senzafissadimora

Diceva che per lui un libro da scrivere si doveva formare tutto nella sua mente. Poco per volta cresceva, aggiungeva, lasciava cadere o innalzava, i personaggi, le situazioni, finché raggiungeva un senso che giustificava tutto ciò che si sarebbe espresso con parole. Poi diventava facile, bastava ricordare.
Ma questo era lui, un grande, uno Scrittore, ma per gli altri che scrivono per sé e per chi legge, con difficoltà e dubbi, con pazienza e cadute, lasciandosi condurre dalla ricerca di un senso che solo a volte si trova, per questi come funziona?
Non lo so come funziona, a me bastava un filo dopo un attacco. Un filo che tenesse assieme il divagare, la necessità di soffermarmi sui particolari che non contano. Quelli erano parte del piacere di guardare le cose come nuvole da un prato, la giusta distanza, e le persone, attraverso quel gesto che si protende per capire, che tiene una mano e ne sente la dolcezza o l’asprezza, perché una mano dice tantissimo, ha una storia intera che parla del passato e del presente e da come stringe dice anche il futuro, le sue paure, le sue attese, il divenire di un non detto che vuole essere capito. Questo prendere la mano, era la giusta vicinanza. Ma è così che si scrive? Guardando le cose e le persone? Forse lo è per me, che cerco di non ripetere i modi con cui si inizia un discorso, il come stai? ho fatto questo, quest’altro. E nel dire c’è una ricerca di sincerità, di sostanza, ma soprattutto di sapere davvero: la curiosità senza morbosità, nei confronti dell’altro, l’empatia. Anche se non è vero che non dico più queste formule, i discorsi cominciano così, ma dipende se ciò che dico lo penso davvero, se mi interessa come sta un altro, se quello che ho fatto, e che racconto, aveva un’anima che lo riguarda.
Penso le mie storie camminando, scrivo dentro la testa, poi molto spesso dimentico tutto. So che le cose mi ricorderanno pezzi di ragionamento, forse per questo faccio itinerari che mutano di poco. Vorrei raccontare la città come l’ho conosciuta e com’è. Seguire il filo di un sentimento di amore che ingloba storie, le espande, cerca nessi, annoda particolari, si mette in ascolto. Questo raccontare riassume, c’è un sé ben presente assieme a un mettersi in discussione: capisco che quando accadde non ho capito, però ho le tracce di ciò che è accaduto e so che ancora non capirò per davvero se non lo scrivo, se non mi guardo dall’esterno nel mio camminare dentro le cose e tra le persone. Presumere e presunzione sono legati strettamente quando si racconta, perdono il connotato negativo che diventa giudizio e diventano un protagonista terzo, che non esiste ma è verosimile, che si affaccia tra i pensieri, sceglie le parole che lo descrivono, addita ciò che lo interessa. E questo protagonista pensa con ciò che capiamo, con la nostra testa che s’interroga. Allora conta moltissimo ciò che di lui non si vede, però agisce e perché lo faccia, quale storia o banalità metta in quell’incrocio del caso che lo spinge avanti nel fare, viene lasciato al nostro presumere.
Per me raccontare è un’immagine di un vissuto di molto tempo fa: una signora piccola, leggera, vestita di nero che camminava svelta nella bora fortissima di un giorno terso a Trieste. Guardavo il mare che si corrugava come un tessuto spinto da due mani lente e costanti che carezzavano un corpo allegro. Sorridevo e salivo verso san Giusto. Mi dovevo attaccare ai corrimani. Ridevo per il vento che mi spostava, mi lasciavo prendere dal momento, ne godevo, mentre lei andava sicura, mettendo i passi giusti, scivolando tra le folate come chi sa correre nella sua vita. Raccontava una storia di sicurezze, incurante di controllare ciò che già conosceva, ansiosa di tornare a casa o fare altro. Era libera dagli eventi che prendevano me, la sua era una storia che si svolgeva non che capitava.
In una via, che un tempo era molto più animata, di notte cammino in fretta, un velo di timore mi accompagna. Sento i miei passi risuonare tra i palazzi vuoti, nei cortili deserti. Anche le piazze sembrano diverse. Di giorno sono affollate di persone, di bancarelle, di studenti che bighellonano, parlano, amoreggiano, la notte gli spazi trovano una fisionomia austera che prende distanza dagli uomini, s’impone, li sovrasta con il peso della storia vissuta, dell’essere fatti di edifici e di pietre ingegnose, di progetti antichi e soprattutto di storie. Gli spazi hanno assistito all’evolvere che mutava la città e sono contenitori di moltitudini di vite. Mi guardo attorno, ogni porta e cancello sono sbarrati, non riuscirei più correre a lungo se qualcuno m’inseguisse, è questa l’insicurezza?
