Sono le sei. La luce filtra dalla finestra posta nella stanza alla fine del corridoio, lo percorre allegramente e illumina, appena più intensamente la porta aperta della stanza in cui dormo. Un tempo avrei aperto gli occhi per la variazione di buio e mi sarei fermato, indeciso tra l’ultimo frammento di sogno e la coscienza che riaffiorava. Mi sarei alzato dopo poco, avrei riempito la stanza di luce e mentre il caffè saliva lento nella Bialetti, cinque gocce d’acqua sul fondo perché non bruci il primo affiorare, mi sarei goduto i tetti e il primo affaccendarsi di rondini tra le case.
Mi sono immaginato spesso il giorno prima. Il giorno o l’ora che precede qualsiasi cosa. Oggi è il 24 maggio e nel 1915 il forte del Verena, alle 4 del mattino, apriva il fuoco contro i forti austriaci dello Spitz e del Verle sul Vezzena. Più o meno alla stessa ora, la flotta imperiale austriaca bombardava Ancona, Iesi, e la costa adriatica. Cosa pensavano le persone che erano nei paesi vicini ai forti, oppure nelle città che sarebbero state bombardate? Proseguivano la vita di tutti i giorni, avevano bambini che andavano a scuola, vecchi in casa da curare, lavori che assicuravano il necessario e lo proseguivano. Tutto era normale, prima e attorno all’evento, poi le cose gradualmente mutavano. Ho cercato di immaginare cosa facesse mio Papà, nato da poco, in una città tedesca e arrivato in Italia, cosa pensasse mio Nonno e la Nonna e credo che nessuno di loro fosse distante dalle cose di tutti i giorni. Questo è il futuro, quello che può accadere per l’addensarsi dei presagi e delle condizioni che li rendono reali, ma anche ciò che rende gli uomini dipendenti da altro da sé. Così guardo ciò che sta attorno e penso che il suo fulgore, il suo nascondere i particolari al disattento, il vivere in quell’universo parallelo dove ciascuno di noi colloca la sua personale vita fatta di attenzioni e di affetti importanti, sià qualcosa che ci appartiene e insieme ci determina.
Cogliere i segni, leggerli, interpretarli a priori, non a posteriori ché a quelli son buoni tutti, come a dolersi di non aver capito o trascurato, è proprio questo immergersi in sé e godere dell’attimo, vedere ciò che può essere e insieme vivere profondamente. Sono le sei e la giornata si apre oppure ancora sonnecchia cercando un altro sogno da mettere in cantiere per tirare a lungo. Alzarsi e prendere possesso di sé nel giorno, essere nelle cose che non solo si ripetono, ma sono parte dell’abitudine che si è naturalmente costruita per leggere la propria giornata oltre i segni e dentro i segni, oltre l’umore che muterà se sarà preceduto da un meditare sul bello che abbiamo creato attorno. Alzarsi e dire la propria libertà dal tempo, da ciò che altri creeranno per noi, perché la vita è uno sguardo che apprende, che fa proprio il tempo, che rende importante ciò che non lo è e che derubrica dalle scalette della nostra concezione del mondo ciò a cui non possiamo arrivare.
Sono le sei, penso ai tantissimi uomini che ciascuno nel loro mondo fanno, dormono, pensano cose così diverse che solo il pianeta può tenere assieme e il cielo interpretare, sono i mondi paralleli, ciascuno con storie vita e bellezza proprie e mentre penso alle loro, guardo ciò che mi viene dato e sono grato.
Mettiamo che in una qualsiasi sera di maggio, con un caldo anomalo, quasi da giugno, il verde con la luce radente diventi sontuoso, che le siepi comincino a profumare e che gli alberi siano carichi di foglie pulite. Una serata che attrae fuori di casa e mentre cammina, un po’ per consapevolezza e un po’ per intuizione, il nostro protagonista si accorga, che molto di quanto ha fatto, pensato e vissuto come occupazione principale in una infinita sequenza di giorni, non era poi così importante. Pensa che fare programmi non è il massimo dell’intelligenza, che le persone, anche quelle care, sono libere di muoversi come meglio credono e secondo le loro vite e che i pensieri per incontrarsi, hanno bisogno di essere comunicati con verità e innocenza.
Cammina tra il verde splendente che gli ricorda altre sere ormai passate così tanto da non essere ben collocabili, allora, giustamente, il nostro protagonista respira a fondo. Come se così facendo i pensieri ritrovassero almeno l’ordine cronologico, se non quello dei sentimenti e delle delusioni. Anzi, pensa, che avere più tavole che mettano in ordine, il quando, il come e l’intensità del sentimento consentirebbe di avere una visione della propria vita, delle connessioni, forse anche degli errori naturali, della misura del tutto e del trascurato.
