedizione in preparazione da parte degli Austriaci, non dà peso alle informazioni dei disertori. Persino agli ufficiali nemici non crede. Poi dal 15 maggio si scatena l’inferno, al solito mancano gli ordini e una chiara visione della battaglia. Viene spesso ordinato di morire per carenza di seconde linee. Così nascono le leggende sul monte Cengio, il salto del granatiere, i suicidi dei volontari trentini o giuliani. Chi viene catturato farà la fine di Battisti e di Filzi. Se la spedizione austriaca riuscisse, sarebbe il disastro, presa Vicenza, poi Padova, Verona, Venezia. Gli austriaci avrebbero la pianura e la guerra vinta. In quei giorni l’altopiano viene evacuato, con la triste sorte degli esuli, portati distante, confinati e guardati con sospetto. Cimbri, todeschi, solo gente di confine, ma visti come possibili nemici: erano donne, adolescenti e bambini, più di 20.000. Agli altri, evacuati dagli austriaci, andò peggio, morirono in tantissimi, per fame, malattie, freddo. Si può morire di freddo dentro una baracca? Sì, soprattutto i bambini.

Nell’aria c’è il profumo dell’autunno: un po’ di fumo lontano, le foglie dei faggi che iniziano a marcire, la terra che esala vapori. È tutto così calmo. Gli animali tornano dal pascolo, lenti, i campanacci agitati nelle ultime brucate d’erba grassa, ma sono pochi, la transumanza c’è già stata, queste mucche e vitelli sverneranno qui.  A fine giugno del ‘916, il 27, finì l’offensiva, le parti si trincerarono e cominciarono gli attacchi alla baionetta per pochi metri. Ci sono molti nomi che troviamo nelle nostre strade e che fino allora erano luoghi da pascolo e bosco, Ortigara, monte Cengio, Melette, ad esempio, luoghi di macelli insensati per pochi metri, guadagnati e persi per puntiglio. C’era chi non capiva, ed era la maggioranza, il perché di tanto uccidersi. Lussu ne ha parlato con una prosa sommessa e forte, senza epicità, e in molta letteratura di guerra vissuta questo non capire, emerge, poi ci sarà il mito della guerra santa propagandato da chi non l’aveva fatta.

Con una terra di nessuno breve, le trincee a tiro di voce e tanti morti, c’erano diserzioni dall’una e dall’altra parte. A questo penso e guardo la luce, che ora è un biancore rosato e segna alberi e cime con la precisione del nero, come volesse ritagliarli e poi ricostruirli su un tavolo: un gioco da bimbi prima di cena. Ma è solo bellezza e qui nessuno giocava.

Mi torna a mente un episodio di quei giorni. Qualcuno di una compagnia dell’89° fanteria, durante l’ennesimo, inutile assalto, pensa di consegnarsi durante un attacco. Di arrendersi, insomma. Il comandante del corpo d’armata, viene informato e fa bombardare la compagnia, che ancora combatte, uccidendo innocenti e disertori. Poi non sazio dell’esempio, da tutta la brigata Salerno fa estrarre due uomini per compagnia e li fa fucilare. Anche dai reparti che avevano combattuto con eroismo, anche da quelli che erano a riposo. Il comandante della brigata, che protesta, viene minacciato di essere fucilato entro 10 minuti se non procede con le esecuzioni. Alle 18, quest’ora, 48 innocenti vengono fucilati. Orrore nell’orrore.

Cosa avranno pensato, e capito, i fucilati e i loro compagni? Ci sarà stato trambusto, protesta, paura, pianti, un divincolarsi inutile, poi la catatonia di chi non capisce e il silenzio che precede le esecuzioni. Non ci si chiede mai cosa passi per la testa di chi è oggetto di un’ ingiustizia assoluta. Se esso pensi che tutta la sua vita sia stata inutile di fronte a ciò che subisce, se ciò che ha costruito, l’amore provato sia sbagliato per un mondo che non lo vuole. Avranno pensato che la nazione, lo Stato per cui tante volte hanno rischiato, per il quale hanno patito fame e paura, adesso disponeva di loro per capriccio, per dimostrare una forza cieca uguale a quella del nemico che uccideva in battaglia. Ma almeno il nemico non li chiamava per nome, gli lasciava una possibilità di difendersi, poteva anche solo ferirli, lo Stato, no, li uccideva e basta. Per dare esempio di una forza così bruta e ingiusta da non avere possibilità d’essere capita. Impossibile racchiuderla in una logica di vita, era solo morte. 

