omeostasi

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“Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità”
Romain Gary

L’omeostasi ovvero il nostro muoversi verso ciò che permette la vita include dove e ciò che siamo, come lo sentiamo, chi siamo. Tutto separato e frammischiato come si pescassero i numeri dal sacchetto della tombola perché il gioco è unico come il suo fine. Per il corpo è importante stare bene, per lo spirito o la mente, meno ma star male non piace all’omeostasi. Quindi tutto si tiene, si conserva e si evolve e del passato si può parlare bene anche solo per il fatto di essere vitali e attempati.

Però di quegli anni le parole non danno misura, sono immemori della dimensione dei giorni e delle notti, delle passioni che le animavano e le rendevano brevi e infinite di connessioni continue. C’era una dolcezza diffusa, anche i profumi erano diversi, e questo manca, come la reversibile pazzia degli unici amori, delle attese senza fine, del palpitar sognando. Su tutto imperava una agitazione allegra che faceva cantare con la voce e con il corpo. Il tempo non passava mai e sfuggiva tra innumerevoli impegni, doveri, piaceri.

Difficile dire a posteriori che si era felici, ha ragione il poeta, ma la quantità di sensazioni che si ottenevano vivendo era smisurata. Prima tra tutti la consapevolezza di vivere un tempo irripetibile che ci mutava in persone differenti da prima di allora.

Imprudenza nel credere e nel lasciarsi prendere, eppure L’omeostasi funzionava, ma gli scenari che traccia vano le sensazioni nella mente erano così ricche e alternative da considerare vitale la vita complicata, l’assenza, la delusione assieme all’innamoramento, alle felicità improvvise, le presenze totalizzante.

L’età matura fa emergere l’intelligenza della conservazione, porta verso il caldo, il buono, il dolce ma con parsimonia d’entusiasmo, è questo che permette le vite e scatena altri scenari dove le sensazioni oscillano tra il ricordo e un nuovo legato al possibile.

La linea del possibile è la misura di ciò pensiamo di noi e su questa linea danza il tempo nostro.

ma c’era il sole?

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Ma c’era il sole? 

Sí, c’era. 

E faceva caldo come adesso? 

Certo. 

E i bambini c’erano? 

C’erano anche se restavano poco. 

E giocavano ? 

In qualche modo giocavano, i bambini trovano sempre qualcosa per giocare. Però avevano paura, tanta paura, ma anche si consolavano. Come potevano. 

E le loro mamme e i loro papà? 

Se li stringevano forte addosso o li tenevano per mano, finché potevano. Per dargli coraggio, come fa la tua mamma con te quando hai paura. 

E così la paura gli passava, vero? 

Si, passava. almeno per un po’. 

E poi?

Questa è la prima delle due domande terribili, perché la risposta è: li uccidevano. E di solito segue il silenzio e poi un’altra domanda altrettanto terribile: perché? 

Molti anni fa, quando mio figlio era piccolo e visitavamo luoghi come Terezin, mi chiedevo come si potessero raccontare gli eccidi, la shoah ai bambini. La risposta era quella di dire la verità entrando nel loro mondo. Dicendogli che esiste il male, che gli adulti lo devono contrastare e non subire e non devono avere paura di altri adulti che scelgono di uccidere chi è diverso. Ma perché questo avvenga esigeva spiegazioni lunghissime che i bambini non seguivano. Perché neppure lo noi lo sappiamo fino in fondo. 

In questa giornata c’è troppa memoria e domani più nulla. E nulla collegherà la memoria a quanto accade, eppure il male sarà ancora presente e vigile. La natura ci ha insegnato a scappare davanti al pericolo, ma oggi è anche difficile scappare e allora abbiamo una sola alternativa: combattere. E la risposta a quella domanda sarebbe: perché esiste il male e non ci furono allora abbastanza persone che lo combatterono.

Ma noi siamo in tanti adesso, vero, papà? E non lo faremo accadere, vero? 

Sí, hai ragione, siamo in tanti, vedrai che non accadrà più. Vedrai…

Almeno avere la speranza che quando si ripresenterà la bestia ci siano molti che vogliono combatterla. Almeno quello. 

limes a oriente

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Il sommaco non lo sa che c’è un confine tra un prato e una dolina. È un residuo della vecchia cortina di ferro, sia pure di seconda categoria, dove si passava a piedi. Ora nessuno ti controlla perché la casa dei doganieri è vuota e neppure la sbarra c’è più. Il sommaco non lo sapeva neanche prima e macchiava di rosso l’una e l’altra valle, indifferentemente libero. I fiori, l’erba, si distribuiscono e radicano con la caparbietà della vita. E qui la vita è anzitutto caparbia. Difficile per il terreno, difficile per la precarietà, difficile e muta perché si parla poco. Un tempo la commistione era facile, parlava più lingue, condivideva il letto, la tavola, la culla e il camposanto, adesso è più difficile. Questa è una rotta di terra per chi emigra e l’ospitalità che metteva assieme le umanità, tace. Così questo cammino ci pensano gli stati a renderlo difficile. Per mescolarsi si devono superare gelosie di luogo, lingua, spazio, tutte cose che un emigrante è disponibile a fare, ma non chi ha convinto i poveri ad essere nemici di chi è più povero, non chi si abbarbica al molto che ha e che non vuole accogliere. Eppure l’imperativo della vita è ibridarsi, trarre il meglio da ciò che viene offerto, come fa questa terra difficile e generosa per chi la coltiva. Si sono generate da oltre un secolo, distinzioni, identità e sospetti: paure immotivate e cieche. Mentre l’imperativo sarebbe: mescolatevi e sarete biologicamente migliori. Lo faceva la Repubblica Veneta, l’impero Austro-Ungarico, il Turco, poi è cambiato tutto e fascisti e nazisti hanno scavato solchi ben più profondi delle foibe.