Perso nel fascino di questa molteplice tavola del vivere e del sentire, si siede vicino al fiume che ha visto in ogni età della sua vita e si accorge che non riconosce la città in cui è cresciuto, ovvero, riconosce i monumenti, le pietre, i percorsi, ma non conosce nessuno di chi gli si muove attorno. Questa sensazione si fa più forte e gli sembra che una immane commedia sia in corso, che i partecipanti/attori ne siano consapevoli, ma che gli spettatori non lo sappiano.
Passa un volto noto. Saluta e parole senza sostanza si scambiano tra i volti. Da un sorriso riceve un sorriso e gli pare di vedere le parole, trasformate in lettere, che escono e si sciolgono prima di arrivare: un mucchietto di impalpabile cenere di conversazione che li unisce. Il mestiere lo aiuta per troncare con le frasi fatte usate all’uopo la conversazione che vorrebbe prolungarsi, l’interlocutore non ha fretta, lui ha necessità di silenzio e di guardar meglio ciò che accade. Ragazzi si raggruppano, scoppi di voci, si formano e si sciolgono brigate. La sera avanza, sanno dove andare, lui si chiede se tornare perché la rappresentazione non solo non è finita ma non ne ha ben compreso la trama e il senso.
Ora è la notte che fa paura. La notte dei sentimenti, delle prospettive. Ricorda che basta ripetere gesti semplici per tenersi assieme, ma tenersi assieme non è vivere. E lo sa. Si guarda attorno e la piazza si sta vuotando, lungo il fiume si sono accese le luci e tanti piccoli chioschi mescolano alcolici, tolgono la schiuma alle birre. Montagne di patatine arrosto, profumo di salsicce, sembra una città tedesca però priva delle tavolate bagnate di birra, delle canzoni ritmate con i bicchieri. Il profumo è quello dell’acqua morta, il verde, quello delle erbe che marciscono nell’acqua bassa. Dovrà camminare per immergersi nei giardini, per sentire il profumo dei tigli, delle siepi di gelsomino, qui vivevano altre vite che non ci sono più. E’ la sua città che non lo riconosce, adesso capisce il senso di qualche scena a cui ha assistito e allora ricorda NIetsche: non guardare troppo l’abisso, altrimenti, l’abisso guarderà te.
Se qualcuno sa davvero cos’è la solitudine può parlare con il nostro protagonista, mentre medita camminando. La solitudine è il vuoto che aspira i pensieri e le speranze, le certezze e le illusioni. Riconosce le pietre e i portoni, le scritte antiche che nessuno è riuscito a cancellare, si è formata nella sua testa una mappa che gli dice dov’è senza l’ausilio delle vie, come ogni luogo fosse un appuntamento e un ricordo. Gli torna in mente l’idea delle tavole da sovrapporre con il tempo, il luogo e ciò che è accaduto in lui, a questo dovrebbe aggiungere ciò che non è accaduto fuori di lui, i fatti mancati, le occasioni perdute, le delusioni date e ricevute.
Ci penserà, intanto con un sorriso ricorda una cronaca ciclistica di tanti anni or sono:” un uomo solo al comando, è Fausto Coppi”. Coppi non era solo, quella volta: aveva una meta e l’Italia che gli facevano compagnia. E’ stato molto più solo quando per seguire il cuore, l’hanno messo sui giornali, processato, isolato. Il nostro protagonista, che non è un campionissimo, pensa alle sue vittorie e alle sue sconfitte, pensa a Coppi e a Pantani, così grandi, così diversi eppure simili, troppo simili alle parole scambiate prima nel ricordo di troppe persone.
Pensa a cosa si concederà stanotte. Il ripasso di Puer Eternus di Hillmann, un film, una visita ad una persona gradita che lo riconosca davvero, una lettura a casa, una pizza?
I biscotti, “zaeti” , stanno cuocendo. C’è un buon profumo in casa che si mescola con quello della farina che cuoce tra mandorle e uvetta. Scrivo nella mente cose mai prima d’ora comprese, leggo chi sa scrivere stupendo e penso. E ascolto Tschaikowsky, il primo concerto per pianoforte.
Ho pensato spesso all’amore, agli amori e all’attrazione in questo periodo, come a componenti dello stesso processo. Le letture, i ricordi, portano nei particolari, mostrano ciò che si è generato e ancor meglio, ciò che ha incrinato o mutato il sentire. Perché sembra che tutto si riconduce a noi, alle nostre volontà, ma i barlumi del possibile, l’addensarsi dell’accadere si annidano lontano, poi a fatti avvenuti, subentrano altre virtù: la passione, l’attesa, la pazienza, la giusta misura, il silenzio, la verità e chissà quant’altro che sia noi e solo noi.
Ho pensato anche a quanto si frappongono società, religione, usi, timori e ruoli tra gli uomini, che rendono disgraziate le vite anche di chi poteva essere felice. Un’amica cara è immersa da anni in problemi enormi che inutilmente la consumano nella sua bellezza, per un matrimonio fallito, basterebbe la realtà e invece funzionano rancori e tribunali.
Come se per due persone che si amano fosse lo stato civile a fare da barriera.
