era la sera del 5 giugno

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Era la sera del 5 giugno, un sabato. Ero in Sardegna, nel Gennargentu. Da ore trattavo con i sindacati per definire le modalità di riduzione del personale senza che ci fossero problemi per i lavoratori interessati. Un prepensionamento allo stesso importo stipendiale, restando in organico, e il passaggio graduale alla pensione. Se il lavoro fosse aumentato qualcuno avrebbe potuto essere richiamato al lavoro, ma era una possibilità remota. I migliori, gli specialisti che servivano per ristrutturare davvero, se n’erano già andati e bisognava riqualificare chi era rimasto. La trattativa durava da due giorni, sempre nel pomeriggio tardi fino a notte, tutto era chiaro, ma non si chiudeva. Come gestore responsabile del progetto ne sentivo il peso, ristrutturando c’era un futuro, tirando avanti a contributi regionali ci sarebbe stata la chiusura, magari un anno dopo, ma lavoro stabile in quell’azienda non ce ne sarebbe più stato. Ci sono rituali nelle trattative. Di qualunque tipo siano. In fondo è un giocare a rimpiattino con la coscienza che ci saranno prezzi da pagare. Una buona trattativa si conclude con una moderata insoddisfazione di entrambe le parti, si deve sentire che si è un po’ perso ma che il buono e il giusto è stato preservato. Le sospensioni, i rinvii, le consultazioni servono a questo, ad affinare il punto dove ci si incontrerà.
Alle 21 fu chiesta una sospensione, un’ora, penso avessero fame.

Nei giorni precedenti, avevo fatto un lungo viaggio solitario tra i monti, in mezzo a macchie di sughere rosso fuoco ormai prive di corteccia. Erano nudità affascinanti, eppure sollevavano la pena di chi era stato derubato di sé. Forse rallentavo troppo per guardarle, così, dopo un controllo dei carabinieri, mi ero fermato sotto una quercia enorme ancora integra. Attorno c’era un verde a balze, il silenzio, un rapace che cercava preda e le macchie scure dei boschetti pieni di uccelli. Più lontano il riflesso di un lago e la mia meta di lavoro. Non ci pensavo e fino a sera ero libero, fuori dal tempo. Restai finché arrivò un gregge con la sua festa di cani, asini e agnelli. Due parole con il pastore, un pecorino tolto dalla bisaccia e l’affetto dell’ospitalità di uno sconosciuto. Aveva le mani forti e abili, annodava e costruiva recinti per la notte. Quando ci salutammo non volle essere pagato e prese il mio posto sotto la quercia, lanciando fischi ai cani, poi estrasse una specie di flauto e cominciò a suonare. Lo sentii dall’auto, lui era in compagnia, io ero con i miei pensieri. I giorni seguenti erano trascorsi tra impianti chimici e incontri e poi la trattativa. Così eravamo giunti a sabato notte. Nell’ora di pausa avevo fatto a tempo a telefonare a casa, a mia Mamma. L’avevo ringraziata ripetendo il bene che sempre ci ha unito.

Quando riprendemmo, il porceddu e il vino di Oliena, avevano alzato i toni, c’era forza nella stanza, persone abituate a resistere un minuto di più dell’avversario, ma io non ero un avversario e neppure chi era con me lo era: se non si trovava una soluzione non vinceva nessuno e l’azienda avrebbe chiuso.
Continuammo fino alle 23.30, poi fu chiesto un rinvio, io avevo mostrato e discusso i lucidi per almeno tre volte, cifra per cifra. Si era corretto assieme lo schema, rifatti i conti, mutato qualche turno, chiusa una porta inutile, recuperati 4 posti di lavoro, ma non era tempo di chiudere.
Ci salutammo e presi la strada dell’albergo, rifiutando la cena.