Sul confine tutto si mescola eppure si distingue. Anche i modi per portare un servizio, la luce o l’acqua sembrano segnare diverse modalità e intelligenze. Sul crinale, verso il lago, corrono pali e fili elettrici. Per qualche oscura deviazione mentale, ovunque vada, la mia attenzione è attratta dall’ordine in cui pali e fili sono disposti. Mi sembra che questo abbia un significato oltre l’utile e le abitudini. Negli Stati Uniti e in Canada, ci sono grovigli di cavi nei vicoli, trasformatori appesi, accade anche in Portogallo, in Argentina, oppure in certe aree africane e medio orientali. Qui, invece, pali di legno o tralicci di ferro, seguono crinali, le città sono abbastanza libere da cavi, trasformatori sulle case non se ne vedono. È come se per qualche oscura, residua, forma di rispetto, la ferita di un palo e d’un filo che tagliano l’orizzonte venisse ridotta a tracce che si susseguono, strade aeree per equilibristi e uccelli, mentre i grovigli di fili vengano nascosti in case senza finestre che hanno in cortile trasformatori possenti che friggono l’aria. Ci sono cabine e case per l’elettricità perché almeno qualcosa venga risparmiato. Ma oltre ai pali, i fili e gli alberi, sembra non ci sia nessuno. La solitudine pervade tutto. E non solo è più difficile vivere da queste parti, ma si nota l’assenza d’uomini e di macchine. Le strade sembrano portare verso un nulla che è dietro l’ultima curva. Così nei paesi i movimenti lenti fanno sembrare tutto più vecchio, affaticato, anche nei gesti sono lontane le frenesie di Milano, le luci notturne di Roma, il semplice assembrarsi nelle piazze di città. Qui tutto è rado, fuorché la pietra e la selva che esplode dove si è fermata la fatica del coltivare e li anche gli uomini sono rari. E allora per chi è tutta questa bellezza?

Con questa domanda tra solitudini gloriose d’autunno, tra scrosci di pioggia tappezzate di rossi, gialli e cremisi scendo a Trieste. La città è calda di scirocco, luccicante di pioggia, vociante di chiacchiere serali attorno ai bar. Negli spazi, sul molo Audace, la pioggia ha cacciato i soliti perditempo, e anche Piazza Unità, stasera, è stranamente libera da persone. Solo nella piazza vicina alla stazione, si raduna chi non sa dove andare, chi giunge lacero come Lazzaro, ferito, da innumerevoli tentativi di passare frontiere e Lorena Fornasir con il marito, con i volontari della sua e di altre fondazioni, cura ferite, fascia piedi, sfama e dà abiti integri, senza chiedere nomi né religioni a uomini trattati come tali. Sono persone che andranno via subito, diretti in centro Europa, con storie terribili da portare con sé, con anni di cammino, di angherie, truffe, tormenti, morti di compagni e incrollabili speranze. Quella piazza Libertà, dove tutto questo accade, è un molo d’approdo e di partenza, ma anche un luogo di retate per chi non ha documenti validi per restare. Per questo oltre al dolore e alla necessità c’è la paura di essere ricacciati indietro nel gioco dell’oca dell’inumanità. È un limes, piazza Libertà, dovrebbe essere una terra di nessuno in cui vale il discorso della Montagna, un luogo da dedicare all’umanità che si fa concreta. Non lo è perché l’opulenza non tollera la povertà di chi va in cerca della propria vita altrove.

Trieste era una capitale senza regno, un coacervo di genti, sarà per questo che tra gli ultimi sprazzi di luce, emerge la bellezza violenta di edifici e manufatti deserti, apparentemente senz’uso. Non c’è un passeggio stasera, la pioggia l’ha spazzato con piccole raffiche di scirocco. C’è solo bellezza di pietre ordinate, di luci, di calore che trapela dalle vetrine dei negozi, dei buffet, dei ristoranti, dei caffè famosi. E c’è solo bellezza nel gesto d’una bianca ballerina di strada che prova i suoi passi nella piazza. E’ avvolta nel suono di un violino, accordato un po’ approssimativamente e si muove, in questa oscurità che cresce, leggera, muta e perplessa. Come il vento.

Sarà lo stesso vento che nella notte spingerà i profughi di decine di paesi verso la frontiera per tentare di passare oltre, per andare verso parenti e amici che attendono nel cuore d’Europa, quell’Europa matrigna che con il loro lavoro resterà pulita, costruirà case e coltiverà cibo per tutti, ma che non vuole essere come il sommaco che si stende libero tra boschi e altri fiori, fiero di vivere in armonia con essi.

è tutta una bugia

È tutta una bugia, quella raccontata per anni, che eravamo portatori di valori universali, di umanità, di rispetto della vita. Non è vero, non è mai stato vero. Se andiamo oltre le affermazioni collettive, scopriamo che non crediamo in nulla che non sia il denaro. Le religioni, le fedi sono una consolazione per i delitti e l’ignavia ma nessuno ci crede davvero.

La verifichiamo, questa grande impostura, nei bimbi, nelle donne e uomini, lasciati morire di sete e di fame in mezzo al mare. Ci sono gli avvisi, le richieste di aiuto, ma nessuno risponde. Non i sostenitori della vita e non si dica che non si sapeva, la verità è che impera l’egoismo, e le leggi sono fatte per sostenerlo. Si lasciano spegnere le vite di persone inermi e ci si commuove a una fotografia. No, qui non troverete mai quelle foto che dovrebbero cambiare le cose e invece sono pornografia di morte.

