un mandala fatto di silenzi, di gesti, di parole

Le parole giuste sono quelle che hai dentro, quelle che non dici per timore che vengano fraintese e quel tacere costretto è educazione appresa, inculcata senza possibilità di replica, non libertà d’essere.
Allora scegli di scrivere anziché parlare, ma le parole si piegano alla sintassi e diventano altre. Così generano insoddisfazione e non corrispondono a quelle che hai dentro. Sono irte di significati spuri e devono essere levigate, con pazienza, come fa il mare con la pietra e il legno, con le sue creature fino a ridurle in pulviscolo d’anima. Questo è il sentire del mare e tu il mare lo possiedi e ne hai la pazienza operosa. E se a volte sei stanco e tutto sembra inutile, parla dopo il silenzio che osserva. Taci e prendi appunti sulla carta, guarda il segno e la parola, rendila morbida nel tracciare, per non snaturare quel che provi. Questo sarà il tuo ormare un nuovo lessico per quando deciderai di parlare. Un dire che parla con i gesti, che fa quello che più t’assomiglia, anche in silenzio perché basta l’alzare di sopracciglia o il morbido posare della mano aperta, per dire ciò che è stato pensato.

Guarda i gesti gentili, consueti, del vestirsi con cura e leggerezza. Pensa che sono stati prima appresi e poi cambiati e fatti propri, sono parte di una meditazione, di un verseggiare muto che si modifica per sovrapposizione, sino al risultato. Un mandala composto su di sé per portarlo tra altri, o solo per sé, e come sempre da disfare e ricomporre all’infinito.

Scrivilo questo mantra aperto alla tua anima, fa che rappresenti te stesso e che aggiunga parole e gesti, secondo i giorni. Che sia un poema che non finisce e che reciti sottovoce quando la solitudine prende il posto della leggerezza.

Scrivi con tutto te stesso, con la parola, il gesto, l’abitudine consapevole, vesti la tua anima di te.

omeostasi

“Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità”
Romain Gary

L’omeostasi ovvero il nostro muoversi verso ciò che permette la vita include dove e ciò che siamo, come lo sentiamo, chi siamo. Tutto separato e frammischiato come si pescassero i numeri dal sacchetto della tombola perché il gioco è unico come il suo fine. Per il corpo è importante stare bene, per lo spirito o la mente, meno ma star male non piace all’omeostasi. Quindi tutto si tiene, si conserva e si evolve e del passato si può parlare bene anche solo per il fatto di essere vitali e attempati.

Però di quegli anni le parole non danno misura, sono immemori della dimensione dei giorni e delle notti, delle passioni che le animavano e le rendevano brevi e infinite di connessioni continue. C’era una dolcezza diffusa, anche i profumi erano diversi, e questo manca, come la reversibile pazzia degli unici amori, delle attese senza fine, del palpitar sognando. Su tutto imperava una agitazione allegra che faceva cantare con la voce e con il corpo. Il tempo non passava mai e sfuggiva tra innumerevoli impegni, doveri, piaceri.

Difficile dire a posteriori che si era felici, ha ragione il poeta, ma la quantità di sensazioni che si ottenevano vivendo era smisurata. Prima tra tutti la consapevolezza di vivere un tempo irripetibile che ci mutava in persone differenti da prima di allora.

Imprudenza nel credere e nel lasciarsi prendere, eppure L’omeostasi funzionava, ma gli scenari che traccia vano le sensazioni nella mente erano così ricche e alternative da considerare vitale la vita complicata, l’assenza, la delusione assieme all’innamoramento, alle felicità improvvise, le presenze totalizzante.

L’età matura fa emergere l’intelligenza della conservazione, porta verso il caldo, il buono, il dolce ma con parsimonia d’entusiasmo, è questo che permette le vite e scatena altri scenari dove le sensazioni oscillano tra il ricordo e un nuovo legato al possibile.

