bisogno d’africa

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Di questo sole inconsistente conosco tutto, l’ho sgranato tra le dita come pannocchia, maturata e già mezza divorata nella baruffa d’uccelli e d’insetti. L’ho sentito il calore senza tregua, nell’estenuata fatica di tenersi assieme e camminare cercando ombre, vibrava nell’aria che faceva danzare polvere rossa e fili d’erba secca. Così fino alla notte quando improvvisi afrori di spezia cercano liberazione dai cespugli stenti. Attorno, gli alberi si riempiono d’uccelli, il fresco scende dal cielo, mitiga la terra, rallenta le parole. È subito buio, s’accendono candele sui tavoli, poco oltre aumentano i bisbigli. Ragazzi allenano i muscoli alla lotta, qualcuno s’accoccola sui talloni e guarda il mare che ancora ha luce ma già riflette l’argento dei pesci in caccia e in branco. Ho desiderio del sole d’Africa, dell’assoluto buio delle notti insonni, dei rumori sul tetto, tra le coperture di foglie, del primo canto del muezzin che si confonde con la brezza e il breve sonno.
Mi manca il profumo del caffè crudo messo a tostare, il rumore di stoviglie e le prime grida d’acquaioli e venditori di tè. La tazza in cui si rapprende la bevanda bruna è s’apprende a vedere il futuro, il cardamomo da tenere in bocca, le parole più lente dei pensieri lenti e l’ampia tunica in cui far ballare il corpo.

L’odore forte del pesce disseccato, la carne halal, i tuberi arrostiti e l’acqua profumata di limone che riempie la caraffa, la fa sudare di frescura e attende d’essere versata.

Qualche volta le parole s’intrecceranno nel buio, fino alla cerimonia del salutarsi per un sonno che non giungerà sotto il baldacchino delle zanzariere, e gli occhi fisseranno la finestra nera di notte, da cui viene il ciarlare delle scimmie.

Domani è solo tempo, è il presente che scrive dentro con molteplici dita, che usa tutti i sensi per comporre le sue storie. Non lontano, il fiume, le mangrovie, il mare, il deserto e i termitai immensi, sono atlanti per esseri che c’erano prima di noi e che ci sopravviveranno, nell’abitudine indifferente del vivere come necessità del giorno.

sono le sei

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Sono le sei. La luce filtra dalla finestra posta nella stanza alla fine del corridoio, lo percorre allegramente e illumina, appena più intensamente la porta aperta della stanza in cui dormo. Un tempo avrei aperto gli occhi per la variazione di buio e mi sarei fermato, indeciso tra l’ultimo frammento di sogno e la coscienza che riaffiorava. Mi sarei alzato dopo poco, avrei riempito la stanza di luce e mentre il caffè saliva lento nella Bialetti, cinque gocce d’acqua sul fondo perché non bruci il primo affiorare, mi sarei goduto i tetti e il primo affaccendarsi di rondini tra le case.

Mi sono immaginato spesso il giorno prima. Il giorno o l’ora che precede qualsiasi cosa. Oggi è il 24 maggio e nel 1915 il forte del Verena, alle 4 del mattino, apriva il fuoco contro i forti austriaci dello Spitz e del Verle sul Vezzena. Più o meno alla stessa ora, la flotta imperiale austriaca bombardava Ancona, Iesi, e la costa adriatica. Cosa pensavano le persone che erano nei paesi vicini ai forti, oppure nelle città che sarebbero state bombardate? Proseguivano la vita di tutti i giorni, avevano bambini che andavano a scuola, vecchi in casa da curare, lavori che assicuravano il necessario e lo proseguivano. Tutto era normale, prima e attorno all’evento, poi le cose gradualmente mutavano. Ho cercato di immaginare cosa facesse mio Papà, nato da poco, in una città tedesca e arrivato in Italia, cosa pensasse mio Nonno e la Nonna e credo che nessuno di loro fosse distante dalle cose di tutti i giorni. Questo è il futuro, quello che può accadere per l’addensarsi dei presagi e delle condizioni che li rendono reali, ma anche ciò che rende gli uomini dipendenti da altro da sé. Così guardo ciò che sta attorno e penso che il suo fulgore, il suo nascondere i particolari al disattento, il vivere in quell’universo parallelo dove ciascuno di noi colloca la sua personale vita fatta di attenzioni e di affetti importanti, sià qualcosa che ci appartiene e insieme ci determina.