Quante vite si sono lasciate spegnere in mare, nel gelo dei confini di terra davanti alla Polonia, alla Grecia, alla Croazia, all’Italia. Il conto di questa colpa collettiva diventa un numero, tutti colpevoli nessun colpevole, ma nessuna legge giustifica l’omicidio, il lasciar morire l’inerme.

Abbiate la decenza, voi che parlate ai tanti, di non evocare simboli religiosi in favore di consenso elettorale per giustificare od omettere che queste morti non sono uguali alle altre. Non c’è nessuna civiltà, nessun valore in ciò che dite. E non voglio sentir più le parole di chi si tira fuori perché avrebbe detto o fatto qualcosa che non ha cambiato nulla.

No, nessuno è innocente e nessuno può dire che questo non è il mondo in cui chi ha potere uccide. Non raccontate più favole, dite la verità, ditela agli odiatori, ditela a chi ritiene giusto lasciare morire i bambini, ditegli che non c’è speranza e che la disumanita è un tarlo che divora dentro, che toglie una vita che vuole solo vivere e potrebbe essere quella necessaria a salvare il mondo. Non c’è nulla di civile in questa civiltà, solo orrore per noi stessi, per ciò che siamo diventati e se vogliamo un perdono non basta commuoversi, bisogna rimuovere il male che si maschera da legalità.

Oggi Giovanni XXIII non direbbe più come nel discorso della luna, portate ai vostri bambini il bacio del Papa, ma direbbe di portare amore e misericordia agli altri bambini. Quelli che non sono a casa, quelli ricoperti di salsedine e gasolio, quelli che piangono al buio, con le loro madri, quelli a cui viene tolta la vita nel terrore. Portate aiuto, direbbe ogni persona che abbia ancora il senso della pietà, a quelli che non hanno nessuna protezione, nessuna umanità che li accolga, ami, difenda. Ma queste voci sono flebili, non sono il potere e neppure l’istituzione. Che Europa può nascere nella menzogna sui valori, che giustizia, che governi. Nessuno toglierà le colpe collettive nel lasciar dire e fare, il tempo non ci perdonerà.

ricordi come lacca

Passavano i giorni del sole e delle corse fino a sera, iniziava l’anno tra profumi d’inchiostri, di carta e di matite Giotto. Aule già fredde, anticipavano l’inverno su teste chine, grembiulini neri e fiocchi azzurri su colletti bianchi. Lontano, verso la lavagna, dietro una cattedra fortezza e nave, si generavano parole, inusitate alcune, altre comuni, tutte con un’ autorità senza spiegazioni. Andava così che dopo un po’ mi distraevo e lasciavo scorrere lo sguardo verso le finestre oppure sul foglio desolato di biancore. Senso del limite, imparato presto, ma in cambio tenevo i sogni ben stretti tra le dita piccole e d’inchiostro, i tinti polpastrelli. Sembravo, ma non ero l’unico, uno stralunato reo dopo l’arresto, pronto per le impronte e per l’accusa di non fare quel di più che avrei potuto ma pervicacemente negavo. Eppure quei luoghi li ho amati, come la polvere che danzava nei raggi di sole, i banchi di legno e lo sporco dei muri e degli angoli che non se ne andava mai.

Poi, come lacca, le età si sono stese, lucenti di ricordo. Solide, ancora promettono il meglio, se ci sarà attenzione a ciò che muta, ma ora hanno aggiunto una solitudine colma d’immobile incomunicabilità se non si coglieranno più i sogni e le attese.

Cosa sognano le età che sono accumulate, cosa vedono gli occhi che del vedere non sono mai sazi, cosa pensa la testa nelle notti diversamente insonni? Di tutto un po’ senza la spavalderia d’un tempo, preso tra limite, frenesia, un poco di rimpianto per le passioni devastanti che aravano giorni, realtà, impegni e notti.
Che mondo s’è creato. Non io solo, ma eravamo distratti quando è accaduto, impegnati a vivere più che a prevedere. Spero stessimo facendo l’amore mentre le osterie, dove ci rifugiavamo, diventavano agenzie immobiliari e i bar toglievano i tavolini dove parlare per trasformarsi in wine qualcosa e ristorantini pretenziosi. Fumavamo molto, eravamo ignari, dolci, indifesi, con piccoli lapis scrivevamo poesie dappoco e numeri di telefono, cercando amici meno squattrinati che ci assicurassero il costo di una cena.
Vennero poi parole d’ordine nuove, età inesplorate, non più numeri, ma libri, lettere di passione, disperata dalle assenze e altro, ma non c’erano ancora password e accenti da evitare per aprire i file, solo carta da annusare e poi rileggere.
Noi ci baciavamo felici, impegnati a costruire un mondo, nascondendoci in ogni angolo che pensavamo fosse libero e nostro.
Dopo, in un’altra età, sono venute le cose complicate, le parole muta vano significato e forma, si abbreviavano, quasi acronimi di senso. La tecnologia divorava il poco tempo, che era della tenerezza, ed ora se il cuore ci dice di dimenticare, restiamo attoniti con molta potenza di calcolo a disposizione.
Anche in questo settembre, riassumo nostalgie, le nostre vite piccole e grandi, il terribile e il quotidiano che negli anni è accaduto altrove. Già scordato, come Beslan, le guerre in Africa e in Oriente, le due torri, l’URSS e la DDR e mentre tutto si sovrappone e genera confusione tra realtà e virtuale, ricordo che è tutto vero e non basta sia stato lontano per non colpire il cuore.