Ho pensato anche a un criterio, che è un priori, ovvero il piacersi reciprocamente, cosa che aiuta non poco a scambiare sentimenti e verità ed è stranamente questo che viene dato per scontato nella vita sociale, mentre è un farsi non sempre semplice ed è proprio esso l’anticamera dell’attrazione. Piacersi ossia provare piacere dell’altro è condizione rara. E questo viene negato dall’ educazione che sottolinea il diverso, che mette dubbi dove non ci sono e porta le cattive esperienze come fossero verità.
L’amore è semplice, potente, unitario e desideroso di piacere, in tutti i sensi, partire da ciò che è significa aprire un mondo che prima non c’era e non sarà mai uguale, mai lo stesso per sempre e quindi mutevole, solo la verità gli rende onore, il resto è indebito possesso.
Se non è complicato, non riesce bene, eppure la semplicità è a un passo, chiara come un navigatore appena tarato. Invece scartafascio portolani, cerco mappe rosicchiate, rifiuto per indole e saturazione e non appartengo, non più, mi dico. Davanti ci sono passi e strada, pensieri, sensazioni, colori, frasi sottolineate, linee diritte e sghembe, architettura interiore che diventa segno e tempo.
Dichiarato l’ambito e la direzione, il necessario preventivamente va detto, perchè ci fu molto tempo diversamente confuso, le ferite sanguinavano e s’infettavano. Per quanto vale a sanificare ho solo seguito la passione, il desiderio, la necessità d’essere amato. Può bastare?
Ora molto è più chiaro, non ho più alibi di peso da sciorinare e sono un pessimo individuo, anche se non basta dirlo per tenere a bada i danni allegri che si compiono leggendo e camminando. E neppure ad evitare gli scroscio di chi scuote il capo comparendo. No, non basta, perchè posso essere redento, cambiato, fatto innamorare: si pensa mai che chi cambiamo forse poi non ci piacerà ancora e che era la differenza, tenue o forte, la ragione dell’attrarre che interrogava e si trasformava in similitudine tra eguali?
Ho vissuto dentro romanzi scritti malamente, non credevo ai miei occhi, ai miei pensieri, mi affidava alla volontà vana che non piega il corso delle cose, , tutto sembrava ricondursi a pochi fatti semplici. E tali erano, come ciò che sorprende ed è accanto, quello che ad occhi chiusi persiste, l’infinita varietà del vivere che non chiede consenso, che non è al nostro servizio, ma dona bellezza e intuizione fino a diventare altro e anche noi.
E’ vero, ma quanto male fa la semplicità che riduce tutto a un’equazione, in fondo complico ancora le cose per fuggire dal dolore. Almeno un poco. E dar spazio alla vita, che vorrà pur darsi da fare nella sua evoluzione positiva, per indicare la strada. Voler bene e prendersi cura, bastare solo agli amici: hai idee chiare amico mio, hai capito molto della vita, a me non è accaduto e ogni volta mi sono detto che non bastava rispondere alle domande, dare ciò che si può, si doveva mettere in conto che ci verrà chiesto ciò che non è possibile dare. E li inizierà la sofferenza. Sono appartenuto, mi sono sostituito, ora non più e lascio entrare solo chi voglio, dico le regole della casa, indico con cortesia, la porta agli intrusi. Sono regole larghe, ma rispettose e non è da poco accogliere e stare al proprio posto, ma che dire oltre la verità? In questi giorni d’incertezza, si scomplicheranno le cose, tutto diverrà semplice.
La mattina portò con sé la luce, così forte che gonfiava le tende. Sotto casa c’erano voci che contrattavano verdura fresca da un carretto, poco oltre la spiaggia e già gli strilli dei bimbi per la voglia di fare il bagno. A noi portò la colazione, la consapevolezza di dover recuperare la Flavia, e l’assoluta ignoranza di dove fosse. Avevamo perduto un ‘auto in allegria e in allegria l’avremmo ritrovata insieme a quel votaBianco scritto sul muro. L’auto era lì che ci aspettava, bastava partire. Ne venne una contrattazione a bocca piena di pane e burro e caffelatte: noi saremmo andati a recuperare l’auto perché eravamo i detentori della memoria e le ragazze con i bimbi sarebbero andate al mare. Non ci aspettassero per pranzo perché oltre a trovarla la si sarebbe dovuta riparare: saremmo stati insieme a cena. Devo dire che forse la logica, forse l’autorevolezza nel porre le argomentazioni, forse la giornata bellissima e il mare blu, insomma non ci fu resistenza, sia le ragazze che i bimbi sembravano felici della proposta. Così partimmo verso Catania, in due navigatori, la peggiore combinazione per trovare qualcosa che esista dal tempo delle esplorazioni. I navigatori possono essere due, ma non assieme, il secondo deve trovare il primo e dirgli la frase magica: Mr. Livingstone I suppose… E così l’universo si ricompone. No, noi partimmo in due ed eravamo ricchi di ricordi e certezze. Mr. Livingstone se era per noi starebbe ancora aspettando. Superata Catania puntammo su Mascalucia, il nome suonava bene e ci avevamo pure cantato una canzone, la sera prima.
