Ricordo il sole nel giardino, l’ombra della mura, la mezza vera da pozzo rinchiusa, il banco, i “ferri” originari di mio Padre che l’avevano accompagnato nel mestiere e nel suo evolvere, gli attrezzi che si erano aggiunti nel tempo comprati perché la tecnica mutava. Nulla era in disparte, ogni utensile aveva un nome e una funzione e il suo ruolo emergeva quando veniva preso dalle cassette o dalla borsa.
Quello che doveva essere un amico, ma era solo un collega, prese tutto, diede pochi soldi a mia Madre e sembrò fare un favore. Forse lo pensò, comunque si sbagliava. Un’ impressione triste mi rimase di quel pomeriggio, perché parlava troppo e un giudizio era stato emesso sulle cose. Il sole nel giardino, nel capanno dove mio Padre lavorava, era diventato inopportuno, come lo stridio del gesso sulla lavagna, qualcosa di fastidioso che non scriveva nulla. Ciò che per quell’uomo era ormai vecchio e inadeguato, aveva prodotto capolavori che ancora funzionavano benissimo, era stato usato con la maestria che differenzia chi prende in mano un tramite per l’intelligenza e l’arte che possiede da chi questa intelligenza non ha e si affida alle cose.
Capivo che per mia Madre, come per tutti noi, la presenza di mio Padre era ovunque e la sua assenza lancinante, gli oggetti del suo lavoro erano un continuo riportare il pensiero e far riemergere il dolore. Questo aveva motivato l’accogliere quello che sembrava un atto d’amicizia, poi le parole di troppo, che a me erano sembrate un giudizio, avevano riaperto la ferita.
Mia Madre non capi, prese la banconota con difficoltà, salutò e ringraziò con le parole che definivano il sentire: non occorreva. Ed era vero, era una signora mia Madre, e lo era mio Padre. Fosse stato zitto con me, avrei ora un ricordo negativo in meno su come ci si approfitti anche del poco. È natura umana per alcuni, ma non di tutti.
Però un dono mi è stato fatto quel giorno, mai avevo capito così intensamente la grandezza di mio Padre nel suo lavoro, la sua maestria che curava il bello assieme all’utile e le sue mani, le mani che tanto ho amato nelle rade carezze, le avrei volute nei geni, come un tratto che si trasmette per il tempo a chi verrà. Non so se questo accada, ma se ciò fosse non serviranno utensili particolari per l’arte di essere se stessi e grandi, con umiltà e silenzio, mio padre era così, perché un lavoro ben fatto è già eloquente in sé.
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viva San Marco
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Il mare ha sovrapposto acqua ad acqua tutta la notte e al mattino la spiaggia era piena di restituzioni. Rami ancora verdi, alberi interi, radici, tanta plastica assieme alle sue cose; quelle che non gli servivano più. Cose leggere, depositate con delicatezza sull’esile contorno della riva , conchiglie, peschi morti, grovigli d’alghe, qualche medusa.
Ciò che il mare dona, compresi i resti dei naufragi, diventerà capanno per l’estate, gli abitanti non gettano nulla di ciò che il mare dona a loro. E quel donare lo sentono proprio solo loro, come la lunghissima spiaggia che viene popolata di queste costruzioni. Il mare d’autunno si riprenderà tutto, farà i suoi scambi nel profondo e redistribuirà in inverno. Il mare è un grande riciclatore e pratica gli equilibri che nessun umano riesce a fare davvero per conservare il pianeta.
Sei ore sale, sei ore scende la marea, dipende dalla luna e quanto alta essa sarà. Quanta spiaggia porterà con sé, lo diranno tra le righe gli esperti che compilano le tabelle, le stesse che i venti e il cielo renderanno infedeli. Non ascoltano anche se il mare, a volte, parla con gli uomini, ma solo ad alcuni e di rado. Un tempo lo faceva di più perché si sentiva capito da chi conosce il tempo e sa che il mare ha tempi lunghi e brevi, incomparabili con le vite di chi guarda mentre è amoroso e pieno di cura per quelle che contiene.
Pescatori e marinai seduti sul muretto al sole, parlano con fiotti di parole, saluti e silenzi: aspettano la cena e un altro giorno uguale a questo. C’è poco da fare, poca pesca, poco lavoro, solo spazio per ricordi recenti, famiglie. Tra poco arriveranno i villeggianti, saranno soldi e confusione per l’estate, case che crescono ogni anno di valore e poi inverni freddi e solitari, con la nebbia che avvolge le barche e i vaporetti nella notte.