Avevo voglia di star da solo, di immergermi in quella casa di allora, vicino al canale. Ho sempre immaginato che fosse caldo e le finestre aperte sulla strada, la notte era piena ma alle 3 del mattino si sentivano già cantare le allodole. Mia Madre aveva la camicia candida, c’era mio Padre, mio fratello che dormiva, mia Nonna, la levatrice. Mi hanno detto che non c’ho impiegato molto ad uscire, che ero rosso in viso e che ci volle uno sculaccione per farmi piangere. Mi furono unte le labbra col vino e succhiai il dito, poi mi accoccolai tra le braccia di mia Madre. Ricevetti baci da tutti, mio fratello si svegliò e chiese chi ero, così ebbi anche un nome. Poi mi addormentai, la stanza pian piano si vuotò e arrivò il primo mattino.
A questo pensavo in mezzo ai monti e bevendo il vino rosso con l’albergatore, che mi aveva atteso, mi augurai buon compleanno. Gli auguri di chi mi amava erano già arrivati, adesso toccava a me volermi bene.
Il giorno dopo era domenica, trattammo fino a lunedì notte, ma non si concluse, perché la vita a volte va così ed è comunque buona.

bisogno d’africa

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Di questo sole inconsistente conosco tutto, l’ho sgranato tra le dita come pannocchia, maturata e già mezza divorata nella baruffa d’uccelli e d’insetti. L’ho sentito il calore senza tregua, nell’estenuata fatica di tenersi assieme e camminare cercando ombre, vibrava nell’aria che faceva danzare polvere rossa e fili d’erba secca. Così fino alla notte quando improvvisi afrori di spezia cercano liberazione dai cespugli stenti. Attorno, gli alberi si riempiono d’uccelli, il fresco scende dal cielo, mitiga la terra, rallenta le parole. È subito buio, s’accendono candele sui tavoli, poco oltre aumentano i bisbigli. Ragazzi allenano i muscoli alla lotta, qualcuno s’accoccola sui talloni e guarda il mare che ancora ha luce ma già riflette l’argento dei pesci in caccia e in branco. Ho desiderio del sole d’Africa, dell’assoluto buio delle notti insonni, dei rumori sul tetto, tra le coperture di foglie, del primo canto del muezzin che si confonde con la brezza e il breve sonno.
Mi manca il profumo del caffè crudo messo a tostare, il rumore di stoviglie e le prime grida d’acquaioli e venditori di tè. La tazza in cui si rapprende la bevanda bruna è dove s’apprende a vedere il futuro. Il pensiero che genera ha sapore dolce e amaro, si fonde con il profumo del cardamomo da tenere in bocca. Posando la tazza, le parole si fanno più lente dei pensieri lenti e l’ampia tunica, in cui far ballare il corpo, dona nuove libertà al sentire.

C’è sempre un mercato da percorrere con i sensi, tra colori e cose, con l’odore forte del pesce disseccato, la carne halal, i tuberi arrostiti e l’acqua profumata di limone che riempie la caraffa, la fa sudare di frescura nell’attesa d’essere versata.

Qualche volta le parole s’intrecceranno nel buio, fino alla cerimonia del salutarsi per un sonno che non giungerà sotto il baldacchino delle zanzariere, e gli occhi fisseranno la finestra nera di notte, da cui viene il ciarlare delle scimmie.

Domani è solo tempo, è il presente che scrive dentro con molteplici dita, che usa tutti i sensi per comporre le sue storie. Non lontano, il fiume, le mangrovie, il mare, il deserto e i termitai immensi, sono atlanti per esseri che c’erano prima di noi e che ci sopravviveranno, nell’abitudine indifferente del vivere come necessità del giorno.

sono le sei

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Sono le sei. La luce filtra dalla finestra posta nella stanza alla fine del corridoio, lo percorre allegramente e illumina, appena più intensamente la porta aperta della stanza in cui dormo. Un tempo avrei aperto gli occhi per la variazione di buio e mi sarei fermato, indeciso tra l’ultimo frammento di sogno e la coscienza che riaffiorava. Mi sarei alzato dopo poco, avrei riempito la stanza di luce e mentre il caffè saliva lento nella Bialetti, cinque gocce d’acqua sul fondo perché non bruci il primo affiorare, mi sarei goduto i tetti e il primo affaccendarsi di rondini tra le case.

