d’estate, il vicolo

Il vicolo, d’estate, ha finestre che sbattono
tovaglie e lenzuola stese,
biancheria intima nascosta come i sussurri la notte,
le stoviglie fanno il rumore del mezzogiorno e della sera,
come le voci che ascolto tra i voli delle rondini,
nel frullo dei pipistrelli che escono a sentire i muri.
D’estate tutto s’arroventa in questa piazza d’aria
che attende la notte,
come fosse un amore ripetuto e nuovo,
sente il vento come carezza mai data,
un dire nascosto e intriso di dolcezza.
Al mattino riprendono altre voci,
prima un cantiere,
poi il caffèlatte e il litigio,
mai finito, della coppia che fa piangere i bambini.
Quella voce che d’inverno il vetro trattiene,
ora urla, la rabbia di non essere ascoltata.

quasi l’alba

Dalla finestra aperta è arrivato l’alito leggero dell’oscurità profonda, ora accarezza la pelle, mentre i rumori si sciolgono nell’ultimo scoppio di voci, nella risata che si sospende e guarda attorno indecisa sino a spegnersi. Nel  vicolo, sussurri e scalpicciare di passi che s’allontanano verso l’alba.

Silenzio ora, in casa, sotto e vicino.  Appena lontano, la penultima auto passa, passanti e senza dimora, pur rarefatti, manifestano la presenza nel corso, ma tutto avviene con lunghi intervalli di gonfio silenzio e il tempo sembra davvero infinito.

Nelle notti d’attesa, basta decidere che dormire non è poi così necessario, che il corpo ha i suoi tempi e sa tutto. Basta decidere che altre realtà sono presenti oltre la nostra, fatta d’abitudini e paure di stanchezza. Basta decidere e tranquillizzarsi che il tempo c’investirà e noi siamo roccia che si bagna oppure, trascinato sasso che s’arrotonda. Basta decidere e accarezzare i sogni nel dormiveglia, fino a mattina.

e così Maria se n’è andata

E così Maria se n’è andata. In silenzio, in una casa di riposo, lei che non riposava a casa e teneva in ordine anche il vicolo. Se n’è andata a un’età che vorremmo in molti, con la consapevolezza di avere vissuto una vita difficile in cui aveva trovato le sue ragioni e il suo posto. Al funerale mancavano quelli che aveva cresciuti come figli, c’erano i figli suoi. Diceva che aveva avuto molto dai primi come affetto e presenza e se non c’erano di certo una ragione ci sarà stata. Ci sono persone che non vanno mai ai funerali, preferiscono non aver nulla a che fare con un commiato collettivo, forse vogliono congedarsi piano piano nella testa. In silenzio. Senza riti o formule che si ripetono. Forse è così.

Maria faceva un risotto di funghi strepitoso, che di certo ricordano quelli che aveva cresciuto come figli, quando lo faceva lo offriva anche ai vicini.  Era una brava cuoca. Credo avesse imparato, come accadeva un tempo, piano piano da tutti quelli che insegnavano nelle case, perché il cibo teneva assieme le famiglie e il desinare era il luogo dello scambio e della quiete comune.

L’ho conosciuta con la sua naturalezza, mi dava del signore e mi rivolgeva la parola la mattina quando uscivo. Mi raccontava di sé, della sua stanchezza accumulata in molti anni difficili, assieme alle parole buone per chi aveva conosciuto profondamente. Erano pochi minuti che mi aggiustavano la giornata, toglievano quelle preoccupazioni che sono inutili prima che le cose vadano per il loro verso. Perché le cose spingono in una direzione e noi lo sappiamo, solo che ci illudiamo di rovesciarle, Maria le aveva assecondate come si liscia il pelo a un gatto, sovrapensiero. Finito di scambiare le parole della mattina, riprendeva la scopa e puliva il vicolo, perché di qualcuno doveva prendersi cura e in questo caso eravamo noi e le cose. C’era una profonda consapevolezza dello stare assieme, del non tirarsi indietro in quello che faceva e insegnava a chi, come me, sembrava preso da cose che escludevano anziché includere. Poi un giorno ha scelto di andarsene in casa di riposo. Non ce la faceva più, diceva, ma nessuno di noi le credeva. Siamo in pochi nel vicolo, cambiavano le persone e forse non le bastavamo più con le nostre disattenzioni. È vissuta diversi anni in quella casa di riposo, segno che la vita le era cara. Poi ha chiesto di tornare un momento nella casa che aveva amato. Ma dopo. E così credo che se ne sia andata solo a funerale avvenuto. Ho pensato che volesse ancora sentire l’aria di questi posti dov’era vissuta. Magari non è così e non c’è nulla che continui, ma è bello pensare che le persone riescano a chiudere le vite come avrebbero voluto.