Cogliere i segni, leggerli, interpretarli a priori, non a posteriori ché a quelli son buoni tutti, come a dolersi di non aver capito o trascurato, è proprio questo immergersi in sé e godere dell’attimo, vedere ciò che può essere e insieme vivere profondamente. Sono le sei e la giornata si apre oppure ancora sonnecchia cercando un altro sogno da mettere in cantiere per tirare a lungo. Alzarsi e prendere possesso di sé nel giorno, essere nelle cose che non solo si ripetono, ma sono parte dell’abitudine che si è naturalmente costruita per leggere la propria giornata oltre i segni e dentro i segni, oltre l’umore che muterà se sarà preceduto da un meditare sul bello che abbiamo creato attorno. Alzarsi e dire la propria libertà dal tempo, da ciò che altri creeranno per noi, perché la vita è uno sguardo che apprende, che fa proprio il tempo, che rende importante ciò che non lo è e che derubrica dalle scalette della nostra concezione del mondo ciò a cui non possiamo arrivare.

Sono le sei, penso ai tantissimi uomini che ciascuno nel loro mondo fanno, dormono, pensano cose così diverse che solo il pianeta può tenere assieme e il cielo interpretare, sono i mondi paralleli, ciascuno con storie vita e bellezza proprie e mentre penso alle loro, guardo ciò che mi viene dato e sono grato.

inquietudine

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L’inquietudine è questo uscir d’anni,

speranze e passioni,

come per pneumatici lisi da troppa strada.

E’ questa inquietudine che, da qualsiasi posto,

anzitempo mi porta via.

E’ il non essere appieno l’immaginato e il perseguito,

è l’attesa d’ una pioggia che non viene,

o il sole inquietante che raschia anima alle cose,

è la porta disegnata sul muro che non s’apre.

Sul cuscino qualche filo di riccio: anche stanotte i sogni eran brevi,

ma l’aria frizzante e poche stelle

hanno strappato un sorriso alla pelle nuda.

Sarà compreso l’abbraccio alle nuvole,

e il saltare da una macchia di sole a quella appresso?

la furia

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Alle volte mi prende una furia silente. Fuori non si vede nulla, forse si scuri e il volto è s’accorciano le parole ma i gesti hanno la gentilezza automatica di chi li ha appresi per tempo. Scomporre la furia non è facile, la furia è un blocco unico che si alimenta di innumeri rivoli, fatti, circostanze, che vede la realtà come i modificabile e priva di giustezza e ragione. Per questo rischia di diventare rabbia e di non confluire nell’azione tranquilla che scaturisce dal ragionamento, eppure basterebbe pensarci guardando in modo diverso, uscendo dagli stereotipi che vedono noi e ciò che facciamo come determinanti della vita per capire che ciò che ci scuote sta scuotendo la realtà e che essa troverà azioni e modi per sorprenderci, per porci dinanzi ad un nuovo che non pensavamo. Le strade che abbiamo di fronte sono il lasciar accadere e capire intanto cosa non va del nostro vivere, oppure il tentare di modificare le cose partendo da uno dei rivoli che hanno generato la furia. Spesso si scopre che ciò che ci indigna è distante e accadrebbe comunque ma che è anche il prodotto di un mondo imperfetto, ineguale, ingiusto, prevaricatore. Questo mondo è così, lontano dalla perfezione o anche solo da un moderato danno nei confronti della maggioranza delle persone e ciò che per noi è giusto per molti altri è indifferente. Allora con chi dovremmo prendercela, chi dovremmo modificare se è proprio la somma delle furbizia, arroganze e l’esercizio del potere che rende i eguali le persone, causa sofferenze, piega le vite in ambiti così angusti da far desiderare sempre la libertà. La furia è la mia impotenza, l’indignazione è il mio giudizio anche se non voglio giudicare ma capire, l’inazione è l’impotenza dello spirito che si arrende di fronte alla violenza della diseguaglianza perseguita come valore e dimostrazione che non siamo eguali. E invece penso che siamo eguali e differenti, eguali per nascita e opportunità che devono essere date e differenti perché la somma delle visioni penetrarlo la comprensione profonda del rapporto tea noi stessi, il mondo, la società che viene costruita. Nulla è dato per sempre e ognuno può ricevere e dare, se la mia furia si quieta, potrò capire, procedere, sentire che la strada è giusta, almeno per me. E nel sentire tutto quello che non va aggiungo me stesso perché solo la calma e il credere in ciò che si fa sgretola l’ingiustizia.