Mi sono immaginato spesso il giorno prima. Il giorno o l’ora che precede qualsiasi cosa. Oggi è il 24 maggio e nel 1915 il forte del Verena, alle 4 del mattino, apriva il fuoco contro i forti austriaci dello Spitz e del Verle sul Vezzena. Più o meno alla stessa ora, la flotta imperiale austriaca bombardava Ancona, Iesi, e la costa adriatica. Cosa pensavano le persone che erano nei paesi vicini ai forti, oppure nelle città che sarebbero state bombardate? Proseguivano la vita di tutti i giorni, avevano bambini che andavano a scuola, vecchi in casa da curare, lavori che assicuravano il necessario e lo proseguivano. Tutto era normale, prima e attorno all’evento, poi le cose gradualmente mutavano. Ho cercato di immaginare cosa facesse mio Papà, nato da poco, in una città tedesca e arrivato in Italia, cosa pensasse mio Nonno e la Nonna e credo che nessuno di loro fosse distante dalle cose di tutti i giorni. Questo è il futuro, quello che può accadere per l’addensarsi dei presagi e delle condizioni che li rendono reali, ma anche ciò che rende gli uomini dipendenti da altro da sé. Così guardo ciò che sta attorno e penso che il suo fulgore, il suo nascondere i particolari al disattento, il vivere in quell’universo parallelo dove ciascuno di noi colloca la sua personale vita fatta di attenzioni e di affetti importanti, sià qualcosa che ci appartiene e insieme ci determina.

Cogliere i segni, leggerli, interpretarli a priori, non a posteriori ché a quelli son buoni tutti, come a dolersi di non aver capito o trascurato, è proprio questo immergersi in sé e godere dell’attimo, vedere ciò che può essere e insieme vivere profondamente. Sono le sei e la giornata si apre oppure ancora sonnecchia cercando un altro sogno da mettere in cantiere per tirare a lungo. Alzarsi e prendere possesso di sé nel giorno, essere nelle cose che non solo si ripetono, ma sono parte dell’abitudine che si è naturalmente costruita per leggere la propria giornata oltre i segni e dentro i segni, oltre l’umore che muterà se sarà preceduto da un meditare sul bello che abbiamo creato attorno. Alzarsi e dire la propria libertà dal tempo, da ciò che altri creeranno per noi, perché la vita è uno sguardo che apprende, che fa proprio il tempo, che rende importante ciò che non lo è e che derubrica dalle scalette della nostra concezione del mondo ciò a cui non possiamo arrivare.

Sono le sei, penso ai tantissimi uomini che ciascuno nel loro mondo fanno, dormono, pensano cose così diverse che solo il pianeta può tenere assieme e il cielo interpretare, sono i mondi paralleli, ciascuno con storie vita e bellezza proprie e mentre penso alle loro, guardo ciò che mi viene dato e sono grato.

maggio quasi giugno

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Mettiamo che in una qualsiasi sera di maggio, con un caldo anomalo, quasi da giugno, il verde con la luce radente diventi sontuoso, che le siepi comincino a profumare e che gli alberi siano carichi di foglie pulite. Una serata che attrae fuori di casa e mentre cammina, un po’ per consapevolezza e un po’ per intuizione, il nostro protagonista si accorga, che molto di quanto ha fatto, pensato e vissuto come occupazione principale in una infinita sequenza di giorni, non era poi così importante. Pensa che fare programmi non è il massimo dell’intelligenza, che le persone, anche quelle care, sono libere di muoversi come meglio credono e secondo le loro vite e che i pensieri per incontrarsi, hanno bisogno di essere comunicati con verità e innocenza.

Cammina tra il verde splendente che gli ricorda altre sere ormai passate così tanto da non essere ben collocabili, allora, giustamente, il nostro protagonista respira a fondo. Come se così facendo i pensieri ritrovassero almeno l’ordine cronologico, se non quello dei sentimenti e delle delusioni. Anzi, pensa, che avere più tavole che mettano in ordine, il quando, il come e l’intensità del sentimento consentirebbe di avere una visione della propria vita, delle connessioni, forse anche degli errori naturali, della misura del tutto e del trascurato.