La linea del possibile è la misura di ciò pensiamo di noi e su questa linea danza il tempo nostro.

imparare il silenzio

Imparare il silenzio quando si posseggono le parole
“Prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire” ” Heidegger”

Quando non si vuole rispondere a una domanda si parla di cose inerenti, interessanti, ma d’altro. Forse quella domanda non ha risposte in noi, eppure ce la siamo posta, magari da sempre la evitiamo perché affonda nel buio e il buio fa paura. La domanda resta, la si può coprire d’altro, anche per sempre, ma condizionerà a suo modo la nostra vita. Se è una domanda sui sentimenti, farà fare qualche omissione, dirà mezze bugie fino al suo esplodere o soccombere nell’implosione dell’impotenza affettiva, e allora devierà risposte e attese, fino ad essere consumata dalla vita.

Per questo il silenzio dovrebbe preparare la verità che deriva dall’ascolto e dalla comprensione che muta, non essere il modo per fuggire da sé e dagli altri. Per questo silenzio serve apprendere e l’umiltà di ascoltare.

mozziconi

Nella vaga ebbrezza d’un sigaro,
ondeggiano parole,
e nel loro farsi storia raccontano,
improvvise passioni che
esplodono in possibilità:
lì c’è l’annodarsi del refe delle vite,
di ciò che s’è fatto e ciò che si farà.
Così l’usuale, il banale,
persino l’utile
sembrano ciò che sono: insufficienti
alla piccola gloria sognata, e persino al farsi quotidiano che si perde,
appena oltre le grida dei giochi,
al borbottare vagamente apprensivo tra i tavolini
e nel sorso delle bibite che imperlano i bicchieri e lasciano una goccia alla piega delle bocche.
Come in un film di Chaplin giovane,
a terra un mozzicone attende chi finirà l’ebbrezza,
perché la storia non si chiude,
ma sboccia altrove.
Del sonno e dei sogni bisognerebbe esser degni,
non accampare stanchezze,
per dare necessità al presente e alle vite.
Togliere a sera il rimorso lieve dell’uggia del non fare che in silenzio consuma.
Tra l’erba esausta dal troppo sole,
di che parla il nostro cuore,
a chi si rivolge
mentre attorno tutto scivola
e smotta nella sgraziata postura d’una frana.
Cos’è questo attonito equilibrio che raccoglie principii, desideri, ideali
in un’immensa discarica?
Sembra prevalga solo un piccolo interesse, scompare il ricordo del mutare assieme
nell’attenzione d’un momento,
e persino l’incapacità d’affrontare la fatica di negare,
di dire di sì all’amore:
no, non era questa la vita che avremmo voluto.

ciò che si riesce a dire è sempre incompleto

Fuori l’aria s’ è riempita di piccole infiorescenze. Questo annuncio d’estate porta profumi intensi e notturni, la stagione del tiglio è tornata. Le stagioni erano prevedibili ora sorprendono sempre, e sono diverse perché assieme mutiamo. Un tempo i tigli erano un’ondata di profumo per le passeggiate serali e poi una poltiglia scivolosa che attendeva la cura degli spazzini, adesso sono un piccolo segreto che non si condivide. Ricco di sottigliezze e sensazioni. È il tempo vissuto che fa questi scherzi. Scorrono le nostre piccole virtù e con esse le abitudini a cui con l’età è difficile rinunciare tanto esse ormai coincidono con noi. Anche nelle persone che si amano ci sono aree di fatica, sordità e cose scontate. In fondo ci conosciamo col limite della curiosità e non siamo obbligati ad essere costantemente aperti e curiosi. Le passioni, dopo il tempo in cui tutto sembrava sovrapporsi, divergono. Non vanno distante, come per i bimbi che sperimentano le loro indipendenze, restano a tiro di voce e ogni tanto gli occhi si alzano e cercano il corpo noto e amato. Così non si parla di ciò che si pensa annoi o non sia sentito con altrettanta passione: forse è questa la stanza tutta per sé di cui si sente la necessità, anche se c’è disillusione se la porta non viene mai bussata.

Chissà che significano per gli altri le cose a cui dedichiamo tempo e attenzione. Mi sono dedicato per anni a mestieri come la politica, irti di spinosità e rade soddisfazioni, cosa emergeva delle notti insonni, delle piccole vittorie, delle immani cadute, quando ciò per cui avevo lottato, naufragava. Ogni sconfitta era un raccogliersi. Un dirsi che ci sarebbe stato altro tempo, che esso mi/ci avrebbe dato ragione e intanto passavano gli anni. Si poteva pretendere che il mondo a me/noi più vicino stesse fermo, che attendesse? No di certo, eppure nella sconsideratezza che accompagna ogni passione, la rende grande a noi e la giustifica, quell’irrazionale attesa da qualche parte c’era e doveva ogni volta essere rintuzzata, ricondotta a ragione.