festivo

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I biscotti, “zaeti” , stanno cuocendo. C’è un buon profumo in casa che si mescola con quello della farina che cuoce tra mandorle e uvetta. Scrivo nella mente cose mai prima d’ora comprese, leggo chi sa scrivere stupendo e penso. E ascolto Tschaikowsky, il primo concerto per pianoforte.
Ho pensato spesso all’amore, agli amori e all’attrazione in questo periodo, come a componenti dello stesso processo. Le letture, i ricordi, portano nei particolari, mostrano ciò che si è generato e ancor meglio, ciò che ha incrinato o mutato il sentire. Perché sembra che tutto si riconduce a noi, alle nostre volontà, ma i barlumi del possibile, l’addensarsi dell’accadere si annidano lontano, poi a fatti avvenuti, subentrano altre virtù: la passione, l’attesa, la pazienza, la giusta misura, il silenzio, la verità e chissà quant’altro che sia noi e solo noi.

Ho pensato anche a quanto si frappongono società, religione, usi, timori e ruoli tra gli uomini, che rendono disgraziate le vite anche di chi poteva essere felice. Un’amica cara è immersa da anni in problemi enormi che inutilmente la consumano nella sua bellezza, per un matrimonio fallito, basterebbe la realtà e invece funzionano rancori e tribunali.
Come se per due persone che si amano fosse lo stato civile a fare da barriera.

Ho pensato anche a un criterio, che è un priori, ovvero il piacersi reciprocamente, cosa che aiuta non poco a scambiare sentimenti e verità ed è stranamente questo che viene dato per scontato nella vita sociale, mentre è un farsi non sempre semplice ed è proprio esso l’anticamera dell’attrazione. Piacersi ossia provare piacere dell’altro è condizione rara. E questo viene negato dall’ educazione che sottolinea il diverso, che mette dubbi dove non ci sono e porta le cattive esperienze come fossero verità.

L’amore è semplice, potente, unitario e desideroso di piacere, in tutti i sensi, partire da ciò che è significa aprire un mondo che prima non c’era e non sarà mai uguale, mai lo stesso per sempre e quindi mutevole, solo la verità gli rende onore, il resto è indebito possesso.

se non è complicato non riesce bene

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Se non è complicato, non riesce bene, eppure la semplicità è a un passo, chiara come un navigatore appena tarato. Invece scartafascio portolani, cerco mappe
rosicchiate, rifiuto per indole e saturazione e non appartengo, non più, mi dico. Davanti ci sono passi e strada, pensieri, sensazioni, colori, frasi sottolineate, linee diritte e sghembe, architettura interiore che diventa segno e tempo.

Dichiarato l’ambito e la direzione, il necessario preventivamente va detto, perchè ci fu molto tempo diversamente confuso, le ferite sanguinavano e s’infettavano. Per quanto vale a sanificare ho solo seguito la passione, il
desiderio, la necessità d’essere amato. Può bastare?