In quest’isola reclutava la marina imperiale austro veneta, ed un timoniere di qui, Vincenzo Vianello, ricevette la medaglia d’oro dell’imperatore per aver affondato a Lissa, la corazzata re d’Italia. I piemontesi, che, per molti, ancora non erano italiani, forse sentirono i viva san Marco dalle navi nemiche. Quando vincevano sul mare, fossero veneti, istriani, o dalmati, vinceva san Marco, e sui ponti di comando delle navi imperiali, in Adriatico si davano ordini in veneziano. Anche l’ammiraglio Tegetthoff lo faceva, i suoi ufficiali avevano studiato al collegio navale di Venezia, il Morosini, il mare di casa era l’Adriatico. Ma di tutto questo ribollire non è rimasto più nulla, neppure la fatica di diventare italiani è stata davvero celebrata.
Anziani bruciati dal sole, caparosolanti (pescatori di cozze) in fermo pesca, reti ripassate perché non si sa che fare. Si sale in barca si pulisce, si mette in moto, e si ri-ormeggia. Qui tutto attende qualcosa che rovesci un senso di fine. Un matrimonio, un battesimo, i bambini alla comunione, qualcosa che porti fuori da un tempo che s’è spezzato. Si incrina il tempo degli uomini, in qualsiasi cosa che finisce mentre nulla ricomincia. In un passo del contributo alla critica dell’economia politica, Marx diceva qualcosa che allora mi sembrava ovvio, ossia che il nuovo, nasce nel vecchio che fa i conti con le sue contraddizioni, e quest’ultimo lo alimenta finché il nuovo prenderà il sopravvento. Marx era un positivista prima del positivismo, pensava che alla fine le cose si sarebbero messe in ordine. Mi pareva che bisognasse cercare, per capire, il filo rosso che lega le cose, e i fatti, e le vite nel sociale. Solo il filo che si riconosce quando ha già cucito ed occlude la vista dei tanti futuri possibili ed abortiti, delle possibilità spazzate dal reale. Ma qui, mica lo sanno che bisogna trovare un senso alla storia, in quest’isola di vecchi, il senso della storia è nell’orgoglio dì essere il terminale di una catena ininterrotta.
La stessa sensazione si prova nei paesi di montagna dove il turismo non ha costruito troppe case vuote, e tra gli abitanti, la nascita di un bimbo, un matrimonio, una persona che sceglie di restare, è un fatto collettivo, una speranza per tutti. In questi luoghi, sacche di memoria, il legante e il motore, è la tradizione, fatta più di abitudini che di principi. La tradizione era un principio, costruito dai saperi di vite sovrapposte, dal saper fare trasmesso immutabile, che ora si sgretola perché non si trova menti, dita, luoghi in cui esercitare l’imperio del sapere antico. Ed è proprio questo imperio che si smarrisce, qui come altrove, che perde la nozione di forza comune, finché il legante si scioglie e sulla riva, davanti a una casa, una donna si siede accanto ad un’altra. Parlano sapendo che il futuro è così vicino da confondersi con il presente, e il passato, un amante a cui attingere per riempire i discorsi, anche se alla fine, opprime un po’, come tutti i vecchi amanti. Parlano e guardano per pensieri brevi, quasi informazioni e sentenze.
E’ la stessa donna che ho fotografato un anno fa, oppure un’altra? In fondo non importa, è il gesto che scosta la tenda, la mano che ripara gli occhi dal sole, il guardarmi, io foresto, eppure con lo stesso dialetto. I foresti ora restano poco, arrivano e vanno, prendono il sole, il mare, la spiaggia, l’aria, l’azzurro del cielo. Prendono, lasciano dei soldi e se ne vanno. Un tempo il foresto restava, raccontava di sé, imparava la lingua, aggiungeva parole e significati, lasciava le cose com’erano e, se pur restava foresto, diventava uno di noi. Così sembra pensare la donna finché mi parla, e così pensa il pescatore che aveva il bisnonno nella imperiale marina Austro Veneta, così penso io che sono foresto e so che quel mondo è finito nelle sue gerarchie e priorità, lasciando le persone sui muretti e sulle soglie di casa. E so che questa generazione, sarà l’ultima, con memoria di oltre due secoli, poi sparirà anche quella. I ragazzi ricorderanno a breve, perché nessuno gli racconterà, e così sarà la scuola, i genitori, qualche amore, il bar, a farla da padrone in un passato così breve che sembra antico già in un pezzo di vita.
Parlando di queste cose con un’amico indigeno, alla fine è sbottato: a furia de pensar el çerveo te va in acqua (a furia di pensare il cervello ti va in acqua). Memoria d’acqua, per l’appunto.
Tornando ho visto l’insegna della antica trattoria La fazenda, è del 1973: un’eternità.