Non basta chiudere la casa, immergersi nei libri e nelle parole, spegnere la tv all’ora di pranzo, perché tra poco si vota, ci sono guerre in corso, un pianeta che si consuma per profitto.
Per vivere ricordo e guardo, in fila con altri che hanno la mia età, in attesa, che il tempo riporti l’amore e le cose al loro posto, lente e dolci come l’esitare davanti alla porta della pasticceria della vita.
Non basta ma del poco che ho imparato, perché è vero, potevo fare di più, penso che in questo mondo chi ha solo il tempo fa sempre lunghe file e dimentica ciò che non serve a vivere. E non è poco per la nuova stagione che chiede a tutti di fare il possibile da regalare al giorno che si costruisce, all’amore e alla speranza.

17 agosto 1917


Il 17 agosto era il suo compleanno. 17 anni li aveva lasciati nel secolo precedente e 17 nel nuovo. Era abituato a fare conti, confrontare numeri, vedere i risultati. I numeri erano curiosi a volte, ma non tradivano, si sommavano, sottraevano, dividevano, ma alla fine restava un numero che rappresentava qualcosa di univoco. Un dare e un avere. Lui pensava che doveva ancora avere molto. Aveva persone che amava, due figli, una moglie, un lavoro, una vita da vivere assieme, quindi i conti erano aperti, i numeri dovevano tornare.
Quella notte ci fu il trasferimento che era stato comunicato in giornata. Poche parole in italiano ripetute dagli ufficiali, verso i sotto ufficiali, e poi giù fino alle orecchie dei soldati. Le sue. Tra soldati parlavano in dialetto, il battaglione era stato costituito all’interno di due province vicine. C’erano anche altri che venivano da regioni diverse e parlavano altri dialetti, ma alla fine ci si capiva. Lui era abituato a capire lingue e dialetti differenti, parlava anche la lingua di quelli dell’altra parte dei reticolati, ma non serviva, non c’era molto da dirsi in linea, c’erano solo urli e sfottò. Ed erano meglio i secondi perché significavano quiete.
Venivano da un turno di riposo, dopo essere stati in linea dal 13 maggio al 23 luglio, sempre da quelle parti, ed erano stati dimezzati: 1806 uomini e 36 ufficiali morti. Poche centinaia di metri conquistati, erano passati da quota 224 a quota 247. Numeri che erano piccoli dossi e buche che lì si chiamano doline. Buche in cui si ammucchiavano vivi e morti, pietre e ordini, assalto e fortuna. Numeri. Si contavano muti, la sera, poi c’era la notte per pensare e la speranza che la sera dopo si potesse contare di nuovo.
Chissà cosa pensava ricordando maggio, giugno e luglio. I visi si confondevano, le persone e i fatti, tutto nel rumore degli scoppi, la corsa dell’assalto, l’acquattarsi nella dolina. Fare, sparare, correre e attendere la notte, non pensare, restare vivo.
Nei momenti di quiete ci si aggrappa a quelli certamente vivi, alla famiglia. Contava la famiglia e lui, lui e la famiglia. Vivo.
Durante il riposo e le esercitazioni si formavano gruppi, assonanze sociali, quasi parentele, ma sapevano tutti che erano su un crinale, vivere era questione di attimi, dipendeva da una coincidenza con una pallottola o una scheggia, dalla caduta di quello a fianco, dal caso.
Fino ad agosto riposo, meno di un mese e poi il 17, il giorno del suo compleanno, di nuovo in linea, immersi nel caldo torrido del giorno, con la pietra che si arroventava e lì c’era solo pietra. I pochi alberi erano stati spazzati via dai bombardamenti preventivi, i cespugli bruciati dai lanciafiamme. Pietre a pezzi, sminuzzate, frammiste a metallo di scheggia, reticolati, doline e trincee, teli sbrindellati e la comunanza di essere accalcati gli uni sugli altri. In attesa.
Il tempo si comprime e dilata, lì per giorni si caricava con la molla dell’attesa. Non passava mai ed era sempre corto, immediato.
La notte del 17 era fresca, come tutte le notti, si faceva sentire l’alito del vento del mare di Trieste che s’incanalava tra quelle valli strette, lambiva quei cumuli di pietre.
A luglio, dal colle di Sant’Elia, il mare si vedeva e sembrava così strano che laggiù ci fosse una vita normale, che le persone andassero al lavoro, a casa la sera, dormissero in letti normali, facessero l’amore, bevessero birra fresca nelle osterie e a cena accarezzassero la testa dei figli chiedendogli com’era andata la giornata. Li, anche se non formalmente, c’era la pace.
Il Papa aveva parlato di inutile strage per tentare di fermare la guerra, non c’era riuscito anche se i re e gli imperatori erano tutti cristiani. Ma poi quelle parole così comprensibili e adatte ai tempi non erano esse stesse una contraddizione: quale strage può essere utile?
Lui non pensava tutte queste cose, la notte del 17 agosto, sentiva che andava in linea, compiva gli anni, e sperava che quella pace poco distante nelle retrovie avrebbe potuto raggiungerla. Contava i giorni in cui restare vivo. Iniziava quella notte l’11.a battaglia dell’Isonzo, un numero palindromo. E bisognava conquistare quota 219 poi quota 246, la dolina della bottiglia.
Ma tutte queste cose non gliele dicevano, quando la molla del tempo si scaricava, usavano parole semplici: baionetta in canna, tutti fuori, all’attacco. Qualcuno gridava Savoia, qualcun altro moriva subito, altri correvano e i feriti urlavano. Col cuore in gola, sparavano e correvano, vivi, finché durava.
Era la notte del 17 agosto, compiva 34 anni, si chiamava Antonio, aveva due figli piccoli e una moglie e li amava tutti.
Restò vivo e li pensò fino al 22 agosto, in quattro giorni morirono tra quota 219 e 246, 1594 soldati e 67 ufficiali. Numeri, ma Lui fu uno di questi e il suo luogo convenzionale di morte fu indicato in quella dolina della bottiglia che ora non c’è in nessuna carta geografica.