Così ci si abitua a capire che le vite proseguono parallele e si toccano comunque, e nella sublime geometria dei sentimenti ciò che è separato non lo è mai davvero o del tutto. C’è un incomunicabile amoroso che rispetta e lascia crescere, guarda e anche quando non capisce bene l’importanza, accetta e lo mette sotto il nume tutelare della fiducia. Anzi ne fa materia sorridente, specificità d’un rapporto. Questa credo sia l’incomunicabilità fisiologica del non dire ciò che si agita dentro e che non ha voglia di raccontarsi perché neppure lui davvero si capisce, ma vorrebbe essere capito, ma pure viene ( a volte) accettato. E nulla di questo ha a che fare con l’indifferenza, sino alla consapevolezza che ciò che si riesce a dire è sempre incompleto (e a suo modo esaustivo).

la pazienza del ragno

La strategia del ragno si basa sulla capacità che questo ha, di attirare il caso. Attende paziente, come il pescatore, che due eventualità consumino le probabilità remote e coincidano. Accade in ogni evento che noi definiamo trovarsi per caso nel posto giusto o sbagliato nel momento giusto o sbagliato.

Accade anche in amore che una rete di fascino si stenda attorno a noi o ad altri, che ci sia fiducia e impaziente attesa, poi qualcosa avverrà. Gli incontri possono coincidere oppure andare per loro conto. Pareva, sembrava, non era. Pensiamo a quante traiettorie non si intersecano, quanti destini migliori non avvengono, eppure c’è una paziente opera di un caso maggiore che sovrasta e coordina il nostro piccolo caso e tiene assieme le matassa di coincidenze positive che manda avanti il mondo e assieme a esso, manda avanti speranze e buoni accadimenti.

Il nostro piccolo caso è un buon venditore, fa luccicare e rende dolce ciò che è difficile, toglie le difficoltà e mette nell’ebbrezza del volo tutto il piacere che poi procurerà l’incontro e il suo evolvere. Stravolge il tempo, vive e non progetta, costruisce l’inimmaginabile.

Ci mostra la meraviglia dell’ avere una padronanza del proprio tempo, di ciò che si sente, e al tempo stesso esserne più o meno dolcemente sopraffatti e in balia.

Anche al ragno il caso non sempre arride, per lui è questione vitale, non si perde d’animo, riprova, ma ciò che lo rende debole è l’abitudine, il seguire sempre gli stessi percorsi. E ancora una volta ci assomiglia nella coazione a ripetere. In fondo abbiamo bisogno di certezze e di cambiamento e che il caso, la volontà o la voglia li mescolino per bene e rendano nuovo ciò che incessantemente accade.

una sera in Barbagia

Una sera c’erano tutti i tavoli pieni. Qualcuno aspettava in piedi che chi aveva finito di cenare se ne andasse. Le sale erano più d’una, risuonavano di voci in più lingue e tra queste c’erano quelle di casa, il sardo nuorese e il campidano. In fondo alla sala principale, al centro, c’era un grande camino con gli spiedi infissi nella brace. Noi eravamo in un tavolo di quercia vicino al fuoco, i volti accesi dal calore e dal vino, le parole rade, i piatti colmi. Ascoltavo quello che non capivo, la musica delle parole che si fondeva con i profumi. Mi traducevano e raccontavano delle pecore che si portano al mare per disinfettarne le mammelle con l’acqua salata dopo una transumanza lunga e aspra. Erano gli stessi tratturi difficili che avevo visto e seguito, abbarbicati su una roccia alta. E il mare sotto che avanzava e si ritraeva schiumando, riempiendo grotte e trascinando sassi. Un rumore di cuore profondo e di respiro. E chiudendo gli occhi in quella sala, assieme al profumo del mirto, sentivo il salso vicino, e le voci che andavano e venivano cullando.

