
Le parole giuste sono quelle che hai dentro, quelle che non dici per timore che vengano fraintese e quel tacere costretto è educazione appresa, inculcata senza possibilità di replica, non libertà d’essere.
Allora scegli di scrivere anziché parlare, ma le parole si piegano alla sintassi e diventano altre. Così generano insoddisfazione e non corrispondono a quelle che hai dentro. Sono irte di significati spuri e devono essere levigate, con pazienza, come fa il mare con la pietra e il legno, con le sue creature fino a ridurle in pulviscolo d’anima. Questo è il sentire del mare e tu il mare lo possiedi e ne hai la pazienza operosa. E se a volte sei stanco e tutto sembra inutile, parla dopo il silenzio che osserva. Taci e prendi appunti sulla carta, guarda il segno e la parola, rendila morbida nel tracciare, per non snaturare quel che provi. Questo sarà il tuo ormare un nuovo lessico per quando deciderai di parlare. Un dire che parla con i gesti, che fa quello che più t’assomiglia, anche in silenzio perché basta l’alzare di sopracciglia o il morbido posare della mano aperta, per dire ciò che è stato pensato.
Guarda i gesti gentili, consueti, del vestirsi con cura e leggerezza. Pensa che sono stati prima appresi e poi cambiati e fatti propri, sono parte di una meditazione, di un verseggiare muto che si modifica per sovrapposizione, sino al risultato. Un mandala composto su di sé per portarlo tra altri, o solo per sé, e come sempre da disfare e ricomporre all’infinito.
Scrivilo questo mantra aperto alla tua anima, fa che rappresenti te stesso e che aggiunga parole e gesti, secondo i giorni. Che sia un poema che non finisce e che reciti sottovoce quando la solitudine prende il posto della leggerezza.
Scrivi con tutto te stesso, con la parola, il gesto, l’abitudine consapevole, vesti la tua anima di te.