Perso nel fascino di questa molteplice tavola del vivere e del sentire, si siede vicino al fiume che ha visto in ogni età della sua vita e si accorge che non riconosce la città in cui è cresciuto, ovvero, riconosce i monumenti, le pietre, i percorsi, ma non conosce nessuno di chi gli si muove attorno. Questa sensazione si fa più forte e gli sembra che una immane commedia sia in corso, che i partecipanti/attori ne siano consapevoli, ma che gli spettatori non lo sappiano.

Passa un volto noto. Saluta e parole senza sostanza si scambiano tra i volti. Da un sorriso riceve un sorriso e gli pare di vedere le parole, trasformate in lettere, che escono e si sciolgono prima di arrivare: un mucchietto di impalpabile cenere di conversazione che li unisce. Il mestiere lo aiuta per troncare con le frasi fatte usate all’uopo la conversazione che vorrebbe prolungarsi, l’interlocutore non ha fretta, lui ha necessità di silenzio e di guardar meglio ciò che accade. Ragazzi si raggruppano, scoppi di voci, si formano e si sciolgono brigate. La sera avanza, sanno dove andare, lui si chiede se tornare perché la rappresentazione non solo non è finita ma non ne ha ben compreso la trama e il senso.

Ora è la notte che fa paura. La notte dei sentimenti, delle prospettive. Ricorda che basta ripetere gesti semplici per tenersi assieme, ma tenersi assieme non è vivere. E lo sa. Si guarda attorno e la piazza si sta vuotando, lungo il fiume si sono accese le luci e tanti piccoli chioschi mescolano alcolici, tolgono la schiuma alle birre. Montagne di patatine arrosto, profumo di salsicce, sembra una città tedesca però priva delle tavolate bagnate di birra, delle canzoni ritmate con i bicchieri. Il profumo è quello dell’acqua morta, il verde, quello delle erbe che marciscono nell’acqua bassa. Dovrà camminare per immergersi nei giardini, per sentire il profumo dei tigli, delle siepi di gelsomino, qui vivevano altre vite che non ci sono più. E’ la sua città che non lo riconosce, adesso capisce il senso di qualche scena a cui ha assistito e allora ricorda NIetsche: non guardare troppo l’abisso, altrimenti, l’abisso guarderà te.

Se qualcuno sa davvero cos’è la solitudine può parlare con il nostro protagonista, mentre medita camminando. La solitudine è il vuoto che aspira i pensieri e le speranze, le certezze e le illusioni. Riconosce le pietre e i portoni, le scritte antiche che nessuno è riuscito a cancellare, si è formata nella sua testa una mappa che gli dice dov’è senza l’ausilio delle vie, come ogni luogo fosse un appuntamento e un ricordo. Gli torna in mente l’idea delle tavole da sovrapporre con il tempo, il luogo e ciò che è accaduto in lui, a questo dovrebbe aggiungere ciò che non è accaduto fuori di lui, i fatti mancati, le occasioni perdute, le delusioni date e ricevute.

Ci penserà, intanto con un sorriso ricorda una cronaca ciclistica di tanti anni or sono:” un uomo solo al comando, è Fausto Coppi”. Coppi non era solo, quella volta: aveva una meta e l’Italia che gli facevano compagnia. E’ stato molto più solo quando per seguire il cuore, l’hanno messo sui giornali, processato, isolato. Il nostro protagonista, che non è un campionissimo, pensa alle sue vittorie e alle sue sconfitte, pensa a Coppi e a Pantani, così grandi, così diversi eppure simili, troppo simili alle parole scambiate prima nel ricordo di troppe persone.

Pensa a cosa si concederà stanotte. Il ripasso di Puer Eternus di Hillmann, un film, una visita ad una persona gradita che lo riconosca davvero, una lettura a casa, una pizza?

inquietudine

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L’inquietudine è questo uscir d’anni,

speranze e passioni,

come per pneumatici lisi da troppa strada.

E’ questa inquietudine che, da qualsiasi posto,

anzitempo mi porta via.