è il primo maggio, indignatevi
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Confesso che ho vissuto e attorno a me vedo molta difficoltà a vivere. Forse per questo mi confondo, ho l’impressione di avere verità e idee comuni, ma la realtà mi contraddice. C’è sofferenza e non c’è protesta. Il mio secolo è a cavallo tra un secolo che non finisce ed uno che non inizia. Hobsbawm l’ha definito il secolo breve per contrapporlo al lungo secolo 19° , ma chissà se lo pensava davvero vista l’opulenza di cui si è nutrito il ‘900. Un secolo bulimico la cui voracità si estende a questo secolo. Un secolo che ha divorato e divora, tempo e vite. Non si è concluso nulla o quasi, un secolo inconcludente, abitato da tragedie e persone inconcludenti, da ideologie mutate nel loro peggio, da lotte che si sono placate non nel cambiamento, ma nella stanchezza, forse per questo si è vissuto così tanto.
Indignatevi. Per la velocità che nasconde la ragione. Il secolo breve era cominciato con l’ideologia della velocità.
Indignatevi per tutto ciò che vi lasciate togliere. Oggi fate la spesa la domenica e lavorate sempre.
Indignatevi perché il giusto non è ridurre uno stipendio abnorme, non solo, è abolire il privilegio che l’ha permesso, che discrimina, tra chi ce l’ha e chi non ce l’ha. E’ questo il confine del potere e c’è chi sta una parte e chi dall’altra, io scelgo quella che non ha privilegio.
Aver derubricato la lotta di classe, non ha tolto le classi, ma ha fatto perdere l’idea di eguaglianza. Ha tolto sostanza al rapporto tra le forze che dovrebbero gestire l’equilibrio tra economia e società, tra diritti e ricchezza. Così si è vanificato il diritto comune all’eguaglianza sciogliendolo nell’acido della finanza e della speculazione. Non il lavoro, ma il denaro è diventato il soggetto che riguarda l’uomo. Basti pensare che ciò che si ritiene un diritto non negoziabile, quello alla vita, e ogni giorno, in occidente, come nel resto del mondo, messo in discussione dall’esistenza di un lavoro, di una sua continuità, oppure di una pensione, di un sussidio. La Grecia non ci ha insegnato nulla, è neppure la pandemia, eravamo crapuloni e tali siamo rimasti. Ogni evento inatteso si dice insegni molto, ma non s’impara nulla.
Indignatevi perché si è accettata la povertà come funzionale, la diseguaglianza come elemento strutturale e come motore della mobilità sociale, seppellendo la possibilità di un’eguaglianza vera di base, di una valutazione del merito. La perdita di diritti ne è conseguenza perché in questa visione, sono stati monetizzati ed era naturale quando si è affidata alla sola parte del capitalismo, all’impresa e alla sua proprietà e non al lavoro, il compito di condurre il mondo. Il denaro compra i diritti e gli effetti si vedono con le diseguaglianze che crescono, con la democrazia che diminuisce.
Indignatevi per chi muore per lavorare, ma non fatelo solo per un giorno, togliere il rischio dal profitto è una impresa che cambia la società e il modo di vedere chi lavora.
Indignarsi qui, oggi, nel virtuale, ha un significato ben diverso da ciò che abbiamo attorno: è la protesta reale che analizza, lotta e cambia la società, ecco cosa manca oggi all’occidente. E ciò che manca contiene la speranza del cambiamento vero, permanente, contiene la maggiore equità, ma nel lessico comune invece, la speranza si è trasferita nella crescita economica. Per questo mi confondo e vedo che i migliori ingegni, la meglio gioventù sente l’estraniazione dall’occidente. Non pochi scelgono di esercitare un cambiamento nel terzo mondo piuttosto che a casa propria, nelle situazioni al limite, piuttosto che nella normalità. Mai come ora la normalità ottunde, e addormenta la speranza. Mai come ora è necessario che sia il quotidiano a verificare se ciò che ci attornia ci va bene oppure no.
Il vecchio partigiano Stéphane Hessel ci aveva chiesto di indignarci, ma nessuno non s’è indignato davvero abbastanza a lungo per cambiare il mondo. E’ morto dieci anni fa, il vecchio partigiano, senza saperlo, forse sperando che le parole potessero mettere in moto cuori e cervelli, com’è stato molte volte. Ora funziona solo il presente, lui pensava al futuro.
buon 25 aprile
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Un paese senza vergogna. Lo fu a guerra voluta e perduta, lo fu nell’applaudire le leggi liberticide, poi nelle leggi razziali. Lo fu ridendo delle censure e applaudendo il potente locale o supremo. Lo fu quando sparivano gli amici e i conoscenti e veniva negata amicizia e conoscenza. La lotta partigiana, il no di Cefalonia e della divisione Acqui, le divisioni che combatterono accanto agli inglesi e americani per rifare l’Italia, furono il sussulto dell’onore, la riconquista delle libertà di pensiero prima che di azione. Poi pian piano è tornato il paese sonnolento, connivente e normale. Non è un giudizio morale ma la percezione che la società italiana abbia nuovamente dismesso degli argini, tolto delle virtù civili e sostituite con quello che esisteva anche prima, ovvero l’essere sempre con chi vince, glorificare il furbo, portare col sorriso il sottile disprezzo delle regole comuni.