Quello che di notte era certo, di giorno diventava incerto, l’unica costante era quel VotaBianco che era dipinto ovunque ci fosse un muro. Qui ci assalì un dubbio, ovvero che quel riferimento era fallace e mentre puntavamo verso Nicolosi, ci tornò a mente la corsa ciclistica. Quella era stata l’origine dei nostri labirintici percorsi e dovevamo trovare tracce di quella gara. Qualche manifesto c’era e indicava un circuito che passava per Nicolosi. Riconoscemmo il punto di deviazione, non eravamo entrati in Nicolosi, ma eravamo stati deviati, ci eravamo persi fino a che un signore ci aveva indicato la provinciale e l’indicazione per Trecastagni. Questa era la nostra meta perché di là eravamo andati in due auto e tornati con una.
Continuammo discutendo a ogni incrocio e a ogni VotaBianco scritto in caratteri adeguati, trovando le giuste mediazioni, arrivammo a Monterosso. Non so quanto grande sia ora Monterosso, ma allora era un paese che all’apparenza sembrava allungarsi su due strade parallele, noi percorremmo una via Roma, girammo in fondo al paese e ci trovammo sulla parallela, forse una via Garibaldi. Posso ricordare i nomi perché tutta Italia, eccettuata la Val D’Aosta e l’Alto Adige, ha una via centrale che si chiama via Roma e una strada o una piazza parallela che è intitolata a Garibaldi. Arrivati in fondo a via Garibaldi svoltammo a destra e ci ritrovammo in via Roma. Praticamente avevamo fatto un giro di pista che potevamo ripetere quante volte volevamo senza trovare nulla. Anche in questo caso ci soccorse un samaritano siciliano. Una delle cose che raramente fanno gli uomini che hanno una meta, è chiedere informazioni. Forse è un poca di presunzione (un uomo vero non si perde mai), forse è timidezza, comunque il nostro benefattore seduto fuori di un bar, ci fece un cenno e noi ci fermammo. Sembra una scena manzoniana, la sventurata rispose e si risolve la cosa, no, in questo caso la narrazione che era complicata quanto la domanda, non c’era un Egidio che proponeva un piacevole intermezzo e una Geltrude che poteva accettare o meno, qui c’erano due giovani padri di famiglia che erano riusciti a perdere un auto sull’Etna e la cosa sembrava così assurda che chiedere se aveva visto una Flavia berlina abbandonata sembrava da allocchi.
Spiegammo, chiedemmo, e il samaritano disse sì, proprio come Geltrude. L’auto era appena fuori paese e già dalla mattina al bar ci si era chiesto di chi fosse un’auto targata con una città del Veneto, abbandonata. Sorrisi, sospiri di sollievo, possiamo offrire un caffè, una limonata, un cannolo? Il samaritano offrì lui ristoro e così iniziammo a parlare, la narrazione del guasto, l’abbandono dell’auto, il ritorno a Brucoli, le famiglie al mare, insomma un breve riassunto delle due giornate. E ora come fare a riparare il guasto? Caso volle che il nostro benefattore fosse un elettrauto e che si sarebbe incaricato lui della riparazione, ma prima bisognava capire il danno.
Era mezzogiorno passato e ci invitò a pranzo. Le solite ritrosie, non deve, non può, ci basta un panino, eccetera. Resistemmo tre, forse quattro minuti e poi ci avviammo insieme verso casa sua. La mia auto venne parcheggiata in cortile e facendo conoscenza con moglie e figli, mangiammo la pasta con le melanzane più buona che ricordi, seguita da secondo e contorni che sembrava fossero per il dì di festa. Una ospitalità memorabile per noi, usuale per il padrone di casa. Dopo pranzo andammo a ritrovare la Flavia che era appena fuori paese, davanti al muro con il votaBianco ( ma poi questo Bianco, l’hanno eletto?) e appena visto il motore e ascoltato l’avviamento, il nostro samaritano elettrauto fece la diagnosi: qualcuno aveva manomesso il collegamento tra spinterogeno e candele e forse anche la batteria non era indenne. Due ore ed era a posto. Portò l’auto in officina sotto casa e noi seguivamo. A questo punto ci disse che potevamo passare l’indomani mattina, lui andava a riposare perché il giorno precedente aveva diretto una gara ciclistica, era il presidente del comitato organizzatore, e si era stancato un po’. A pranzo avevamo parlato delle deviazioni subite, ma avevamo anche lodato l’organizzazione, quella che era carente era la segnaletica verticale e su questo eravamo tutti d’accordo, ma spettava alla provincia e quindi chissà quando mai si sarebbe adeguata. Criticare le colpe altrui induce alla fratellanza e con grandi assensi si era passati ad altro. Il nord, il lavoro, cosa facevamo, quanti bimbi, le notizie che fanno conversazione e affratellano. Poi il mio amico lavorava in Sicilia, Ah sì e dove? Allo stabilimento Anic, chissà quante richieste di assunzione. Eh sì, molte, le ultime le aveva selezionate la settimana prima ma non aveva assunto tutti. Chissà come ci sono rimasti male quelli scartati, disse la signora. Già, ma non erano proprio adatti, e lì era subentrato un silenzio prima di passare ad altro.