E’ il non essere appieno l’immaginato e il perseguito,

è l’attesa d’ una pioggia che non viene,

o il sole inquietante che raschia anima alle cose,

è la porta disegnata sul muro che non s’apre.

Sul cuscino qualche filo di riccio: anche stanotte i sogni eran brevi,

ma l’aria frizzante e poche stelle

hanno strappato un sorriso alla pelle nuda.

Sarà compreso l’abbraccio alle nuvole,

e il saltare da una macchia di sole a quella appresso?

la furia

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Alle volte mi prende una furia silente. Fuori non si vede nulla, forse si scuri e il volto è s’accorciano le parole ma i gesti hanno la gentilezza automatica di chi li ha appresi per tempo. Scomporre la furia non è facile, la furia è un blocco unico che si alimenta di innumeri rivoli, fatti, circostanze, che vede la realtà come i modificabile e priva di giustezza e ragione. Per questo rischia di diventare rabbia e di non confluire nell’azione tranquilla che scaturisce dal ragionamento, eppure basterebbe pensarci guardando in modo diverso, uscendo dagli stereotipi che vedono noi e ciò che facciamo come determinanti della vita per capire che ciò che ci scuote sta scuotendo la realtà e che essa troverà azioni e modi per sorprenderci, per porci dinanzi ad un nuovo che non pensavamo. Le strade che abbiamo di fronte sono il lasciar accadere e capire intanto cosa non va del nostro vivere, oppure il tentare di modificare le cose partendo da uno dei rivoli che hanno generato la furia. Spesso si scopre che ciò che ci indigna è distante e accadrebbe comunque ma che è anche il prodotto di un mondo imperfetto, ineguale, ingiusto, prevaricatore. Questo mondo è così, lontano dalla perfezione o anche solo da un moderato danno nei confronti della maggioranza delle persone e ciò che per noi è giusto per molti altri è indifferente. Allora con chi dovremmo prendercela, chi dovremmo modificare se è proprio la somma delle furbizia, arroganze e l’esercizio del potere che rende i eguali le persone, causa sofferenze, piega le vite in ambiti così angusti da far desiderare sempre la libertà. La furia è la mia impotenza, l’indignazione è il mio giudizio anche se non voglio giudicare ma capire, l’inazione è l’impotenza dello spirito che si arrende di fronte alla violenza della diseguaglianza perseguita come valore e dimostrazione che non siamo eguali. E invece penso che siamo eguali e differenti, eguali per nascita e opportunità che devono essere date e differenti perché la somma delle visioni penetrarlo la comprensione profonda del rapporto tea noi stessi, il mondo, la società che viene costruita. Nulla è dato per sempre e ognuno può ricevere e dare, se la mia furia si quieta, potrò capire, procedere, sentire che la strada è giusta, almeno per me. E nel sentire tutto quello che non va aggiungo me stesso perché solo la calma e il credere in ciò che si fa sgretola l’ingiustizia.

festivo

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I biscotti, “zaeti” , stanno cuocendo. C’è un buon profumo in casa che si mescola con quello della farina che cuoce tra mandorle e uvetta. Scrivo nella mente cose mai prima d’ora comprese, leggo chi sa scrivere stupendo e penso. E ascolto Tschaikowsky, il primo concerto per pianoforte.
Ho pensato spesso all’amore, agli amori e all’attrazione in questo periodo, come a componenti dello stesso processo. Le letture, i ricordi, portano nei particolari, mostrano ciò che si è generato e ancor meglio, ciò che ha incrinato o mutato il sentire. Perché sembra che tutto si riconduce a noi, alle nostre volontà, ma i barlumi del possibile, l’addensarsi dell’accadere si annidano lontano, poi a fatti avvenuti, subentrano altre virtù: la passione, l’attesa, la pazienza, la giusta misura, il silenzio, la verità e chissà quant’altro che sia noi e solo noi.

Ho pensato anche a quanto si frappongono società, religione, usi, timori e ruoli tra gli uomini, che rendono disgraziate le vite anche di chi poteva essere felice. Un’amica cara è immersa da anni in problemi enormi che inutilmente la consumano nella sua bellezza, per un matrimonio fallito, basterebbe la realtà e invece funzionano rancori e tribunali.
Come se per due persone che si amano fosse lo stato civile a fare da barriera.