Valeva allora e vale anche adesso questo pensiero che si oppone alla sofferenza delle vite che si sentono sconcluse, uccise due volte. Anche quelle che la sorte ha risparmiato, vengono uccise nel vedere la morte gratuita, l’ingiustizia perpetrata. Penso che se ci fosse una giustizia, questa dovrebbe emergere dall’analisi del suo contrario, dall’esame dell’arbitrio. Il disertore, il ribelle dovrebbe dire qualcosa e invece li si circonda di ignominia per non parlarne. Questi uomini furono esclusi dai monumenti ai caduti. Eroismo, paura, coraggio, scelta, in una ragione alta ci sta tutto perché l’uomo contiene tutto e qualcosa sempre tradisce.

Mio nonno morì l’anno dopo, in una dolina vicino al San Michele. Era agosto, erano i giorni del suo compleanno, era giovane e aveva moglie e due figli. Chissà cosa pensava dei tedeschi che di lì a poco avrebbero sfondato a Caporetto. Erano quelli che gli avevano dato agiatezza e lavoro, quando era emigrato. Parlava la loro lingua, ma era italiano. Era bastato questo per farlo rimpatriare e poi arruolare.

In questa sera, che ormai è notte, chi ha ragione è il silenzio. È un vuoto che non si può riempire. Non ragiona, afferma.

Credo che il sacrario siano queste nubi, questa luce, queste montagne, questi boschi che non appartengono a nessuno, eppure sono stati vissuti, riempiti di speranze, di desideri, di grida e dolore. Loro e il silenzio ci chiedono qualcosa: perché?

Queste righe volevo titolarle: decimazione. Poi ho pensato che la decimazione viene praticata non solo sui campi di battaglia, ma che è il non distinguere, è la cecità dell’esempio che non esemplifica. È solo forza con una ragione presunta e debole che non motiva chi resta, fa solo paura. Ho anche pensato che i generali non li decimano mai qualunque errore facciano e per quanti morti inutili ci siano. La decimazione sta intorno a noi, basta riconoscerla.

barcelona gipsy e gli haiku

Vorrei scrivere un Haiku di 700 pagine, non di tre righe, con la leggerezza dello sguardo che scorre. Che vede le pieghe dell’acqua, coglie la bocca del pesce mentre afferra il fiore nella corrente e sente il sinuoso muoversi dell’acqua. E sulla riva, la luce gioca con le foglie, illumina un albero tra i molti, stupisce l’uccello che sente il calore che lo avvolge.

Vorrei la leggerezza di ciò che scende nell’aria e la risale, che si posa e non si fa male. Il sentire dell’anima che parla con altre anime e non sa cosa sia natura perché di essa è parte. Vorrei l’udito che discerne il crepitare del legno che cambia la sua finta immobilità con le stagioni, ascoltare il suo racconto di cose e d’uomini visti passare, gioire, soffermarsi, partire e a volte non tornare.

Vorrei l’odorato del lupo che sente la neve che arriva, che ascolta il cadere delle foglie una ad una, l’ammucchiarsi nelle tane, l’odore del pelo della femmina e la vigile attesa che vi sia per il branco una preda da dividere.

Vorrei il superfluo dell’inutile, la sua sicurezza priva d’ogni calcolo, il borbottare delle cose lasciate in disparte dall’attenzione, il posare della passione quando si riscalda e corre veloce in ogni angolo del corpo.

Vorrei il riflesso dello specchio che racconta la verità e non giudica mai chi guarda, il profumo del caffè che sale, l’attesa del merlo che finirà le generose briciole della mia colazione.

Vorrei la preghiera del silenzio che non ha tempo e luogo, che s’immerge in ogni cosa, che dona ogni pensiero all’aria e che ringrazia distendendosi nel vivere.

Vorrei le parole che scavano nella terra in cerca di senso, che lo trovano in ogni ricordo di chiunque sia vissuto per poi prendere il volo.

Vorrei la sensazione di chi balla a piedi nudi, di chi sente il vento della sera sulla pelle, di chi poggia il bastone accanto all’uscio e si siede per guardare l’ultimo sole di quel giorno.

Vorrei il fuoco che riscalda i visi nella notte, gli stivali che s’incrociano nel sedere a terra, il canto di chi ha camminato a lungo e ora racconta la storia di ciò che ha visto.

Vorrei la mattina che s’inerpica nel canto dell’allodola, il risveglio dell’amante, la luce che ancora esita il colore.

Vorrei che ciò che vola, ruota, corre, sentisse che l’immoto non è tale, ma ha in sé l’universo e l’indifferente suo arrivare, ovunque, come l’onda che mostra il profondo e poi lo toglie, la polvere che s’innalza in colonne nel deserto per coprire e poi svelare, gli atomi e le molecole di vita che scorrono incessanti verso un’origine che è già stata.