Mi manca la Sardegna, la solitudine e la piccola paura nel percorrere molta strada da solo, senza apparentemente nessuno. Mi mancano gli amici, i sapori forti, il canto spontaneo dei cori a cappella che dialogavano tra tavolate. Mi manca il rumore del mare sotto casa, il buio che circondava le case isolate, il cielo così colmo di stelle che solo in montagna e in Africa l’ho visto eguale. Nulla è come l’ho lasciato, ma mi manca comunque. Persino le birre ghiacciate bevute a tarda mattina nei bar di periferia, ascoltando i ragazzi senza lavoro parlare di continente, come fosse una meta vicina e benevola. Neppure li dissuadevo, sentivo la loro forza di andare.

In pochi luoghi mi sono così sentito un viaggiatore antico, accolto e tenuto per mano. E in pochi altri luoghi ho sentito fondere insieme l’uomo, la terra, il bisogno e la fierezza d’una cultura antica e forte.

cuori lasciati a sé

La terra, le stoppie tinte dal sole rosso radente:

su questa terra c’è attesa,

il soverchio ha spezzato in profondità, ma il nuovo non è giunto,

c’è solo il freddo di bora che sposta foglie pesanti di fango.

Case attorno ad alberi e boschetti di pioppi

s’affacciano su pozze ghiacciate senza grida di bimbi,

I buoni borghesi celebrano ludi carnali in case di coccio,

qui c’è pietra di fiume, pelle ruvida di lavoro e zuppe fumanti,

vampe di legna, profumo nell’aria d’inverno.

Nei passi pesanti di ricordo il fango semina,

ma non lascia traccia in questo suolo

gelato di cuori lasciati a sé.

limitare

Limitare i sentimenti, deviarli, portarli in un angolo dove possano essere maneggiati. Racconta la psicoanalisi che il bisogno e la sua soddisfazione recingono i sentimenti in un luogo accessibile e ripetibile. I sentimenti tendono a dissociarsi dal desiderio e legarsi prevalentemente ai bisogni. È la gestione omeostatica dei sentimenti, che esclude l’imprevisto dell’eros. 

È tutto così maledettamente complicato, interconnesso. Ci mancava la dimostrazione che gli atomi gemelli risentono del cambiamento dell’uno e dell’altro, indipendentemente dalla distanza che li separa. Entanglement si chiama e non è un fenomeno ma una proprietà: che esista un’anima della fisica?

E quella degli umani, che solo a fatica sentono, che guardano minacciosi altri umani dietro un filo spinato, dove la collochiamo?

Limitare, confinare, sperare che arrivi da dentro un salvatore. Uno che ci conosce oltre il conosciuto, che sa dove iniziamo davvero..

Michele Strogoff quando viene accecato con il ferro incandescente piange, non trattiene la paura e salva la capacità di vedere. Chi si lascia andare all’emozione, chi non vuole dimostrare nulla e accetta la propria natura, ciò che sente, conserva lo sguardo.

È questo il pericolo maggiore che si corre nel voler ricondurre tutto al compatibile: la cecità.

Sul limitare, sulla soglia c’è il passaggio, il pericolo di cadere, l’inconosciuto. Nel superare la soglia il rischio del mutare, dell’essere mutati, di superare la nostalgia dell’innocenza, di andare oltre in una nuova sconosciuta innocenza.

different posted on willyco.blog 28 ottobre 2016

si pensa che la pazienza non sia dinamica

Si pensa che la pazienza non sia dinamica

che essa semplicemente attenda,

non è così

quella che non muta è la curiosità,

ma è come un fuoco di cerino, si spegne e al più scotta le dita.

La curiosità si spegne in fretta secondo te?

Sì, con l’oggetto del desiderio

che deve diventare soggetto se vuole permanere.

Sei imprevedibile.

Non è vero qualcosa immagino, qualcosa so, qualcosa prevedo,

vedi, anche se non ho certezze

il dare solidità ai desideri crea certezze,

hai mai pensato come un desiderio liquido

denso

corposo, solido, piantato per terra,

e poi gli hai dato un nome:

quello.

E già era cosa,

ecco che serviva la pazienza per raggiungerlo.