Ho pensato anche a un criterio, che è un priori, ovvero il piacersi reciprocamente, cosa che aiuta non poco a scambiare sentimenti e verità ed è stranamente questo che viene dato per scontato nella vita sociale, mentre è un farsi non sempre semplice ed è proprio esso l’anticamera dell’attrazione. Piacersi ossia provare piacere dell’altro è condizione rara. E questo viene negato dall’ educazione che sottolinea il diverso, che mette dubbi dove non ci sono e porta le cattive esperienze come fossero verità.

L’amore è semplice, potente, unitario e desideroso di piacere, in tutti i sensi, partire da ciò che è significa aprire un mondo che prima non c’era e non sarà mai uguale, mai lo stesso per sempre e quindi mutevole, solo la verità gli rende onore, il resto è indebito possesso.

se non è complicato non riesce bene

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Se non è complicato, non riesce bene, eppure la semplicità è a un passo, chiara come un navigatore appena tarato. Invece scartafascio portolani, cerco mappe
rosicchiate, rifiuto per indole e saturazione e non appartengo, non più, mi dico. Davanti ci sono passi e strada, pensieri, sensazioni, colori, frasi sottolineate, linee diritte e sghembe, architettura interiore che diventa segno e tempo.

Dichiarato l’ambito e la direzione, il necessario preventivamente va detto, perchè ci fu molto tempo diversamente confuso, le ferite sanguinavano e s’infettavano. Per quanto vale a sanificare ho solo seguito la passione, il
desiderio, la necessità d’essere amato. Può bastare?

Ora molto è più chiaro, non ho più alibi di
peso da sciorinare e sono un pessimo individuo, anche se non basta dirlo per tenere a bada i danni allegri che si compiono leggendo e camminando. E neppure ad evitare gli scroscio di chi scuote il capo comparendo. No, non basta, perchè posso essere redento, cambiato, fatto innamorare: si pensa mai che chi cambiamo forse poi non ci piacerà ancora e che era la differenza, tenue o forte, la ragione dell’attrarre che interrogava e si trasformava in similitudine tra eguali?

Ho vissuto dentro romanzi scritti malamente, non credevo ai miei occhi, ai miei pensieri, mi affidava alla volontà vana che non piega il corso delle cose, , tutto sembrava ricondursi a pochi fatti semplici. E tali erano, come ciò che sorprende ed è accanto, quello che ad occhi chiusi persiste, l’infinita varietà del vivere che non chiede consenso, che non è al nostro servizio, ma dona bellezza e intuizione fino a diventare altro e anche noi.

E’ vero, ma quanto male fa la semplicità che riduce tutto a un’equazione, in fondo complico ancora le cose per fuggire dal dolore. Almeno un poco. E dar spazio alla vita, che vorrà pur darsi da fare nella sua evoluzione positiva, per indicare la strada.
Voler bene e prendersi cura, bastare solo agli amici: hai idee chiare amico mio, hai capito molto della vita, a me non è accaduto e ogni volta mi sono detto che non bastava rispondere alle domande, dare ciò che si può, si doveva mettere in conto che ci verrà chiesto ciò che non è possibile dare. E li inizierà la sofferenza. Sono appartenuto, mi sono sostituito, ora non più e lascio entrare solo chi voglio, dico le regole della casa, indico con cortesia, la porta agli intrusi. Sono regole larghe, ma rispettose e non è da poco accogliere e stare al proprio posto, ma che dire oltre la verità?
In questi giorni d’incertezza, si scomplicheranno le cose, tutto diverrà semplice.

Lo spero e vorrei. Molto.

immaginare

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S’immagina ciò che fa comodo, con l’innesco di qualche desiderio a mezzo, d’una fantasia perduta chissà quando. E il tutto tra paletti di ferro. Convenienza, necessità, spesso l’una e l’altra assieme.

Educazione. Parola magica per dire: non è colpa mia, mi hanno piegato il libero arbitrio.