Questo ha prodotto la classe politica che ci governa adesso ed è coerente con il fascismo perbenista del me ne frego, ma anche quella di prima, pian piano annegata nella retorica e nei riti senza religione, ha dato una grande mano a disilludere sul cambiamento e a far impallidire il ricordo delle libertà riconquistato a prezzo altissimo di morte e devastazione. I partigiani, gli ideali che mossero un lampo tale da stupire le coscienze dell’abbrutimento vissuto per 23 anni, meritavano di più e di meglio. Quando leggo i sondaggi che danno la destra al 40% e fdi oltre il 28%, magari nelle regioni che governano da anni e dove i servizi sono precari, la sanità solo per chi paga, il lavoro una chimera, mi chiedo come si sia creata questa morta gora delle coscienze e dove sia la vergogna di chi è stato vilipeso ripetutamente in questi anni, dove sia la dignità di chi cerca il consenso in chi lo considera ancora cittadino di seconda serie. Un suddito. Si potrà dire che negli anni, dopo la ricostruzione, con il benessere non si è fatto meglio, che la politica è stata potere, come durante il fascismo, solo che c’era la libertà, ma non è stata che per poco, servizio. Eppure li ho conosciuti, io stesso sono stato parte di quella diversità che voleva cambiare il mondo e cominciava dalla strada in cui si abitava. Quindi c’era una alternativa, c’è. E l’orgoglio, la dignità, la lotta per la giustizia sociale per sé e per gli altri, c’era. Credo che non pochi abbiano ancora dentro questa indignazione che è rifiuto dell’esistente, anche se sembra che il futuro non conti e che sia questa l’era dei furbi e del solo presente.
Ma se i voltagabbana sono una realtà, nelle famiglie un tempo si insegnava l’onore, si rispettavano le persone, si pagavano i debiti perché era un disonore non onorarli. Si teneva al proprio buon nome che nasceva dalle scelte e dalla coerenza.. L’ospitalità era un modo per sancire la propria presenza sociale, il potere di dare misura di sé. Era tutto sbagliato? Ora i ministri si fanno vanto di non onorare leggi dello stato, di conservarsi nel potere con indagini per bancarotta e truffa in corso. E magari crescono nei consensi. Per questo penso che si siano abbattuti gli argini e la vergogna dilaghi senza essere sentita come tale, non più considerata una consapevolezza che abbassa lo sguardo e arrossa il viso. Mi ostino a credere in chi ha dato la vita, è stato torturato e non ha parlato, in chi ha costruito dalle macerie un paese e non solo per sé. Mi ostino a credere nella pace, nella libertà, nel cambiamento dell’economia verso la giustizia sociale, nel mutare delle abitudini verso il rispetto della natura e del pianeta. Mi ostino a credere che esista un futuro migliore per tutti e che sia nato in chi vide la tenebra del fascismo squarciarsi, rivelando la menzogna, la violenza, la sopraffazione perpetrata a un intero paese. Mi ostino e credo che resistere difendendo i valori del 25 aprile sia creare il nuovo, il buono, il giusto per tutti.
parliamo tanto di me
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Parliamo tanto di me, che questo poi si fa guardando il mondo e illudendosi che il mondo ci guardi e abbia un qualche interesse per noi. La realtà, così come la percepiamo è nostra, immersa nelle emozioni, deviata dai pensieri e oscuramente percepiamo questo isolamento che poi motiva lo sforzo comunicativo. Abbiamo bisogno di confrontarci di continuo con ciò che percepiamo, sentiamo, guardiamo e non poterlo fare con il mondo, gettiamo messaggi in bottiglia sperando che qualcuno apra e ci legga. A questo serve scrivere parlando d’altro. E pure a dire la verità scrivendo, quella che ci pare la verità. La verità non si esibisce, si racconta, è un’approssimazione della comprensione, ma la verità di chi scrive onestamente, anche quando è ipotetica, è chirurgica. Almeno chirurgica a sé, perché capire di più è inseguire qualche demone, anatomizzarlo per capire com’è fatto, purché resti vivo ed aderente alla sua verità. Che poi è la stessa di chi scrive. La verità del guitto, invece, balla larga nei vestiti non sono suoi, mentre vuole farli apparire tali; e si capisce.
Bisogna dirla con semplicità, la verità, ma questo è il segreto dello scrittore di rango che la ammanta di semplicità di vesti e la lascia spogliare da chi conosce l’erotismo della verità.