 

inutili consequenzialità

Avrei a disposizione una poesia dell’attesa, alcuni biscotti poco zuccherati e pieni di passato, una tazza di caffè e una parola a cui girare attorno. O raggirare. Invero fuori c’è dovizia di cose, una luce verticale, umida e netta come la gravità della pioggia, le linee dei coppi sui tetti, finestre assortite e ombre fugaci piene di daffare. Posso aggiungere i rumori tenui e rispettosi del vicolo, le intimità facoltative di sguardi distratti su tende poco chiuse. Un mondo limitato che si apre, che espira e si sofferma stupito nella magia che precede. Cosa? Qual è l’attesa e quale la parola. Nel mettere frasi piccole, descrizioni di azioni asciugate dal troppo, nell’uso discreto delle congiunzioni e delle virgole, si dipana un pensiero. Non è un’armata che a ranghi serrati procede da noi verso il mondo: il vicolo non lo tollererebbe e neppure il corso che lo accoglie sarebbe capace di districare il tumulto dei pensieri, delle sensazioni, dei ricordi, delle attese, dei contenuti, dei desideri e delle delusioni. No, avere un’accalcarsi di immagini non gioverebbe a chi legge, ma neppure a chi scrive. Per queste cose serve una poltrona comoda, la tazza di caffè nero e bollente, e lasciar scorrere il fiume che c’è dentro. Non interessa la piena ma il fluire ordinato. A volte neppure quello. Sono nell’ipotassi o nella paratassi? Se dovessi descrivere le cose che ritmano il giorno meglio sarebbe non perdersi nelle subordinate. Un diario asciugato che scandisce gli appuntamenti, corredandoli di piccole note. Un’impressione, un risultato, un rimando, oppure il nulla di un’ora. Le ore scritte perdono la loro efficacia nello scriversi: chi c’era dietro quell’incontro, cosa c’era attorno, e come ne siamo usciti? In un diario d’inessenzialità come sono gran parte delle nostre giornate, si collocano piaceri senza traccia e doveri sottolineati. Abitudini spensierate, costrizioni che non costruiscono ma tengono assieme come colle che simulano la continuità. Di tutto ciò che riempie ed è daffare, si rischia di restare senza nulla. Di accorgersi che la fine della settimana, o del mese è più un affare di stagioni che di mutamenti che ci riguardano. Eppure c’è una sopravalutazione del mutamento. Si dice che il cambiare spinga verso una felicità che ora non c’è. Si dice eppure si persegue l’immobilità o il cambiare impercettibile che assicuri la persistenza di ciò che si conosce. Dal personale all’impersonale, dall’io al noi procedo, come questo fosse il criterio per riconoscersi eguali. Almeno un  poco, non nell’oggetto, ma nei modi, nell’esperienza che s’assomiglia. Il mio caffè con un biscotto che compro da quando ero ragazzo è l’idea del caffè di tutti, il meditare e il lasciar scorrere la libertà del pensare oppure il distratto assumere la caffeina necessaria alle prossime ore, al prossimo impegno. Fuori nella terrazzetta, battono sulla ringhiera i cd che dovrebbero allontanare i colombi, suonano i piccoli tubi che annunciano le brezze, vortica una girandola. Artefatti tra le erbe che ancora esitano, gli stecchi che forse rifioriranno. Questo è il pensiero segmentato per la paratassi, un seguire le fila che portano da qualche parte, ma quale essa sia non è dato conoscere, però si può goderne. E non è poco.

la colonna sonora era quella che c’è qui sotto, e i versi dell’attesa meglio attenderli.

 

all’osteria del libero amore

img_6102

I colombini, dopo aver depresso i tulipani, crescendoci sopra e stortandoli senza riguardo, sono volati via. Metaforicamente volati, visto che artigliano con piacere la ringhiera e si rituffano tra le piante e insozzano il terrazzino. Pare che questo luogo sia favorevole ad amplessi e idilli, agli amoreggiamenti di colombi incontinenti.