Ora molto è più chiaro, non ho più alibi di
peso da sciorinare e sono un pessimo individuo, anche se non basta dirlo per tenere a bada i danni allegri che si compiono leggendo e camminando. E neppure ad evitare gli scroscio di chi scuote il capo comparendo. No, non basta, perchè posso essere redento, cambiato, fatto innamorare: si pensa mai che chi cambiamo forse poi non ci piacerà ancora e che era la differenza, tenue o forte, la ragione dell’attrarre che interrogava e si trasformava in similitudine tra eguali?

Ho vissuto dentro romanzi scritti malamente, non credevo ai miei occhi, ai miei pensieri, mi affidava alla volontà vana che non piega il corso delle cose, , tutto sembrava ricondursi a pochi fatti semplici. E tali erano, come ciò che sorprende ed è accanto, quello che ad occhi chiusi persiste, l’infinita varietà del vivere che non chiede consenso, che non è al nostro servizio, ma dona bellezza e intuizione fino a diventare altro e anche noi.

E’ vero, ma quanto male fa la semplicità che riduce tutto a un’equazione, in fondo complico ancora le cose per fuggire dal dolore. Almeno un poco. E dar spazio alla vita, che vorrà pur darsi da fare nella sua evoluzione positiva, per indicare la strada.
Voler bene e prendersi cura, bastare solo agli amici: hai idee chiare amico mio, hai capito molto della vita, a me non è accaduto e ogni volta mi sono detto che non bastava rispondere alle domande, dare ciò che si può, si doveva mettere in conto che ci verrà chiesto ciò che non è possibile dare. E li inizierà la sofferenza. Sono appartenuto, mi sono sostituito, ora non più e lascio entrare solo chi voglio, dico le regole della casa, indico con cortesia, la porta agli intrusi. Sono regole larghe, ma rispettose e non è da poco accogliere e stare al proprio posto, ma che dire oltre la verità?
In questi giorni d’incertezza, si scomplicheranno le cose, tutto diverrà semplice.

Lo spero e vorrei. Molto.

immaginare

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S’immagina ciò che fa comodo, con l’innesco di qualche desiderio a mezzo, d’una fantasia perduta chissà quando. E il tutto tra paletti di ferro. Convenienza, necessità, spesso l’una e l’altra assieme.

Educazione. Parola magica per dire: non è colpa mia, mi hanno piegato il libero arbitrio.

E quel chiavistello di cui pare ci si liberi, ovvero la colpa, chi l’ha messo nelle nostre mani? E chi davvero ci costringe a tenerlo?

Dico una parola: re-spon-sa-bi-li-tà.

Prova a ripeterla: re-spon-sa-bi-li-tà.

Se hai usato gli accenti giusti, sei già mezzo giustificato. Mezza giustificazione, due terzi di colpa eliminata, il resto lo inglobi nell’immaginazione. È quasi niente, non si sente e pare di volare.

Basta realtà, puoi accedere all’immaginazione e con i dovuti limiti, volare.

Apri la porta di sicurezza del tuo cuore e vola.

primo maggio

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Dovrei cominciare con un “ti ricordi”, ma forse non ricordi affatto e tutto si è sovrapposto nell’urgenza di un presente che si racchiude nella triade, desiderio, soddisfazione, tempo. Domani è il primo maggio, una data che da quando è stata conquistata si è privata dell’anno ed è diventata un’icona da vivere come il 25 aprile è l’8 marzo, in libertà.

Lo facevamo anche noi quando ai cortei si sono sovrapposte altre necessità, di amore, di svago, di vacanza prima delle vacanze. Qualsiasi urgenza “vitale” poteva essere spesa in giorni che già avevano il calore del giugno, la sabbia da mettere nelle scarpe, il primo falò e le grigliate notturne con i racconti, i motti di spirito, tutto il teatro dell’assurdo che si consumava in gruppo. Il primo maggio in piazza, con la banda e l’inno dei lavoratori, i discorsi dei sindacalisti poteva essere un preparare la partenza o il sancire il ritorno, spesso il secondo, dopo aver preparato con cura certosina e ilare il ponte al mare che lo precedeva.