La verità ha una sua malinconia, che supera di molto il racconto del proprio malessere, anzi il parlar d’altro è un modo per proporre diversamente la malinconia che è nelle cose. Si dirà che le cose non hanno emozioni, però le acquistano quando cessano di essere tali e acquistano significato per noi. Sono le cose che ci colpiscono quando smettono d’essere indifferenti, che offendono; in fondo la verità è una mediazione tra un sentire e un essere ed entrambe le condizioni sono vulnerabili dalle cose. Ma restiamo in ambiti domestici: la nostra verità, che è poi bisogno, non ha specchio nel bujo del non vedersi, del non sapere chi si ha davanti. Soprattutto se si scrive come si borbotta tra sé. Il fatto di non avere specchio nello sguardo, nell’espressione, fa trovare specchio nelle parole e qui, a volte, si potrebbe usare la perfetta ricetta dello scrittore, ovvero mistero, storia, erotismo q.b. Ma questa non è verità, è racconto, plot, eppure quanti tentativi maldestri di racconto auto specchiante slegato da chi scrive, si trovano.
Chi ha lembi di storia comune si capisce per ricordi conosciuti, sensazioni sperimentate e soprattutto per intuito. Aiuta il vissuto che si sovrappone, ma nei modi in cui questo accade. Questa condizione si può trasferire anche nella comunicazione epistolare, che è fatta di sintonie profonde, rivelazioni intime, ed è un percorso di conoscenza, una relazione. Invece scrivere al mondo, a chi non si vede né si conosce, razionalizza, semplifica. Una frase in testa è fatta di continuità piene di puntini multimediali e spiegarlo diventa una fatica immane. Allora si razionalizza, e si perde il succo della vita vera.
Non scrivo per essere capito subito, non da tutti almeno, ma per la sintonia. Mi basta.
E se poi la parola diventa cura, allora ci dev’essere, come nell’amore, una doppia disponibilità: quella di lasciarsi curare e di curare. La relazione epistolare non esaurisce certamente la necessità di conoscere l’altro, essere vicini è una scelta che usa più mezzi.
Scriversi è una componente potente di un incontro, ma bisogna che sia un incontro.
E c’è differenza tra vivere come superficie (con puntate al profondo) e l’essere.
In fondo di questo vivere, di cui molto si parla, il limite è proprio la superficie e di come se ne parla. Se si fa lo sforzo del non tradire se stessi, è necessario scavare, allora agisce più il malessere, o il dolore, che la gioia, ma per comunicare la conoscenza che emerge, la nostra verità infedele, c’è bisogno di mostrarsi e questo implica una fiducia totale anche sull’essere fraintesi, perché il fraintendimento è il miglio posto dove nascondere ciò che siamo davvero.
Oh beh!
Questa canzone è per me la summa sublime di ciò che si può comunicare:
carichi eccessivi ed equilibrio
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A volte penso che i carichi, presi con grande insensatezza (la generosità è tale), siano eccessivi. Lo sono perché projettano un’ombra sul mondo, sul tempo, su ciò che vedo. Ribellarsi per tutta la vita alla schiavitù delle cose, al loro ingerirsi nella vita, proprio per il senso del dovere che merita la funzione che si ricopre, significa rispettare le regole, ma non deve impedire di vivere.
Forse si cade in altre costrizioni; penso a me che coltivando le mie passioncelle, ho direzionato la nave tenendo equilibri che poco c’entravano con una visione usuale del presente, del mondo. L’essere fuori dagli schemi in realtà non pesa, è una scelta. E’ il folle che non sceglie la sua follia, ma la diversità non è un marchio d’infamia tra gli eguali, è una specialità, un seguire il demone, o il sogno che questo produce. Il problema, per non pochi, è proprio quello di avere un sogno, di alimentarlo, di svegliarsi, fare, e poi nuovamente sognare.
Qualche giorno fa, scrivendo d’altro e ben più concreto, parlavo del sogno come generatore di passioni. Vale in politica come nella vita quotidiana, ma non sopravvaluto le passioni, hanno troppa letteratura che le ha svalutate. Mentre in questi tempi si usa molto la narrazione ovvero il raccontare una realtà che sembra plausibile ma non è neppure finzione, anche se modifica non poco le vite collettive. Le passioni soffrono della stessa sopravvalutazione dell’emozione che diventa il modo per sgravarsi di obbiettivi più ampi e faticosi. Ma pur ridotte, passioni, emozioni, hanno comunque bisogno di un flusso in cui manifestarsi, una sorta di recinto in cui possono esplicarsi, correre. E parlo di passioni che non sono la soddisfazione del desiderio, del giorno per giorno; no, parlo di ciò che si può mostrare senza timore, perché è in sé chiaro ciò che si dice, parla della diversità e della sua continuità ed è così che ha un ambito in cui confrontarsi. In fondo quando raccontiamo di noi, ci sono almeno due realtà che si uniscono, quella delle nostre urgenze interiori, quelle che ci fanno star bene o male, e quella delle urgenze esteriori, con la loro violenza e scarsa creanza.