ho paura

A parte gli occidentali ciechi e quelli ideologici, che tracciano una linea invalicabile tra bene e male, mettendo l’uno tutto da una parte e l’altro riservandolo ai “nemici”, penso che chi investiga un poco sul mondo in cui vive, abbia paura. Per i propri cari e per sé. Mai come in questo tempo si sono concentrate e intrecciate minacce globali che esigerebbero approcci in un clima di equilibrio cooperante. La devastazione climatica del pianeta, la pandemia in atto, le guerre in corso e in particolare la guerra in Ucraina sono tre problemi che si rafforzano l’un l’altro. Il clima è passato in secondo ordine e sembra sia un problema di auto eletttriche mentre le centrali per produrrre energia hanno ricominciato a bruciare carbone e olio pesante. La pandemia risorge in estate, cosa che nessuno aveva previsto ma se si va a spulciare quanti vaccinati ci sono nei paesi poveri, si scopre che un miliardo di dosi di vaccino promesse non sono state consegnate ed è il 50% di quello che doveva essere dato per arginare varianti e malattia. Ora la malattia viene considerata una affezione ordinaria che ha vincoli contro il contagio basati sulla buona volontà o timore delle persone. Poi la guerra in Ucraina ha messo in luce che il mondo non è così in equilibrio come si pensava e che non bastano i commerci e la globalizzazione per definire scambi e interesse alla pace. La NATO modifica la sua strategia e diventa soggetto globale di difesa per gli aderenti, ma anche di offesa se questa si intende come eliminazione di una minaccia. Per far aderire Svezia e Finlandia che venivano rifiutate dalla Turchia, vengono dalle prime, firmati impegni a consegnare esponenti del PKK Curdo, considerati terroristi dalla Turchia. Basterebbe pensare a quanti peana sono stati indirizzati allae donne e agli uomini delle forze Curde nella lotta contro il Califfato per rendersi conto che viene sacrificato un intero popolo a cui dovremmo essere solo grati per il sangue versato.

Quello che si fa strada in occidente e nella pallida Europa, che rafforza i suoi armamenti e non esercita un proprio ruolo di pace, è un relativismo sulle questioni che contano e sugli equilibri necessari perché vi sia un mondo pacificato. Anzi circola una sorta di rimozione o indifferenza sulle dichiarazioni per la presunta necessità di una guerra globale per stabilire il predominio dell’occidente. Altri, che si ritengono realisti, teorizzano nuovamente l’equilibrio del terrore come negli anni 50 e 60, ovvero il fatto che nessuno userà l’arma nucleare perché sarebbe la fine per tutti, ma non solo l’incidente, bensì l’addensarsi delle minacce unite all’indifferenza, diventano esse stesse fattori di possibile deflagrazione di un conflitto nucleare. E’ come fossimo tornati nella primavera del 1914 quando le capitali europee si interessavano delle novità della tecnologia e dei nuovi balli mentre si preparava il conflitto globale. Il ruolo della Gran Bretagna in questa visione che sceglie altre vie rispetto a quella diplomatica per la soluzione del conflitto, fa sparire i problemi della Brexit e l’instabilità governativa di cui gode dopo l’uscita dalla U.E. anzi detta a quest’ultima l’agenda delle azioni e delle priorità. Si dirà che i principi, l’autodeterminazione dei popoli vengono prima di ogni altra cosa e con essi la piena sovranità, sarebbe interessante scavare su questi diritti che valgono per alcuni e non per altri e di quale sovranità godono i governi e gli Stati che sotto il ricatto economico e/o quello dei vincoli dei trattati firmati in ben altri contesti, sono a sovranità comunque limitata. Può ben testimoniare la Grecia di cosa stia parlando, dopo la cura della Troika. Comunque la si pensi, l’euforia che circola è ingiustificata e ognuno dei problemi evocati è suscettibile di provocare disastri di migrazioni o peggio.

Alla conferenza di Vienna sulle armi Nucleari (ICAN Nuclear Ban Forum) di 15 giorni or sono, oltre alla necessità di mettere al bando ogni ordigno nucleare e lo sviluppo di queste armi è stato evidenziato dalle relazioni degli scienziati sulla guerra nucleare che queste non lasciano scampo né immediatamente né nel tempo con “l’inverno nucleare” che farebbe morire di fame chi fosse scampato alle esplosioni e al fall out radioattivo. Eppure la rilevanza che è stata data a questi 65 Paesi che chiedono di togliere questa minaccia aper l’intera umanità dagli arsenali, è stata marginale rispetto alle altre notizie sui media.

Questo ancor più mi convince di un clima di indifferenza o peggio di un preferire che le questioni siano risolte per via bellica. Trovo fuori di ogni ragione che questo accada e che non si faccia ogni sforzo per riattivare la via diplomatica alla soluzione dei problemi, che oggi riguardano apparentemente l’Ucraina, ma in realtà trattano del riconoscimento di potenza nel mondo dei tre blocchi che si sono formati in questi anni a partire essenzialmente dal 1991. Per questo scivolare in una logica di guerra, ho paura e ormai basta un nonnulla perché vi sia l’inizio di una reazione a catena. Poi il tanto peggio diventerà tanto meglio per chi avrà l’illusione di salvarsi.

Pensiamo a un mondo in cui non vi sia cooperazione, che vada verso il conflitto e chiediamoci che libertà potranno esserci in “democrazie” vincolate al pensiero unico? Quali economie e che progresso potranno essere usati per risolvere i problemi del clima e delle nuove malattie, Forse i luoghi più disgraziati saranno risparmiati, forse l’inverno nucleare e il fall out si dimenticheranno in una distopia inane delle parti meno accessibili del mondo, ma la specie farebbe un balzo indietro immane.