E quel chiavistello di cui pare ci si liberi, ovvero la colpa, chi l’ha messo nelle nostre mani? E chi davvero ci costringe a tenerlo?

Dico una parola: re-spon-sa-bi-li-tà.

Prova a ripeterla: re-spon-sa-bi-li-tà.

Se hai usato gli accenti giusti, sei già mezzo giustificato. Mezza giustificazione, due terzi di colpa eliminata, il resto lo inglobi nell’immaginazione. È quasi niente, non si sente e pare di volare.

Basta realtà, puoi accedere all’immaginazione e con i dovuti limiti, volare.

Apri la porta di sicurezza del tuo cuore e vola.

primo maggio

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Dovrei cominciare con un “ti ricordi”, ma forse non ricordi affatto e tutto si è sovrapposto nell’urgenza di un presente che si racchiude nella triade, desiderio, soddisfazione, tempo. Domani è il primo maggio, una data che da quando è stata conquistata si è privata dell’anno ed è diventata un’icona da vivere come il 25 aprile è l’8 marzo, in libertà.

Lo facevamo anche noi quando ai cortei si sono sovrapposte altre necessità, di amore, di svago, di vacanza prima delle vacanze. Qualsiasi urgenza “vitale” poteva essere spesa in giorni che già avevano il calore del giugno, la sabbia da mettere nelle scarpe, il primo falò e le grigliate notturne con i racconti, i motti di spirito, tutto il teatro dell’assurdo che si consumava in gruppo. Il primo maggio in piazza, con la banda e l’inno dei lavoratori, i discorsi dei sindacalisti poteva essere un preparare la partenza o il sancire il ritorno, spesso il secondo, dopo aver preparato con cura certosina e ilare il ponte al mare che lo precedeva.

Tu nonl ricordi di nulla, hai scelto di vivere altrove e in quella parte di mondo dove si radunano i vecchi ancora desiderosi di essere giovani. Anche lì si festeggia il primo maggio ma sono sicuro che non ci a drai, sceglierai il vestito da mettere alla festa della sera, il ristorante e la compagnia sarà sempre la stessa però priva di ricordi comuni e con un presente pieno di ammiccamenti da vivere.

Non sono invidioso, le vite hanno portato benessere a noi fortunati che possiamo parlarne, non ai nostri nipoti che ancora non si pongono il problema di cosa sia il lavoro e del perché debba avere una festa vista la precarietà che lo circonda. C’è un tempo per ogni cosa, per noi è stato così e il tempo della festa entrava nel calendario come una eccezione che lo muoveva, lo faceva folleggiare, esprimeva passioni che si comunicavano nel privato. Tu la ricordi quell’energia allegra che rendeva possibile ogni cosa, che faceva sognare e toccare con mano il futuro unendolo lieta ente al presente?

Credo che ormai per te queste cose siano mutate in questi gerontocomi dove il mondo è bello, i servizi a disposizione, purché si abbia una rendita sufficiente a pagare la nuova giovinezza. Hanno un effetto annichilente per la memoria ed è giusto che sia così perché gli altri i rimasti, i sopravvissuti, i coetanei a basso reddito si dibattono ancora in problemi e ideali più grandi di loro. Pensano ai figli e ai nipoti, all’ambiente e alla follia della guerra, pensano ai pericoli della tecnologia sen, a etica e all’inflazione che alleggerisce la spesa. Hanno ricordi di cui sono contenti e passioni che non si sono spente, parlano con persone che non conoscono chiedendo della loro vita. Con allegra delicatezza, vivono cercando di capire dove hanno sbagliato perché il mondo non sia migliore. Festeggiano anche se la parola lavoro ha oggi un significato diverso, vanno in piazza, cercano di capire e ancora festeggiano assieme Con i compagni di una vita di battaglie perdute a mezzo.

Fanno cose che ora giudicheresti strane, e ridono con le protesi pagate a rate, ridono perché sperano e non si sono stancati di stare dalla parte che perde ma è quella giusta e così ogni tanto, con fatica vince. C’è un tempo per ogni cosa, verrà il tempo buono che abbiamo preparato anche in quei lontani giorni felici.