Quando lascio che l’urgenza esteriore mi espropri da me, che non ho più equilibrio e cerco ciecamente la medietà, il confondermi nell’essere eguale perché questo è rifugio, è riposo. Ma non posso permettere che l’esterno ammazzi la capacità di sognare, di generare passione; non posso permetterlo perché ne morirei in ciò che ho di vero e quello che rimarrebbe sarebbe poca cosa: un codice di regole banali.
dire è non dire
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Si snoda il racconto di una storia oscura, dice di cose evidenti, ma parla anche d’altro, di un sottofondo che la sorregge e non emerge. E’ una di quelle storie che non si capiscono bene, estratta dal fondo melmoso che ciascuno si porta dentro. Sembra semplice, ed invece è complessa, fatta d’un malessere che ha più nomi: quello contingente, ed è ciò che viene vissuto, ed altri nomi apparentemente più lontani. Reminiscenze, sorta d’aliti di antichi pasti mai conclusi, che fanno capolino e sembrano non entrare nel sentire, senza parole per dirsi e dire. Difficile dar loro nome perché sono storie parallele all’esterno, vicende apparentemente già terminate che si annodano in chi racconta. Semplicemente ci sono e confluiscono tutte nello stare a disagio con sé. Questo è il sentire vero, e il racconto cerca di dare evidenza a una serie di fatti, parla di particolare e di generale, li mette assieme, e prova, con fatica, a collegare ciò che è distante, e che si dovrebbe davvero cambiare, con quello che è più vicino e pare avere decisioni semplici. Ma esiste una decisione che ci riguardi profondamente e che sia davvero semplice?
In fondo il racconto è ricco di quelle richieste di intuizione che generano puntini che attendono nomi. E in quei puntini c’è la misura della richiesta di partecipazione, sono piccoli-grandi vuoti che si generano quasi da soli per far capire che il racconto è ben più complesso dell’evidenza. L’evidenza è una ferita che deve essere ripulita, suturata, ma il motivo per cui si è generata è anche in quelle sospensioni. Il racconto è un processo curativo, prima che salvifico, e come ogni cura mette in discussione il rapporto con il medico. Genera il dubbio se tarda il risultato e però ci si deve fidare, servirebbe la comprensione, richiesta con la parola, e il silenzio. Anche pensarci, senza proposta di una soluzione, va bene, ciò che urta è la proposta facile che dice: bisogna cambiare per star bene. Per questo non serve un racconto, chi racconta sa che non va bene e sta cercando con fatica una via d’uscita.
La meccanica semplice ed oscura, è fatta di racconto, ascolto, reazione, e se l’ascolto è giudicato insufficiente, confluisce in una chiusura-reazione.
La difficoltà raccontata, è di quelle profonde, un mal stare da scelte in gestazione, oppure da scelte che non verranno prese, ma che comunque interferiranno fortemente con il concetto di star bene. E’ eccessivo pretendere attraverso un racconto una svolta, chi parla lo sa, e forse quello che vuole nel raccontare è un aiuto a decidere costruito con partecipazione e rispetto, con la comprensione della difficoltà, non una soluzione. Ciò che il racconto della difficoltà d’essere, narra, è il capire la ferita e il suo legame con altro.
Il limite della parola è questo, pensare che essa sia in grado di rappresentare davvero il malessere, oltre la partecipazione empatica di chi ascolta. E’ il limite dell’analisi che si esaurisce nella parola, senza una nuova storia da scrivere, e chi racconta si chiude nel momento in cui sente l’ascolto come non adeguato al dolore e alla sua complessità. Mentre sa benissimo che la semplicità sarà creata nello sciogliere molti nodi con difficoltà, e per questo rifiuta il consiglio, e vuole la partecipazione, magari silente. Un effetto del racconto può essere l’aggressività, ovvero la reazione che ribalta sull’altro l’insufficienza propria e della risposta, come se la mancanza d’intuizione fosse una colpa. In sostanza gli si chiede con rabbia perché non capisce e lo si traduce nel vedere la sua fragilità: ma tu che sei debole come me, come puoi avere le idee chiare? Se tu stesso stai male, quando mi proponi soluzioni apparentemente facili, mi stai parlando di ciò che ti infastidisce nel mio malessere. E perché non le applichi su di te?
Quando scatta questo meccanismo di reazione, può esserci solo la rivalsa, a volte la rabbia che fa dire parole eccessive che mostrano altre difficoltà, seguite dal ritirarsi verso la coscienza che è inutile parlare di sé e dalle difficoltà si esce solo attraverso se stessi. Allora il senso di solitudine è grande.