Siamo rimasti al riposino del samaritano elettrauto, noi ci offrimmo di attendere al bar, ma anche quello chiudeva per le prime ore del pomeriggio, ci venne offerto di stare il divano e in poltrona, ma ci pareva troppo. Così, accertato che per sera l’auto sarebbe stata pronta, ci dividemmo, il mio amico restava ad attendere la riparazione e io tornavo a Brucoli e mi occupavo della cena (ultimo pensiero dopo quello che avevamo mangiato).
Con questo accordo, dopo molti ringraziamenti e con una gratitudine evidente, cominciai il ritorno. Dopo Trecastagni trovai un albero che faceva onore al nome del paese e parcheggiai all’ombra, dormii un paio d’ore e rinfrancato potevo tornare. La sera ci riunimmo tutti, la riparazione era costata pochissimo, i racconti affascinavano i bimbi che volevano tutte le cose buone che avevamo mangiato, se non quella sera, di sicuro l’indomani. Dalle finestre aperte veniva una corrente d’aria tiepida che odorava di salso, di erbe aromatiche e di cespugli che cedevano alla notte essenze per profumarla. Voci nella strada e in spiaggia, risate e qualche accordo di chitarra. Mi sembrava ci fosse una pace fatta di tranquille avventure, del profumo della pelle che aveva preso molto sole, dei giochi da tavolo in cui tutti vincevano, ma i bimbi di più. Si era conclusa un’avventura che il caso aveva resa bella e memorabile, la si sarebbe potuta raccontare insieme, dabbenaggine compresa, per sorridere d’inverno con altri amici. Quello che non si sarebbe potuto rendere era la sensazione che ciascuno aveva provato sull’Etna o meglio sul Mongibello, dal Gebel arabo che significa monte, ripetuto due volte, ad attestarne la primazia e l’unicità. A me era rimasto il mistero e la forza della terra che ignorava gli uomini, eppure parlava con loro e se non capivo, mi insegnava a rimettere a posto le dimensioni. Bastava e avanzava per guardare diversamente il mondo.
Brucoli era splendida di sole, comprato il pesce fresco per la sera, una corsa a casa e salimmo in auto per la gita sull’Etna. I bambini erano piccoli, noi grandi e ancora pieni di giovinezza, le auto, erano quelle che ci potevamo permettere, la mia 128 Fiat con cambio modificato (ma questa è una storia diversa) e una Lancia Flavia. Tre persone in una e quattro nell’altra. L’avvicinamento a Catania cantando, poi il caffè con i cannoli in via Etnea e guardando gli orologi a il sole ormai alto, via di corsa verso le pendici del vulcano. L’Etna è una presenza quasi umana, ben lo sanno i siciliani, noi ci avvicinavamo senza vederlo, perduti sotto alberi e per strade sconosciute, ma lo sentivamo. Si sentiva qualcosa che toccava dentro, una presenza che attirava e nel frattempo parlava per suo conto. Noi eravamo immersi in un’arcaica fase di approssimazione a un desiderio, presi da una spinta che ci faceva svoltare per strade e luoghi che preparavano all’incontro.
Alle 11, in un paese non identificato, ci imbattemmo in una corsa ciclistica, le deviazioni sul posto erano ben visibili, i vigili e l’organizzazione, solerti. Ma era entrare in un labirinto di deviazioni e stradine, dove nessun cartello corrispondeva più alla carta e alla meta confondeva le idee. Non c’era google maps a quei tempi, bensì una enorme carta Michelin, interpretata dalla cosa più fallace che l’uomo conosca: l’intuito. Dopo molto girare in tondo e dopo aver visto per tre volte scritto su un muro a caratteri bianchi cubitali “vota Bianco”, dopo esserci fermati e sfamati. Prima i bimbi e poi gli adulti. Finalmente nel sole a picco apparve, un po’ sbiadito, un samaritano, definito come tale perché sapeva cosa cercavamo. E infatti con poche indicazioni e un solo votaBianco, la strada verso la presenza amica del vulcano fu ripresa.
Arrivammo al rifugio un po’ in ritardo sui tempi previsti, ma intanto il vulcano era dilagato ovunque, sopra e intorno a noi, tangibile, ricco di rumori intestinali, di cui ci fu detto di non preoccuparci perché c’era sì un’eruzione in corso, ma tranquilla e da una bocca larga la lava fluiva lenta e regolare. Il paesaggio era strano, tagliente, casuale nei pinnacoli che sembravano usciti dalla mano di un bimbo che faceva uscire la sabbia e l’acqua, dalle mani per creare statue. Era impressionante perché mai visto eguale, senza neppure un ricordo delle montagne dolomitiche che lo potesse approssimare. C’era il nero e il corallo acceso delle rocce, qualche cespuglio, rade macchie gialle tendenti al rosso. Anche i bambini erano meravigliati e parlavano piano, ma volevano vedere il fuoco e la lava incandescente, lo chiedevano con cortesia ritrosa, quasi intimoriti dalle domande che facevano.