Da ragazzo non ho mai avuto paura, da quando mi è stato permesso, e l’ho strappato quel permesso, restavo fuori fino a notte fonda. Qualche volta ho visto l’alba. Si fidavano. Ispiravo fiducia. Tornavo sempre in tempo per fare altro il mattino seguente. Mia Nonna mi parlava appena entravo, mi chiedeva come stavo, se volevo un caffè. Voleva sapere davvero come stavo e io le rispondevo volentieri, ma raccontavo poco delle mie peregrinazioni notturne. Solo ciò che pensavo potesse interessarla, una casa, un’osteria in cui mi aveva portato da bambino a vedere la televisione, posti dove avevo giocato mentre lei mi guardava. Parlavo raramente di persone, perché in città non conosceva più nessuno o quasi. Solo la cerchia degli affetti le interessava, ma quelli di notte dormivano. Così le parlavo dei luoghi e lei, a volte, ricordava ciò che era stato, io le raccontavo ciò che era adesso.
Allora non avevo paura di chi trovavo di notte; ubriachi alla seconda sbronza, qualcuno che rientrava a casa dopo essere stato in una casa non sua, persone che uscivano in fretta dalla lama di luce della serranda chiusa di un bar in cui si perdevano stipendi e fortune, i senzafissadimora che dormivano con la testa piegata di lato su una sedia o stesi sulle panche di pietra del municipio. C’erano insonni vaganti che aspettavano l’ultima osteria da chiudere, un litro di vino, due bicchieri e un tavolino all’aperto. Sotto la mole del Salone, oppure tra i portici delle strade che andavano verso il fiume vagavano persone. Sempre le stesse, con nomi che tutti conoscevano e ricordi favolosi. Vite che si ammantavano di fiaba. Chi era stato un fascista convinto poi inebetito dalla disfatta e dall’alcool, chi aveva avuto padri sconosciuti e madri incerte ed era cresciuto tra i carretti che di notte i fruttaroli ammassavano in depositi, i facchini ormai stanchi, con racconti smozzicati dal troppo vino cattivo. C’erano altri che vestivano sempre lo stesso abito e ripetevano sempre le stesse frasi sino a essere queste il loro nome e si arrabbiavano quando venivano presi in giro. Prendevano una rincorsa, correvano, incespicavano, ridevano, ti chiedevano una sigaretta già dimentichi del perché s’erano arrabbiati. Ce n’erano parecchi di questi personaggi che non chiedevano la carità, gli veniva pagato un contributo alla rappresentazione che facevano di sé e del mondo. Non dicevano mai che era poco, casomai chiedevano un altro mezzo litro, erano gentili o irosi, ma ringraziavano se era il caso di farlo.
Ora, come allora gli stessi ciottoli e ponti, manca un fiume all’appello, è stato interrato per farne una strada. A volte hanno un silenzio stupido le strade che sostituiscono qualcosa che c’era, rappresentano un’utilità, forse neppure quella, una speculazione sul concetto di moderno e di denaro che è dilagata dalla strada e ha investito palazzi e case, li ha abbattuti con cemento e serramenti anodizzati, e ha fatto diventare tutto vecchio e banale, anzitempo. Hanno storie negative queste strade, vivono per sottrazione. Per questo non le faccio, seguo giri più larghi, le piazzette con alberi che ospitano allodole pronte a cantare, le case con finestre spente o i movimenti degli insonni, luci che si accendono e spengono. È come allora ma mancano le persone. È vuota la città di notte, tutti rintanati nelle case, a parte qualcuno nel sacco a pelo, sotto i portici steso sui cartoni. Si agitano nel sonno i nuovi senzafissadimora coperti di stracci, preferisco sia così, ho paura quando stanno troppo fermi. Non si sa se sono vivi, non si sa che fare.
Parlare con gli ubriachi era difficile, complicato se si voleva trovare un senso, imparavo la gestione del silenzio e l’accumulo interiore delle domande, lasciavo fare. Ma non c’era paura, arrivavano i netturbini, vuotavano bidoni, non chiedevano nulla, al più da accendere o un sorso di vino.
Senzafissadimora erano gli abitanti della notte, quelli che non avevano casa e quelli che l’avevano ma erano stretti nell’inquietudine, nel capire che non trovava il bandolo, nel sonno che non arrivava se non per sfinimento. I pensieri dei senzafissadimora e le pietre, il luogo e la corda lunga dei cani a catena che girano intorno alla casa, tutto cucito assieme, vicino al cuore e sulla pelle per sentire meglio il bisbiglio che si confonde, che dice e poi tace come una sofferenza lieve e inutile che però non passa e s’indovina; si deve indovinare perché mai si racconta. Eppure, sotto c’è sempre una storia che non giustifica nulla, ma si ferma o scivola in avanti. Incessantemente. Ecco di questo mi piacerebbe scrivere e raccontare.