Anch’io ho un sogno e spero, vorrei, che Biden, come presidente degli Stati Uniti e leader dell’occidente chiedesse alla Russia e alla Cina di stabilire un equilibrio, che le armi in Ucraina tacessero e cominciasse il negoziato. Questo è quello che non avvenne lo scorso secolo, solo che ora non basta l’Europa, c’è il mondo che deve essere riequilibrato. Continuo invece a sentire i perenni giustificazionismi di una politica di potenza e predominio spacciata per libertà e questo mi fa capire che la discesa è cominciata.

E ho paura.

il vaso dell’orrore non si colma

Da qualche giorno i telegiornali li guardo di sfuggita, ho la sensazione di un’informazione che scivola nell’eccesso e poi nel pornografico. Era già accaduto con il covid, che esiste ancora ma ormai si fa finta di niente, prima ancora c’era stato il mostrare altri profughi e un altro cimitero fatto di barconi affondati e acqua. Esiste ancora, ma non fa notizia. Ancora prima le scene dell’aeroporto di Kabul, le notizie di eccidi, ancora immagini terribili e pornografia dell’orrore che rende la morte qualcosa di distante, privo di significato umano. Tutto è ancora in corso ma non fa più notizia come accade allo Yemen e alla peggiore catastrofe umanitaria per uomini, donne e bambini del nuovo millennio. In Yemen c’è una tregua di un mese, la notizia è stata data con pochissime parole e alla fine di un telegiornale. Questa incapacità di reggere i telegiornali nasce dal fatto che per giorni ho sperato che la guerra finisse, che l’orrore non fosse tale, che non fosse uno schierarsi di esperti e tifoserie. Speravo che si ritornasse al tema, ovvero che le morti derivano dalla cecità di chi non pensa che una guerra ha come effetto collaterale, la morte del nemico e dell’amico, dell’innocente e del reo. Poi ho capito che non era la guerra la notizia, ma che era riemersa potente la ferocia, l’istinto a uccidere e distruggere, ciò che sembra non avere valore: la declassificazione dell’umano a cosa.

Questo mi rende consapevole, se ce ne fosse bisogno, dell’assoluta malvagità della guerra, dove l’eroico non esiste in quanto esso stesso portatore di morte, mentre predominano gli atti di ferocia che essa porta con sé. E ancor più mi rendo conto che dietro ogni vita spezzata c’è una responsabilità: poteva non accadere e non è frutto del caso. Questo non mette tutti nello stesso piano, chi intenzionalmente uccide è certamente malvagio, chi si difende è trascinato in qualcosa in cui la sua capacità di bontà è fortemente ridotta. Quello a cui non riesco a togliere il pensiero, è la vita spenta di chi non c’entra, ucciso accanto a un cartoccio di cibo e una bicicletta, col suo pensiero interrotto per sempre, gli affetti recisi, e tutto questo nell’indifferenza con cui ciò è avvenuto.

La somma di ciò che sentiamo, affetti, desideri, progetti, amori, vita è uguale ovunque e quando essa viene spenta si crea un vuoto che nessuno può riempire. Neppure il pentimento o la responsabilità. Per questo la mano che spunta tra la polvere, i corpi buttati come fagotti e lasciati per giorni nelle strade, gli stessi soldati uccisi da un cecchino o bruciati in un carro armato, devono riportare la guerra sui sui effetti sull’uomo.

Di queste persone, chi pensava per davvero che la vita potesse finire in quel modo e quelle persone su cui indugia l’obbiettivo, due mesi fa avevano altri progetti, attese, pensieri, speranze. Neppure dieci minuti prima di morire, lo pensavano anche se ormai erano preda della paura, cercavano di farsi coraggio e di avere speranza. Innocente è colui che non solo non ha colpa ma che si fida dell’umanità altrui. Per questo ci sono morti che pesano di più, perché contengono la fiducia nel vivere. Adesso è tutto un dibattere sulla tecnicità, sull’efferatezza dei crimini, come se una scheggia o una sventagliata di mitra fossero tollerabili. Ciò che non si vuol capire è che scompare la vita e quello che essa contiene, una vuoto che non potrà essere colmato. Chi è per la pace, non è equidistante e soprattutto non è insensibile alla vita. C’è un aggressore, una responsabilità, un aggredito che si difende, ma ciò che non dobbiamo scordare è che sono le vite a contare, che non si cancella un futuro senza che vi siano dolori immani e conseguenze che mutano il corso delle famiglie e delle loro storie. Questo è il tema vero: gli uomini non sono mai numeri e tantomeno oggetti. Ogni vita che è stata troncata conteneva un futuro, come ogni umano desidera sia per sé. Un futuro che le immagini non evocano, perché si pongono il fine di suscitare l’orrore non di far pensare e di provare dolore. L’orrore non ha un avvenire, spesso diventa voyerismo e non cambia gli uomini, solamente li incattivisce e li rende insensibili. Pensate alle tante immagini iconiche che si sono succedute in questi anni: quanto ci hanno cambiato? Bisogna tornare all’uomo e al valore della vita, perché sono necessari per convivere e si sono persi entrambi . Anche dentro di noi abbiamo lasciato che la distanza rendesse meno tragico ciò che accadeva, che i morti e le torture altrove, gli effetti collaterali fossero tollerabili.

Uscire dalla guerra ora è una necessità per non moltiplicare l’orrore, ma uscire dalle giustificazioni della guerra è un processo che è personale e collettivo, una consapevolezza comune che la considera come un male assoluto perché è assoluto ciò che provoca. Per questo non basta schierarsi, ma capire che eradicare la guerra riguarda tutti, chi è in guerra e chi la guarda.