Insomma mi trovo ad essere l’osteria del libero amore dopo tre covate che s’incrociano Kamasutramente tra di loro.

Spero nella pioggia, nella nascita dei tulipani e delle fresie, spero che si riprenda l’elicriso che vedo un po’ provato dalla cova.

Il rosmarino, pusillanime, ha ceduto le armi, resiste il timo e la ruta, furoreggerà la menta impavida. Forse i peperoncini mi faranno il regalo della loro autosemina.

Discosti e per loro conto, due piante di lantana, attendono sornione il primo accenno di tiepido costante.

E i colombi di tre generazioni impazzano.

storia potente è il vivere e la vita

IMG_6615[1]

Oltre i vetri case lavate dalla pioggia,

e finestre chiuse per l’acqua di stravento.

Nei minuscoli giardini s’agitano palme

con il loro secco battere di foglie che sembra applauda al tempo.

Ci si stringe attorno, si rinserrano persiane e scuri,

ma non del tutto, restano i pertugi

per occhi curiosi di nuvole tozze e grigie,

e raggi di luce che radono i profili.

Nella vasca dove son nati, due piccoli piccioni,

mescolano le piume infreddoliti, 

mentre la mamma li copre, 

prima l’uno poi l’altro, assieme

e guardo loro

e i rosa e i gialli degli intonaci carichi di pioggia,

come se in essi l’inatteso avesse un senso arcano.

Con noi e senza di noi, muta tutto attorno,

così l’emozione prende e rinserra il cuore come casa,

si chiude nel bene che l’attornia,

si pensa terra fertile di ricordo,

ricettacolo di semi e fiori di campo,

senza necessità d’un nome,

e dentro la sera cala come lacrima,

per dire: ancora di nulla e di tutto m’emoziono.

Storia potente è il vivere e la vita.

 

rapaci di città

Se un falchetto, o una poiana, o un astore, alle 18 di questa sera, facesse il suo mestiere, noterebbe movimenti piccoli, insignificanti come prede. Non vedrebbe la colomba che ha rifatto il nido tra le mie aromatiche perché coperta dal telo messo sulle piante. Non vedrebbe le persone che camminano sotto i portici e si affrettano nel freddo verso qualcosa che li attende. Forse noterebbe i piccioni che si sono stretti in un angolo calduccio tra il tetto e il camino che fuma. Anzi li deve proprio vedere perché nei giorni scorsi nel vicolo c’erano mucchietti di piume, ma adesso è buio e il loro grigio si stempera con la pietra.

Continuerebbe a volteggiare scrutando nell’alito della case e delle vie che illuminano il cielo, e avvertirebbe il freddo gelido che costringe a volare più in fretta, costretto a rifiutare le correnti che intorpidiscono i muscoli, in cerca di quel cibo che per lui è sopravvivenza.

Seguirebbe, forse speranzoso, le scie rosse e bianche che escono dalla città, le auto, gli autobus, i tram incolonnati e fermi. Non vedrebbe le persone chiuse negli abitacoli, ma sentirebbe il brusio di telefonate, di autoradio, di messaggi scambiati. E nel suo cervello di rapace scarterebbe il tutto giudicandolo inutile e non conforme a sé.  A lui servono animali teneri, col sangue caldo e la corsa breve, gli servono per vivere, non sono nemici, non prova astio nei loro confronti, sono cose. Quindi non capirebbe le parole concitate scambiate per telefono, non avvertirebbe i silenzi come minaccia. Neppure attenderebbe guardando nervosamente lo scorrere del tempo. Non avrebbe un desiderio che si scioglie in riso, e neppure un bisogno insoddisfatto. Semplicemente scandirebbe le ore con la vita. E se come adesso, sapesse che parlo di lui, e del suo vivere, se non lo minaccio, gli sarei indifferente: un animale troppo grosso per essere cacciato.