Trovata una guida, partimmo per l’escursione, in calzoni corti, scarpe da ginnastica e maglietta maniche corte. I bambini con i k-way per il vento, noi forti e impavidi ai limiti del freddo. La nostra guida era gentile, precisa nelle istruzioni sui pericoli, paziente nel raggrupparci in modo che tutti potessero sentire. Con i bimbi a mano, cominciammo a camminare. Noi sette eravamo assieme, un unico gruppo, parlavamo veneto tra noi e italiano con la guida. Erano tempi strani, in Veneto, la lega scriveva sui muri forza Etna o forza Vesuvio, ma a noi sembrava un modo per ridere all’osteria perché poi in fabbrica si lavorava tutti assieme, così non ci pensavamo. Anche perché noi eravamo comunisti, mica della lega, e ai nostri vicini a Brucoli chiedevamo dei parenti al nord, cercando di scoprire conoscenze comuni.
Il mio amico, compagno di banco e di università, risiedeva in Sicilia da un paio d’anni, faceva il direttore pro tempore di uno stabilimento chimico dell’Anic in provincia di Siracusa, era una persona squisita per modi e gentilezza, un compagno integerrimo e se non si vedeva dal sorriso allegro, noi lo sapevamo bene. Questa notazione ci servirà per il ritorno. I bambini erano felici di camminare in mezzo a tutta quella graniglia nera, su sentierini strani che si stagliavano appena e in mezzo a una polvere sottile che s’intrufolava ovunque. Si grattavano e si toglievano le scarpe ogni 10 passi, noi resistevamo stoicamente cercando di fare domande intelligenti. Il paesaggio che banalmente si definiva lunare, aveva sole e colori nitidissimi, era impressionante, come i brontolii del vulcano, cosa viva che forse qualcosa voleva dirci, ma si distraeva per ragioni sue. Capivamo tutta la letteratura epica greca, la meraviglia degli antichi, il timore e l’ estraneità umana del posto riservato agli dei. Visto che Vulcano era tranquillo, si capiva che non ci voleva male, ma quello era un posto solo da ammirare con creanza e cercare di capire quello che si poteva del mistero e della forza della Gea primordiale, non una terra da considerare per umani. La guida ci propose di arrivare, con i bambini a debita distanza e ben tenuti a mano, fino alla distanza di sicurezza dal fronte della colata lavica. Accettammo con entusiasmo come fosse un regalo.
Tra noi commentavamo sottovoce la singolarità dei luoghi e due alla volta fummo accompagnati fino a una strana roccia grigia, larga come un torrente, che si muoveva con un fronte arrotondato come in un film di fantascienza da paura e che dalle crepe mostrava vene rosso fuoco. Tutto era quieto, non un uccello o un verso d’animale, la roccia faceva un rumore come masticasse il terreno su cui avanzava e se c’era un arbusto o qualcosa di infiammabile sul suo cammino, immediatamente questo prendeva fuoco. La guida ci raccontò le temperature, la velocità di uscita, sentivamo il calore come davanti a un camino senza fiamma, poi cominciammo ad arretrare. Qui subentrò una strana impressione, ossia che la graniglia nera e grigia e la polvere si attaccassero ai piedi molto caldi, infatti guardando le scarpe da ginnastica queste erano diventate stranamente larghe, palmate come quelle dei paperi. Arretrando con una certa fretta constatammo che avevamo un paio di pinne ai piedi, io in particolare, e che la graniglia nera si era incorporata nelle suole fuse. La cosa aveva non pochi lati ilari per i bambini ed era allegra anche per noi, che scherzavamo, pensando di ripristinare le suole togliendo quella sovrastruttura come si fa con il fango. Ebbene, non era così, anzi raffreddandosi, suola e sasso diventavano un tutt’uno. Avevamo le suole di pietra, belle larghe e stabili: una nuova moda. Con discrezione, sulla via del ritorno, considerato il peso crescente delle scarpe, ne parlammo con la guida, che in modo allegro ci confermò l’inadeguatezza del nostro equipaggiamento, già oggetto di osservazione alla partenza, e si lasciò scappare che se si incoraggia l’Etna, il vulcano benevolo, si dava un po’ da fare.