Tu nonl ricordi di nulla, hai scelto di vivere altrove e in quella parte di mondo dove si radunano i vecchi ancora desiderosi di essere giovani. Anche lì si festeggia il primo maggio ma sono sicuro che non ci a drai, sceglierai il vestito da mettere alla festa della sera, il ristorante e la compagnia sarà sempre la stessa però priva di ricordi comuni e con un presente pieno di ammiccamenti da vivere.

Non sono invidioso, le vite hanno portato benessere a noi fortunati che possiamo parlarne, non ai nostri nipoti che ancora non si pongono il problema di cosa sia il lavoro e del perché debba avere una festa vista la precarietà che lo circonda. C’è un tempo per ogni cosa, per noi è stato così e il tempo della festa entrava nel calendario come una eccezione che lo muoveva, lo faceva folleggiare, esprimeva passioni che si comunicavano nel privato. Tu la ricordi quell’energia allegra che rendeva possibile ogni cosa, che faceva sognare e toccare con mano il futuro unendolo lieta ente al presente?

Credo che ormai per te queste cose siano mutate in questi gerontocomi dove il mondo è bello, i servizi a disposizione, purché si abbia una rendita sufficiente a pagare la nuova giovinezza. Hanno un effetto annichilente per la memoria ed è giusto che sia così perché gli altri i rimasti, i sopravvissuti, i coetanei a basso reddito si dibattono ancora in problemi e ideali più grandi di loro. Pensano ai figli e ai nipoti, all’ambiente e alla follia della guerra, pensano ai pericoli della tecnologia sen, a etica e all’inflazione che alleggerisce la spesa. Hanno ricordi di cui sono contenti e passioni che non si sono spente, parlano con persone che non conoscono chiedendo della loro vita. Con allegra delicatezza, vivono cercando di capire dove hanno sbagliato perché il mondo non sia migliore. Festeggiano anche se la parola lavoro ha oggi un significato diverso, vanno in piazza, cercano di capire e ancora festeggiano assieme Con i compagni di una vita di battaglie perdute a mezzo.

Fanno cose che ora giudicheresti strane, e ridono con le protesi pagate a rate, ridono perché sperano e non si sono stancati di stare dalla parte che perde ma è quella giusta e così ogni tanto, con fatica vince. C’è un tempo per ogni cosa, verrà il tempo buono che abbiamo preparato anche in quei lontani giorni felici.

apolidi in patria

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Alcuni di noi, io ad esempio, abbiamo una Patria, un paese che amiamo, una cultura comune. Sappiamo cose, magari non tutte così precise, e non tutti le stesse. Ci formiamo idee, un’analisi della realtà, pensiamo soluzioni. Di sicuro non abbiamo, da molto tempo, verità assolute e il relativo ci sembra un buon modo per accogliere differenza e ragionamento contrario, ma pretendiamo rispetto. Per i principi fondanti, ad esempio, che se tali non sono il palazzo sociale barcolla, non è più casa comune e a che serve un paese se non ha principi, rispetto e solidarietà? Ciò vale per noi e per chiunque. E nel rispetto sono comprese le regole che devono valere per tutti, prima tra tutte la verità dei comportamenti. Per questo e per altro, non ci piacciono i furbi, quelli che dicono una cosa e ne pensano un’altra, quelli che cercano di fregarti dicendo e ritrattando. E neppure gli arroganti ci piacciono perché usano la forza per imporre verità non vere. Non ci piacciono gli irresponsabili che dicono cose che non faranno, oppure fanno guai e li attribuiscono ad altri. Non ci piace chi la racconta pressapoco, chi imbonisce, chi prende in giro la speranza comune di star meglio.