Controllare il balzo della bestia interiore, ammansirla, convivere, è un mantra. Dal racconto, fattosi soliloquio muto, sembra emergere un tentativo di conclusione: bisogna correre con l’animale, riconoscerne il senso del pelo, capirlo senza la pretesa di esaurirlo. Ma è un tentativo, perché anche da soli, il racconto è sempre un dialogo a più uscite e soluzioni.
op.80 e fantasia
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L’erba tagliata di fresco, riempie l’aria di profumo. La primavera eccita gli amanti dei prati rasati, i taglia margherite, che ammucchiano in piccoli grumi masticati. Sacchi d’erba messi davanti ai giardini in attesa della nettezza urbana che li trasformerà in compost. Nessuno lascia crescere l’erba, forse ne abbiamo paura e sembra che l’ordine sia nei piccoli fili ad altezza composta ed eguale. Così il verde tenero e nuovo trascolora nel nero i succhi dei tagli slabbrata.
Il buon giardiniere ha lame taglienti, ora fanno le macchine che non hanno bisogno di cote, anche quelle che con un pannello solare e quattro sensori si muovono instancabili a rasare il rasato. Perduto è il tempo della fatica con la falciatrice a rulli che non lasciava imputridire il taglio, il fai da te non ammette troppa fatica e chi lo rifiuta ricorre ai giardinieri che hanno fretta e uniformità di idee. Anche le cooperative sociali fanno quello che possono, i carcerati in affido non sono amorevoli giardinieri e i portatori d’handicap badano a non travolgere i fiori con i tagliaerba a filo che all’erba.
Questo ronzio delle macchine è una frenesia primaverile privata, nella città pubblica, a parte i grandi giardini, le aiuole sono i ritagli dell’urbanistica a metro cubo, trasformate in arredo urbano che da troppo tempo aborrisce gli alberi, che confina l’altezza dei cespugli. Il comune pianta bulbi per stupire ma l’idea di un verde comune si perde tra scarichi d’auto. Chissà se anche il russo steso sotto il cedro è arredo urbano.
Un tempo, non distante da qui, nel giardino dell’ospedale tisiatrico, s’erano formate grandi comunità di conigli che saltavano tra pazienti, fiori e visitatori. Poi in parte erano esondati verso aree verdi vicine, e di verde in verde avevano incontrato la fame che aveva arrestato le migrazioni. La fame degli umani, intendo. Dal lato della Specola, la Torlonga, si erano formate grandi colonie di anatre e altri uccelli d’acqua che uscivano rabbrividendo dall’acqua e andavano ondeggiando incontro al pane vecchio o all’erba tagliata. Gli appassionati umarel mai erano mancati. Era bello questo crescere d’animali oltre il domestico. Indisciplinati, non ascoltavano, non avevano memoria di crocchette e divani, però banchettavano allegramente alle spese della pubblica bellezza. Quella stessa bellezza pubblica che ora traccia file ordinate di fiori omogenei per colore, genere, fioritura. E ci si accontenta delle forme dei fiori, dell’esigua caducità del fiorire, mentre si potrebbe avere una città wild, con animali a spasso nei parchi, pronti a crescere secondo le loro regole di compatibilità. Un poco è già così e mentre falchetti e uccelli rapaci si annidano nei campanili e nelle torri, ora guardo le anatre e un coniglio disperso che saltella tra i grumi d’erba. Ai tempi di Beethoven, gli animali erano nelle città, chissà se ci pensava nella fantasia op. 80, che ho ascoltato ieri sera, con loro al parco. Li immaginavo seduti a sgranocchiare erba, cantare in coro o dirigere con un tulipano, incantati che la primavera si riempisse di suono.
stazioni
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Forse è marocchino, sta in silenzio. Una felpa blu con scritto italia, in minuscolo. E’ controluce, le orecchie sono trasparenti al sole, ha vicino un donna. Libanese o siriana, rossa di capelli, probabilmente henné, e parla in continuazione. Lo circonda di chiacchere, gesticola, ride, a volte lo tocca per un attimo. Lui continua a stare in silenzio, con le sue orecchie al sole sorride appena. Deglutisce con frequenza. Ha un evidente pomo d’adamo, che si muove in continuazione, Su, giù, come una mezza sfera che accompagna un pensiero, un’emozione. E’ la tiroide dei magri per poco cibo. Penso deglutisca per digerire il torrente di parole che la sua testa sta mangiando. Per arginarla adesso parla un arabo dolce, con consonanti che diventano vocali per la voce che s’appoggia e le trascina cantando, poche frasi e si ferma. Adesso la donna sorride, ha denti belli, bianchi, anche la sua voce è dolce, a tratti bella, e riprende, decisamente torrenziale, ma tiepida. Tra i due non si sente né parentela, né attrazione sessuale, si vede una differenza d’età. Lei è curata, piacevole di viso ed aggraziata di corpo, veste leggera. Magra, ma non esile, giovanile nei gesti, con un vestire attento al suo corpo, il fatto che sia più anziana del ragazzo, emerge per differenza, potrebbe avere una quarantina d’anni, lui neppure venticinque.
Poi improvviso parte il bacio, lungo, sulla bocca. E’ stato il ragazzo, ha superato un tabù importante, non ci si bacia in pubblico nelle culture da cui provengono, ma forse vuole il silenzio, o la bocca, o entrambe le cose. Oppure è il treno che parte.