Capimmo il sottointeso, il parlare veneto era diventato un linguaggio poco gradito a chi ogni giorno faticava per guadagnarsi la giornata proprio su quell’Etna che veniva incoraggiato. Ci sperticammo nei distinguo, e credo fummo convincenti, anche perché i bimbi era così allegri mentre noi ciabattavamo verso il rifugio, così subentrò il dialogo e il perdono. Restavano le scarpe da paperi, ma quelle avremmo tentato di aggiustarle nella discesa. Cosa non semplice perché ritagliammo il profilo con il coltello e con le nuove suole, dopo saluti e pacche sulle spalle, ci avviammo verso le auto. Il sole stava calando, illuminava il nero dei basalti, con bagliori che si rincorrevano su pagliuzze che ad occhio nudo non si erano viste, l’immanenza dell’Etna era sopra e sotto di noi, un animale che dormiva vigile e sognava, così lo raccontavamo ai bimbi e a noi stessi. Si faceva fatica a staccarsi da quella sensazione di meraviglia ma il pesce fresco ci attendeva a Brucoli e con i calzini e le ciabatte, perché le scarpe erano da buttare, ci accingemmo al ritorno. E qui comincia un’altra storia di vulcani e gentilezza.
Scendendo verso Catania la Flavia del mio amico ebbe un comportamento strano. Era il crepuscolo e accendemmo i fari, io ero dietro e vedevo la sua auto rallentava procedendo a sussulti. Se spegneva i fari il motore riprendeva e le cose sembravano normali, ma non si potevano avere entrambe le cose: motore acceso e fari accesi. Passai a condurre e lui mi seguiva a fari spenti cantando Battisti, continuammo per un pezzo a scendere, ma le curve , le strade sconosciute, non illuminate e povere di indicazioni, ci persuasero che era pericoloso continuare in quel modo. Arrivammo, credo, in pianura in un paese di cui ci sfuggì il nome, parcheggiammo la Flavia lungo una lunga recinzione in muratura che portava la scritta VotaBianco e pensando di tornare l’indomani, tutti salirono sulla poderosa 128 Fiat berlina. Eravamo in sette in auto e ritenendo la cosa stretta ma normale, tornammo cantando, cercando di evitare i luoghi e le strade troppo affollate. Naturalmente sia chi era alla guida, cioè io, e il mio amico cercavamo di imprimerci bene in mente la strada del ritorno, per tornare in fretta il giorno dopo.
Tra canzoni, sfottò, sonni dei bimbi stanchi, superammo Catania, e a notte arrivammo a Brucoli. Finché friggeva il pesce cominciarono le docce e la ripulitura dalla polvere, non ho ancora capito come ne avessimo così tanta addosso e come mai non si intasò lo scarico, posso dire che dopo tre giorni alla doccia serale restava ancora una traccia di polvere nera. La serata continuò tra racconti, impressioni, giochi e vino, finché tutti stremati, andammo a dormire con l’appuntamento per la colazione, il giorno dopo di buonora, con il nuovo viaggio per il recupero della Flavia, ma questa è altra storia e la continuerò se avrete pazienza.
Nel mio piccolo giardino le piante non sono cose, ma posseggono personalità precise. Alcune ascoltano, aspettano in silenzio d’essere curate, e deperiscono, come gli umani, in mancanza d’amore. Altre sono pensose, metodiche, spesso sotterranee nel meditare e fioriscono quando è tempo, spandono profumo, hanno un cosciente equilibrio di bellezza che si ripete, sempre nuovo e stupefacente. Altre ancora, sono arroganti, si propagano secondo oscuri amplessi, vanno ovunque, tolgono aria e respiro a chi da tempo occupa silente il luogo che pensava suo. Non bastano all’arroganza verde, i capienti vasi, si sparge nei giardini vicini, spesso viene strappata come erba ma è pervicace e molteplice d’ingegno così quella che sfugge diventa forte di radici, intimorisce i giardinieri improvvisati che lasciano crescere e poi si stupiscono d’essere prigionieri di nuovi alberi. C’è talmente tanta vita in questo fazzoletto di terra che alberi maestosi vi vorrebbero trovare posto, le rose tranquille invecchierebbero, silenti e profumate e il gelsomino ripeterebbe la sua magia ogni anno parlando con il lento ulivo. Le lotte verdi per il predominio trovano insperate alleanze in piante da semi ventosi e si disputano spazi, intrecciano radici e rami in dialoghi mai quieti e tantomeno casti. Ciò che prevale dipende dalla cura o dal capriccio della stagione, il caldo sceglie e modifica le resistenze di ciascuno, così l’acqua diviene il dono che posso dare indifferentemente a tutte, ma so che ciascuna ne farà un diverso uso e che ancora una volta, una sotterranea lotta s’accenderà per vivere e proliferare. In questo battagliare salvo gli umili e i silenti, li porto altrove, in nuova terra e vasi, perché conosco l’arroganza che pretende e non fa dire ciò che necessita alla vita e alla bellezza di ciascuno. Per gli altri è un susseguirsi di rese e di nuovi assalti, di fascinazioni per uccelli prima affamati e poi golosi. Dei frutti nulla resta ma della battaglia sono osservatore attento. Partecipe, a volte, per simpatia o per stabilire un ordine, ciò che è tumulto di vita m’affascina quanto il silenzio del fiore di limone e il bocciolo di rosa, e capisco che un linguaggio per me silente, ma forte d’urli e di sussurri, sta percorrendo terra e aria che dà a ciascuno personalità e misura. È un piccolo farsi di verde sociale dove nessuno mai rinuncia ad essere se stesso.