I rapaci vagano sulla città con cerchi lenti, dormono nei campanili e inseguono il cibo che vive tra vicoli e cortili. Al contrario dei gabbiani, sono solitari, non camminano e non s’accontentano e hanno piccoli nei nidi. La notte quando spesso gridano tra i tetti penso che vogliano farsi coraggio perché vedono cose che noi non vediamo e i loro sogni sono brevi.

per la terza volta

La colomba credo volesse proteggere i colombini appena nati. Non si è alzata dalla cova e sotto di lei c’era un agitare di pennuzze tenere e gialle. Ho pensato che volesse mostrameli e farmi sapere che era stata brava con tutto questo freddo a farli nascere. È la terza volta che accade in un anno e mezzo e ogni volta il vicolo si accresce di due nuovi inquilini. I miei vasi a vasca li attraggono e non badano più a fare improbabili nidi. Questa volta la colomba si era sistemata sotto il tessuto non tessuto che proteggeva l’elicriso. Insomma pare che l’albergo e le varie camere siano di loro soddisfazione. Se adesso imparassero a espletare le necessità corporali solo dentro i vasi saremmo a posto. Ma ci penserà la stagione a togliere quello che non serve.

Auguri alla colomba e ai colombini, dovrei anche parlare dei rapaci, ma lo farò più avanti, per ora i colombini sono al sicuro.

io e Napoleone

Questa notte Napoleone passeggiava nel vicolo. Non sono impazzito e non parlo di un gatto. L’antefatto, parecchio datato, che me l’ha riportato alla mente, è che per diversi anni ho avuto una scrivania, non mia, legata al ruolo, su cui aveva firmato un decreto il generale napoleonico Massena. Un decreto importante dove per la prima volta si imponeva una tassa sull’estimo, ovvero sul patrimonio, ai possidenti veneti. Talmente importante questa tassa, che successivamente persero l’abitudine di farne.

Era una scrivania molto bella e scomoda. Allora i generali erano più bassi, o meno alti, ed io che non ero generale, né avevo un bastone da maresciallo nello zaino, ma ero un metro e novanta, urtavo con le ginocchia. Così riflettevo che un po’ di umiltà a schiena diritta faceva bene ed era giusto adeguarsi: abbassavo la sedia e mi tenevo la scrivania. Perché mi piaceva il pensiero che un generale, di quelli che facevano comunella con Napoleone, si fosse seduto e avesse firmato, con una penna con pennino, intingendo da un calamaro, il decreto che diceva: uè garçon da demain chi più ha, più paga. E gli altri attorno, ad alta voce : oui, mon general, c’est just et bon, (bon gli veniva bene perché anche in veneto si dice così), ma pensavano : ta morti cani, te sì apena rivà e zà te robi da chi che ghe n’ha. 

Questo mi riconciliava un po’ con Napoleone, che non riuscivo a rendermi simpatico, perché non mi pareva amasse molto la libertà come dono ai popoli, ma preferisse un’ interpretazione della libertà sotto tutela, da regalare a parenti e amici fidati. E poi con Venezia si era comportato non male, peggio, un rottamatore che aveva rottamato il popolo prima della Repubblica. Qui mi fermavo e mi chiedevo se ero diventato di destra perché il motto della rivoluzione mi pareva la sola cosa importante degli ultimi 200 anni: eguaglianza, libertà, solidarietà era sceso in questa pianura imparruccata. Napoleone parlava di queste tre parole, faceva i comizi, solo che poi razzolava male. Mah, avevo le idee confuse.

Come stanotte che pensavo a quanto accaduto negli Stati Uniti con l’elezione di Trump e sentivo i passi di un cambiamento che risuonavano nel vicolo. Cos’è un vicolo, se non una metafora rappresentata fisicamente, un angolo delle nostre piccole sicurezze che però nel difendersi chiudono le vie d’uscita riducendole ad una. Ed è il posto dove pensiamo di conoscere tutto o quasi, ma basta che un passo non conosciuto risuoni e riemerge la precarietà di un mondo, che sembra solido, ma è solo in equilibrio.