4 novembre

Pubblicato su willyco.blog 3 novembre 2015

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L’ auto s’inerpica nella sera, le curve si susseguono, i fari illuminano case spente o alberi fitti come palizzate. Gli alberi sono alti e giovani, due guerre hanno eliminato la storia dei boschi antichi e l’immensa distesa che riforniva la Serenissima di pennoni e fasciame per le galee. Per curve ripide, si sale, e il bosco circonda il sasso e l’asfalto, fino alla spianata dei cimiteri, dopo la strada prosegue senza più case. Fino in cima. Qui combatterono a lungo fanti che venivano da regioni lontane rispetto all’altopiano di Asiago. La brigata Liguria perse 2000 uomini in tre giorni, una carneficina, ma tenne l’urto della Strafexpedition. Qui erano loro a resistere e a Castelgomberto, la brigata Sassari. C’è una piccola cappella, che adesso i fari illuminano, poco oltre il cimitero inglese e quello italiano, con i caduti di entrambe le parti.

La strada adesso è più accidentata e ripida, c’è un silenzio che sospende la luce nell’aria, fino alla cima. Dove c’è oggi una malga e un allevamento di maiali, c’era il comando della brigata. La vista sull’altopiano è magnifica. È immerso nelle nubi, con i monti del Trentino a far da sfondo, e il chiarore del tramonto che scema rapidamente. Penso a ciò che vedevano quegli uomini nei pochi momenti di calma: attorno gli alberi spianati dalle artiglierie pesanti, ridotti a moncherini fumanti, le petraie e i prati che scendono a precipizio verso Cesuna.

Non c’è nessuno stasera, anche il finto rifugio illuminato, è vuoto. Torno fuori e guardo la distesa di nubi che scurisce, le prime piccole luci, i segni di vita delle strade. Il silenzio continua. Cosa sentivano i fanti, oltre gli scoppi, gli ordini concitati, i fischi dei projettili in arrivo ? E chi assaliva, gli Alpenkrieg tirolesi, cosa sentivano? L’epoca dei fatti è il maggio 1916, l’Italia non è ancora entrata in guerra con la Germania, il generale Cadorna, pur ripetutamente avvisato di una spedizione in preparazione da parte degli Austriaci, non dà peso alle informazioni dei disertori. Persino agli ufficiali nemici non crede. Poi dal 15 maggio si scatena l’inferno, al solito mancano gli ordini e una chiara visione della battaglia. Viene spesso ordinato di morire per carenza di seconde linee. Così nascono le leggende sul monte Cengio, il salto del granatiere, i suicidi dei volontari trentini o giuliani. Chi viene catturato farà la fine di Battisti e di Filzi. Se la spedizione austriaca riuscisse, sarebbe il disastro, presa Vicenza, poi Padova, Verona, Venezia. Gli austriaci avrebbero la pianura e la guerra vinta. In quei giorni l’altopiano viene evacuato, con la triste sorte degli esuli, portati distante, confinati e guardati con sospetto. Cimbri, todeschi, solo gente di confine, ma visti come possibili nemici: erano donne, adolescenti e bambini, più di 20.000. Agli altri, evacuati dagli austriaci, andò peggio, morirono in tantissimi, per fame, malattie, freddo. Si può morire di freddo dentro una baracca? Sì, soprattutto i bambini.

Nell’aria c’è il profumo dell’autunno: un po’ di fumo lontano, le foglie dei faggi che iniziano a marcire, la terra che esala vapori. È tutto così calmo. Gli animali tornano dal pascolo, lenti, i campanacci agitati nelle ultime brucate d’erba grassa, ma sono pochi, la transumanza c’è già stata, queste mucche e vitelli sverneranno qui.  A fine giugno del ‘916, il 27, finì l’offensiva, le parti si trincerarono e cominciarono gli attacchi alla baionetta per pochi metri. Ci sono molti nomi che troviamo nelle nostre strade e che fino allora erano luoghi da pascolo e bosco, Ortigara, monte Cengio, Melette, ad esempio, luoghi di macelli insensati per pochi metri, guadagnati e persi per puntiglio. C’era chi non capiva, ed era la maggioranza, il perché di tanto uccidersi. Lussu ne ha parlato con una prosa sommessa e forte, senza epicità, e in molta letteratura di guerra vissuta questo non capire, emerge, poi ci sarà il mito della guerra santa propagandato da chi non l’aveva fatta.

Con una terra di nessuno breve, le trincee a tiro di voce e tanti morti, c’erano diserzioni dall’una e dall’altra parte. A questo penso e guardo la luce, che ora è un biancore rosato e segna alberi e cime con la precisione del nero, come volesse ritagliarli e poi ricostruirli su un tavolo: un gioco da bimbi prima di cena. Ma è solo bellezza e qui nessuno giocava.

Mi torna a mente un episodio di quei giorni. Qualcuno di una compagnia dell’89° fanteria, durante l’ennesimo, inutile assalto, pensa di consegnarsi durante un attacco. Di arrendersi, insomma. Il comandante del corpo d’armata, viene informato e fa bombardare la compagnia, che ancora combatte, uccidendo innocenti e disertori. Poi non sazio dell’esempio, da tutta la brigata Salerno fa estrarre due uomini per compagnia e li fa fucilare. Anche dai reparti che avevano combattuto con eroismo, anche da quelli che erano a riposo. Il comandante della brigata, che protesta, viene minacciato di essere fucilato entro 10 minuti se non procede con le esecuzioni. Alle 18, quest’ora, 48 innocenti vengono fucilati. Orrore nell’orrore.