Trionfa il prevalere dell’entropia come orizzonte dell’uomo, luogo del massimo disordine e per questo perdonabile a prezzo di soggezione assoluta, Sempre più difficile e rara è la fatica eroica del togliersi la colpa di non rispondere a qualcuno o qualcosa che ha semplicemente usato il potere come autorità e la parola come verità. Tra questi estremi siamo noi, immagine di un tempo e di una società che pure qualche valore doveva averlo in sé, avendo come soggetto l’uomo. Le ideologie, le guerre, i regimi, tutto ciò che è fallito, è scomparso con il dio che si era imposto un noi senza compromessi. Alle idee di eguaglianza e solidarietà è stato negato il perdono e con esso si è negata la speranza perché ciò che le ha sostituite non è stato meno terribile ma era vuoto e ha lasciato l’uomo solo e in balia di forze che mai potrà controllare.
Il passato conteneva sogni e convinzioni che giravano per l’umanità da qualche migliaio d’anni, possibile che tutti si siano sbagliati, che non ci sia stato modo di ridurre l’ansia del possesso a qualcosa di compatibile con la vita?
Oggi, anche nelle contraddizioni assolute, tutto ciò che cambia è buono, o almeno preferibile all’ordine che fissava diritti inalienabili, che riportava all’equilibrio del mondo, la presenza umana. Cose private del loro senso intaccano le libertà, vengono scambiate con privilegi da scartare subito. Il merito è il sollevarsi dell’uno, non della specie mentre dovrebbe essere il contrario e l’insieme è sostituito dall’alta opinione personale che dice che io sono al centro del mio destino e il resto viene di conseguenza, quindi eticamente e moralmente oltre il bene e il male che sono concetti collettivi.
Così anche le cose impalpabili, però assai concrete come l’amore, la serenità e il giusto rispetto dell’altro vengono piegate dal pensiero entropico, dove tutto passa e si trasforma. Diventa disordine incanalato entro rigide pareti d’ordine dove la libertà e il diritto di ciascuno sono moneta di scambio e come in un’arena i gladiatori si affrontano per chi li guarda indifferente dagli spalti. Apparentemente tutto è eguale, tutto si svolge secondo le regole che sono scritte nelle leggi, nelle costituzioni, ma perché allora, cresce la fatica di vivere, perché la diseguaglianza dilaga e toglie speranza consumando gli anni, perché non si vede il vicino che ha la stessa sofferenza e bisogno?
Nel migliore dei mondi possibili la punta del rifiuto fa un male nuovo e l’abbandono è un lago nero in cui vengono lasciate naufragare le vite.
“Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità” Romain Gary
L’omeostasi ovvero il nostro muoversi verso ciò che permette la vita include dove e ciò che siamo, come lo sentiamo, chi siamo. Tutto separato e frammischiato come si pescassero i numeri dal sacchetto della tombola perché il gioco è unico come il suo fine. Per il corpo è importante stare bene, per lo spirito o la mente, meno ma star male non piace all’omeostasi. Quindi tutto si tiene, si conserva e si evolve e del passato si può parlare bene anche solo per il fatto di essere vitali e attempati.
Però di quegli anni le parole non danno misura, sono immemori della dimensione dei giorni e delle notti, delle passioni che le animavano e le rendevano brevi e infinite di connessioni continue. C’era una dolcezza diffusa, anche i profumi erano diversi, e questo manca, come la reversibile pazzia degli unici amori, delle attese senza fine, del palpitar sognando. Su tutto imperava una agitazione allegra che faceva cantare con la voce e con il corpo. Il tempo non passava mai e sfuggiva tra innumerevoli impegni, doveri, piaceri.
Difficile dire a posteriori che si era felici, ha ragione il poeta, ma la quantità di sensazioni che si ottenevano vivendo era smisurata. Prima tra tutti la consapevolezza di vivere un tempo irripetibile che ci mutava in persone differenti da prima di allora.
Imprudenza nel credere e nel lasciarsi prendere, eppure L’omeostasi funzionava, ma gli scenari che traccia vano le sensazioni nella mente erano così ricche e alternative da considerare vitale la vita complicata, l’assenza, la delusione assieme all’innamoramento, alle felicità improvvise, le presenze totalizzante.
L’età matura fa emergere l’intelligenza della conservazione, porta verso il caldo, il buono, il dolce ma con parsimonia d’entusiasmo, è questo che permette le vite e scatena altri scenari dove le sensazioni oscillano tra il ricordo e un nuovo legato al possibile.
La linea del possibile è la misura di ciò pensiamo di noi e su questa linea danza il tempo nostro.