Da ragazzino, andavo a ripetizione di francese da un amico più grande, che abitava in una casa strana, fatta soprattutto di scale e stanzette. Una quasi torre, dependance del palazzo Polcastro, dove Napoleone aveva dormito, ospite del conte. Era diventato proprietà delle suore, ma era quasi vuoto d’uso e vocazioni e con questo amico, in silenzio, si potevano percorrere scale e corridoi, fino alla sala decorata ad api d’oro. Una vera preziosità, realizzata in tutta fretta per onorare l’ospite, potente e augusto. Napoleone era passato, avrà notato che c’era stata attenzione, forse, sarcasticamente avrà sorriso: si era passati dai gigli di Francia alle sue api pur sempre francesi, e aveva creato un bel po’ di nuovi adepti. Ma a lui, che passava come un fulmine, cosa poteva interessare delle piccole beghe di popoli che neppure vedeva? Lo disse anche il Manzoni, che amava la velocità: il nuovo che sbaragliava il vecchio perché lo disorientava, non adoperava le stesse tattiche e codici, vinceva e anche se non convinceva, non gli importava più di tanto. Tutto vero, ma poi ricomponeva il tutto nel potere assoluto di chi doveva dare libertà, e c’erano state incoronazioni anziché repubbliche e il ripetere i riti di ciò che sembrava abbattuto. La storia va avanti per suo conto. Il potere come servizio ai problemi dei molti, non gli interessava, ma questo non contava allora come non conta adesso, ed io lo sentivo sprezzante e sciupone: fare la storia a modo suo era certamente da grandi, ma lasciava dietro un sacco di macerie.  

Voi direte che c’entra il vicolo come angolo in cui cerchiamo tranquillità e l’insicurezza attuale? Poco se la storia non insegna nulla, se pensiamo che le sicurezze siano per sempre, se non abbiamo valori comuni da difendere e non lo facciamo. Non è chiudendosi nel vicolo e ascoltando i passi che siamo più liberi, meno minacciati. Quello che accadrà, e che sta già accadendo, è un mutare di cose che si consideravano intangibili, il lavoro, il welfare, la stessa nozione di libertà e di democrazia. Però basta pensare agli errori e alle sottovalutazioni commessi tra le due guerre, alla crescita dei fascismi e del nazismo, alla loro necessità di indicare nemici vicini, tangibili e soprattutto eguali alle classi interne bistrattate dalla crescita delle ricchezze e dell’ineguaglianza, per trovare analogie. Guerre di poveri tra poveri.

E se un grande come Napoleone che aveva lasciato così tante tracce, che aveva fatto e molto disfatto, che aveva reclutato persone, anche qui, da portare a Mosca e invece morte alla Beresina, alla fine aveva ripercorso non gli ideali che lo avevano generato, ma il potere personale, non è forse il popolo, ovvero noi ad essere l’unico guardiano vigile perché il peggio non accada, perché l’umanità sia salvaguardata attraverso l’esercizio delle proprie piccole libertà?

Il vicolo è corto ma non troppo, ha qualche anfratto, un cortile e abitanti discreti, quindi è il posto ideale per guardare il corso, che poi è metafora del mondo. Ma stanotte  i passetti che sentivo ho pensato fossero i suoi, di Napoleone, sempre più nervosi, perché anche i grandi vogliono essere riconosciuti, cercati, amati, ma anche arginati e il popolo ha grandi possibilità di farlo quando non si affida a un capo. 

incoercibile

img_4564

Dai piccoli semi di scarto frammisti ai fondi di caffè messi nei vasi sono nate piante di pomodoro e di peperoncino. In questa confusione di semi che vanno e vengono anche una melanzana svetta rigogliosa in cerca di sole. Nessuno ha detto loro che è settembre e che il solstizio chiude l’estate, provano a vivere di quello che c’è e ne prendono tutto il buono.

La vita ha un bisogno incoercibile d’essere che è sfida alle regole, trova un suo modo, lo afferma e si tiene ritta davanti al contraddittorio. Mi sono ricordato che da sant’Erasmo, vengono i piccoli carciofi che non riusciranno mai a diventare grandi, sono le castraure, a Venezia e in terraferma ne fanno fritti con la pastella e sono piatti succulenti oppure li mettono sott’olio come quelli che a fine stagione non hanno la misura per il mercato. Segno di una identità forte che è solo fuori tempo dalla massa ma non dall’amare la vita. Lo pensavo, guardando le coraggiose piante della mia terrazzetta, che anche le stagioni dell’uomo sono fasulle, che non esiste il tempo per apprendere e l’altro per fare, o quello per innamorarsi e l’altro per invecchiare, ma che tutto è incoercibile nella passione di vivere e può partire sempre purché ci sia la voglia di crescere e quello che ne verrà non sarà fuori stagione ma semplicemente la gioia di dare frutto.