Cosa avranno pensato, e capito, i fucilati e i loro compagni? Ci sarà stato trambusto, protesta, paura, pianti, un divincolarsi inutile, poi la catatonia di chi non capisce e il silenzio che precede le esecuzioni. Non ci si chiede mai cosa passi per la testa di chi è oggetto di un’ ingiustizia assoluta. Se esso pensi che tutta la sua vita sia stata inutile di fronte a ciò che subisce, se ciò che ha costruito, l’amore provato sia sbagliato per un mondo che non lo vuole. Avranno pensato che la nazione, lo Stato per cui tante volte hanno rischiato, per il quale hanno patito fame e paura, adesso disponeva di loro per capriccio, per dimostrare una forza cieca uguale a quella del nemico che uccideva in battaglia. Ma almeno il nemico non li chiamava per nome, gli lasciava una possibilità di difendersi, poteva anche solo ferirli, lo Stato, no, li uccideva e basta. Per dare esempio di una forza così bruta e ingiusta da non avere possibilità d’essere capita. Impossibile racchiuderla in una logica di vita, era solo morte. 

Valeva allora e vale anche adesso questo pensiero che si oppone alla sofferenza delle vite che si sentono sconcluse, uccise due volte. Anche quelle che la sorte ha risparmiato, vengono uccise nel vedere la morte gratuita, l’ingiustizia perpetrata. Penso che se ci fosse una giustizia, questa dovrebbe emergere dall’analisi del suo contrario, dall’esame dell’arbitrio. Il disertore, il ribelle dovrebbe dire qualcosa e invece li si circonda di ignominia per non parlarne. Questi uomini furono esclusi dai monumenti ai caduti. Eroismo, paura, coraggio, scelta, in una ragione alta ci sta tutto perché l’uomo contiene tutto e qualcosa sempre tradisce.

Mio nonno morì l’anno dopo, in una dolina vicino al San Michele. Era agosto, erano i giorni del suo compleanno, era giovane e aveva moglie e due figli. Chissà cosa pensava dei tedeschi che di lì a poco avrebbero sfondato a Caporetto. Erano quelli che gli avevano dato agiatezza e lavoro, quando era emigrato. Parlava la loro lingua, ma era italiano. Era bastato questo per farlo rimpatriare e poi arruolare.

In questa sera, che ormai è notte, chi ha ragione è il silenzio. È un vuoto che non si può riempire. Non ragiona, afferma.

Credo che il sacrario siano queste nubi, questa luce, queste montagne, questi boschi che non appartengono a nessuno, eppure sono stati vissuti, riempiti di speranze, di desideri, di grida e dolore. Loro e il silenzio ci chiedono qualcosa: perché?

Queste righe volevo titolarle: decimazione. Poi ho pensato che la decimazione viene praticata non solo sui campi di battaglia, ma che è il non distinguere, è la cecità dell’esempio che non esemplifica. È solo forza con una ragione presunta e debole che non motiva chi resta, fa solo paura. Ho anche pensato che i generali non li decimano mai qualunque errore facciano e per quanti morti inutili ci siano. La decimazione sta intorno a noi, basta riconoscerla.

se non ora quando?

Un secolo è passato invano, quello breve delle ideologie e dei grandi massacri. 75 anni fa era subentrata una speranza collettiva: ci credevamo immuni, ma era solo perché guerre, stragi, genocidi, epidemie avvenivano altrove. Abbiamo sperato, ci siamo illusi che la cognizione di ciò che distingue umano da inutile ferocia fosse più avanti dell’effettiva sensibilità comune. Non era così e allora ci siamo vaccinati al condividere e si è ritornati al si salvi chi può.

Oggi lo stesso privilegio della forza detenuto dallo Stato assieme all’esercizio della giustizia viene messo in discussione. Certo, ci sono reazioni potenti, c’è il rifiuto all’omologazione, delle fake news come verità, ma siamo tutti più sconcertati e più deboli. Se c’è un luogo dove la complessità dovrebbe sparire assieme agli infiniti distinguo è su ciò che è umano e ciò che non lo è, su ciò che giusto e ciò che è ingiusto.

Scegliere o l’ una parte o l’altra, perché l’infinito distinguere già ci colloca fuori dal tempo necessario, dalla storia nel momento in cui si fa. Onorare oggi l’uomo significa applicare al futuro la memoria, rendere il male non banale, esecrabile quando esso viene commesso non dopo. Senza grandi pretese far sì che il bene sia normale e perseguibile. Oltre non è possibile attendere perché ogni varco, ogni pensiero che spera in palingenesi senza volontà, è ignavia. Questo ho capito quando mi spiegavano la Shoah, quando le ragioni delle vittime erano disperse tra la ferocia banale degli aguzzini e il discolparsi collettivo di chi si era girato dall’altra parte. Si è parlato dei milioni di morti, 6 milioni Ebrei, altri 5 erano Rom, dissidenti, omosessuali, comunisti, portatori di handicap, ma delle vite di ciascuna di queste vittime, della loro negazione che cominciava in una catena di norme, delazioni, arresti, traduzioni, torture, dove ognuno dei passaggi era gestito da uomini, non si è parlato. Vite e possibilità negate, tolte con un arbitrio che non aveva alcuna giustificazione e invece tutto si è annullato. I destini di queste persone e il ruolo di chi l’aveva cancellato. Solo rendendo normale la ferocia si trovano le giustificazioni e le assoluzioni conseguenti. Ed oggi che questo si riaffaccia pensiamo che il male non riguarda solo chi assiste ma anche chi è oggetto di persecuzione, di discriminazione, di odio. Le cose sono semplici ed essere solidali è condividere un pensiero che riconosca in ogni uomo, l’uomo con i suoi diritti, doveri, diversità.