Forse.
Lei per un attimo lunghissimo è felice. Ad est il sole cresce nel giorno.
Basta questo, no?
dopo il tramonto del giovedì
In evidenza
A quell’ora, prima del buio, cenavano i viandanti, gli artigiani, i contadini, i pescatori, chi lavorava con la luce e voleva affrontare l’oscurità senza l’assillo della fame. La fame era una cattiva compagnia nella notte, toglieva speranza nel giorno che sarebbe venuto e agitava i sogni. I benestanti mangiavano più tardi, col fresco che veniva dalle colline, dai giardini, dal vento che correva sul pelo dell’acqua o che alitava dal deserto. Chi poteva restava a lungo a tavola, accendeva lumi e fiaccole e lasciava che il sonno venisse tra il vino e gli ultimi pensieri sulla fortuna degli uomini e sul suo alimentarsi d’intrigo e d’occasioni.
Chi viveva del proprio lavoro, era legato a una religiosità della luce. La cena era il momento degli affetti, dello stringersi in vincoli di parole, era il promettersi il futuro e il giorno che sarebbe venuto, faticoso ma possibile di mutamento. Per gli altri era il rassicurarsi del proprio continuare nel piacere di esistere, nel continuare ad essere com’erano, gustando come sarebbero stati. Per tutti c’era il buio, così assoluto da contenere le paure del cuore, la luce delle stelle e la solitudine che gli uomini cercano da sempre di colmare in molti modi. Ma la solitudine è un contenitore bucato e per quanta apparenza e piacere si getti all’interno alla fine il vuoto del fondo riappare.
Così in quella sera, che è raffigurazione di tutte le sere, la solitudine ondeggiava, si colmava di parole e di compagnia, fino al momento in cui la scelta giusta sarebbe stata il sonno.
E se questo non veniva e si rintanava nei suoi ambiti oscuri? Se subentrava la coscienza che la comunicazione era fraintesa, che la parola non bastava, anzi tornava indietro frantumata di disattenzione, allora cosa restava se non il parlare con se stessi. Bisognava bere la solitudine per vedere se essa si disperdeva in noi. Altrove si sarebbe provveduto in modo diverso per non sentire il morso dello specchio perché da sempre si usa la comunicazione della vacuità e quella del corpo, si tacitano le domande con ciò che le discioglie in qualche ebbrezza. La solitudine però parla e vede tutto, coglie il presente e il futuro, diviene dentro di noi il respiro del mondo. È la notte dell’anima dove il buio entra nel cuore e divora la luce. E chi conosce l’uomo sa che solo accettando il proprio destino lo si compie e si compie la ragione per cui si vive. Quel destino che scriviamo noi quando vogliamo vedere la solitudine che ci portiamo appresso e quando la camuffiamo. Accettare e discernere, significa sapere chi siamo nel fondo e ogni atto d’amore poi non sarà lo stesso, ogni comunicazione terrà conto di chi ci sta davanti.
Una soluzione, forse tra le poche davvero buone, è avere una persona di cui ci si fida fino in fondo e ascolta. Che non giudica e cerca di capire. Che accoglie e fa propria la fatica del vivere, senza chiedere altra ragione che quella che le viene raccontata. Ma questa persona non è detto ci sia o sia disponibile nel momento in cui è necessaria e allora si torna a noi, alla crepa che chiede ragione di noi e del resto che capiamo.
La spiritualità innata dell’uomo ruota su questa scissione interiore che cerca ricomposizione. Non occorre credere in nulla che non sia il vedere e il vedersi e cercare uno scopo che tenga assieme il tutto. Qualcuno ci ha promesso qualcosa e ci ha deluso. Senza volere ci ha messo di fronte a noi stessi, alla nostra solitudine ma anche a ciò che conta davvero in noi e da lì si parte e si arriva per superare la notte.
Forse era il 6 aprile del 30, due giorni prima della Pasqua e doveva essere una cena tra amici. Tra essi molti erano gli ignari o quelli che non capivano a fondo. Nei molti c’era il pensiero dell’eccezionalità vissuta con quell’Uomo, il fascino, la chiamata, la sequela, ma anche la percezione di un limite travolto che accanto al consenso collocava l’invidia. Superata la forma della legge c’era la libertà e il nuovo che si apriva ma si spalancavano anche le forze della reazione e della repressione. Annegare i pensieri molesti nel clima della festa imminente, l’essere insieme, scacciava la paura e rendeva forte la sensazione che l’evidenza del giusto e del buono forse avrebbe potuto vincere. Ma chissà quali erano i pensieri di quella notte. Solo chi amava e chi tradiva, sapeva, l’Uomo era già immerso nel dolore e nella scelta, gli altri erano attorno, ignari, in compagnia, pronti al sonno.