Vorrei la leggerezza che non dice, per 700 pagine racconta ma non pesa, la parola zingara che balla e non ha padroni, che sente e mostra mentre è pudica. Vorrei ciò che affina le punte ai rami e fa nascere le gemme e non si cura d’altro ch’essere se stesso.

Hanno pazienza nel giuggiolo, le gemme

senza fretta guardano,

si realizzano in piccoli verdi fiori

e nei dolci frutti dell’autunno.

la perversa assoluta forza dell’amore

La perversa assoluta forza dell’amore,

dimostra la nostra imperfezione.

E che ci sia amore, oppure manchi, esso cambia le vite,

le piega da dentro eppure sta fuori.

Ci guarda, giudica, e considera adeguati,

alle paure che esso genera,

e, se sbaglia, ci consola con un sospiro:

tanto basta sembra dire,

hai avuto più d’ogni speranza prima.

L’amore è fuori di noi e ci investe,

travolge o ignora,

ma noi restiamo a sua disposizione.

Di tutti i sentimenti è il più violento

e nessuno ne verrà risparmiato.

Anche quando non lo si vorrebbe.

mai come ora abbiamo bisogno di umanità

Tra noi ci sono cattiverie che non strisciano, i rapporti si guastano per ogni gentilezza mancata, per ogni negazione di umanità. Così l’indifferenza si somma alla paura, resta solo l’amore, lo stringersi più forte, tentare di portare il bello dentro di sé e far fluire quel buono che abbiamo con atti minimi di cortesia.

Ad Alicante, era marzo, ma già il caldo si faceva sentire, un signore passeggiava con bastone e mantello. Un cappello a tesa larga, il viso magro, bellissimo di vita vissuta, la mano sollevava il cappello all’incontro con la persona che gli chiedeva qualcosa o verso un volto conosciuto. L’ho guardato a lungo scendere nella passeggiata che attraversava i giardini e le palme. Una figura che era metafora e ricordo. Pensavo a Pessoa, ma non ero a Lisbona e non c’era il caffè dove spesso lui sedeva la sera ad attendere amici e innamorata, una chiesa dei Gesuiti ci sarà pur stata da qualche parte, ma non era quella vicina, ai piedi della discesa e nei bar non c’era nessuna cortesia antica.

La figura era una macchia nera che lentamente si confondeva con le persone. Emergeva e spariva tra corse di bimbi e mamme che richiamavano, mi sembrava di cogliere il gesto del braccio che usciva dal mantello e si portava al cappello assieme a un sorriso lieve. Ma era un desiderio che confondeva la vista e attorno, nei locali all’aperto, c’era una confusione che ora non c’è più, anche la fretta che si accompagnava al muoversi lento di alcuni, era un camminare che ora sembra perduto. Eppure gli umani ci sono, nelle case e fuori si muovono, fanno finta che ci sia una normalità dietro l’angolo. E allora che avrebbe scritto il mio scrittore preferito stanotte? Che dialoghi sarebbero scaturiti dal seguire un filo che si dipanava nei suoi ricordi, cosa avrebbe costruito che non fosse banale e insieme scoprisse l’umanità che si nasconde in tutti noi, ma che solo alcuni portano alla luce e la donano, perché l’umanità è l’unica cosa che mentre si racconta tiene assieme. E degli annegati nel mare mai come ora Nostrum per responsabilità e per occasione di essere mare di pace, che avrebbe detto? Non l’indifferenza dei numeri, mai diversa dall’indifferenza che circonda i numeri della pandemia. Avrebbe detto che ognuna di quelle vite come ogni scarpa o cartella mostrata nei musei degli olocausti conteneva un futuro, un futuro che ci riguardava perché dalle vite viene spesso il bene per molti o anche solo l’amore per pochi, ma viene qualcosa che nessuna indifferenza riesce a colmare.

E cosa avrebbe detto il signore col mantello e che toglieva il cappello per salutare, alla persona che rifiuta una gentilezza, un gesto di misericordia, una pietà che riguarda apparentemente qualcuno ma in realtà è l’unica via che abbiamo per essere umani, per avere una casa calda, un amore, un ritorno e un sonno che non pesi su altri.

Cosa diciamo alle nostre coscienze per non essere umani, per dimenticare quello che accade eppure fingerci normali e poi convincerci che non c’è alternativa, che è così, che è colpa di chi muore, di chi è contagiato, di chi non ha più possibilità da spendere. Cosa diremo ancora che oscuri ogni bellezza, ogni possibilità che essa sia condivisa, che ci sia una equità e una giustizia che riguardi tutti. Cosa diremo per essere umani e soprattutto come riusciremo a pensarlo senza amore?