Sappiamo che la colpa di ciò che accade non è sempre altrove, che un motivo per tutto non giustifica niente, e quindi facciamo autocritica. Spesso. L’onestà ci sembra una precondizione in ogni rapporto, e non è un fine. Bisogna essere onesti, anche con se stessi. Vediamo i nostri limiti, sappiamo che sono importanti, però abbiamo sogni grandi e piccoli, vecchi e nuovi. Sappiamo che il mondo è complesso, che bisogna semplificare le cose per capirlo, ma nessuno di noi banalizza la realtà e sappiamo che semplificare è difficile e non lo si fa a colpi di slogan e tanto meno con l’accetta. Pensiamo che ci sia un primato del capire e dell’intelligenza nel fare, e che quest’ultimo abbia bisogno, almeno, di essere pensato.

Siamo stanchi degli annunci, vogliamo partecipare e l’abbiamo sempre fatto. Oggi siamo coscienti che i problemi sono la pace subito in Ucraina e altrove, prima che deflagri il disastro. Vediamo il pianeta che degrada rapidamente e crea nuove povertà oltre al pericolo di annientare la specie. Cogliamo nella realtà la società che non rispetta i principi, che pochi sono molto voracità e generano diseguaglianza, affievolirsi della solidarietà, corruzione, malaffare. Pochi che interpretano la legalità e il rispetto delle regole solo a loro favore e tolgono a tutti parti importanti del bene comune. Essere umani, vivere assieme in libertà ed eguaglianza non sono parole devono valore ovunque e comunque.

Per noi le istituzioni non sono immutabili, ma sono il nostro patrimonio e baluardo democratico comune e quindi pensiamo si debba agire partendo dal rispetto del futuro e del presente nel modificarle, che ogni fascismo debba essere bandito dalla concezione individuale e collettiva, che ciò che è stato conquistato a duro prezzo di sangue e sofferenza, libertà e democrazia, eguaglianza ed equità, legalità e dignità umana siano fondamenta intangibili della casa comune.

Abbiamo un Paese che amiamo, una cultura e volontà comuni e non siamo pochi eredi di quella che non a caso si chiama lotta di Liberazionema, non abbiamo più una parte sociale e politica forte che riconosca che le fondamenta comuni vanno sempre difese. Temiamo di non avere più un partito in cui riconoscerci e pur essendo tanti, ci sentiamo soli in questa lotta dove resistere è la condizione per non sentirci apolidi in Patria.

fragilità nuove

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Penso che la fragilità interiore, ed esteriore, aumenti. Che si copra, a volte, di aggressività, mentre in altre occasioni sia infermità che piega l’anima in sé e le impedisce di volare, di sorridere, anzi le fa sentire il peso di un mondo che s’abbuia.
Penso che tutto questo avvenga senza comunicare e che a cresca la solitudine, la difficoltà di avere una comunicazione profonda. Forse non è così ma è la sensazione che leggo nella violenza insita nelle immagini, apparentemente innocenti, nelle parole che vengono ritrattate o relativizzate e poi ripetute sino a non distinguere più la realtà. Non la verità che è un processo che si svela ma la realtà, ossia ciò che percepiscono i nostri sensi e la nostra mente interpreta. Nel digerire ogni cosa aumenta la fragilità e la violenza e non c’è bisogno di repressione ma di condivisione etica, di sentirsi nella stessa condizione precaria, di lottare per lo stesso cambiamento sociale. Leggevo oggi la percentuale di anidride carbonica in atmosfera, siamo a valori che superano di molto le 400 ppm, questo indica una irreversibilità progressiva del degrado ambientale che per noi sarà un dato statistico, per i nostri figli e nipoti, una realtà che renderà più fragili le esistenze.
A questo si somma una tensione crescente tra i popoli indotta dalle volontà di potenza, dalla mancanza della percezione che proprio le armi rendono più necessaria la tolleranza e la comprensione della differenza. Un mondo di eguali parte dalla giustizia e dall’equita per stabilire rapporti profondi tra modi diversi di sentire. Tutto questo evidenzia l’umano prima delle idee e rende compatibili le diversità, così si può stare assieme, meno fragili, diversi, sicuri che saremo orientati ad affrontare assieme i problemi di sussistenza della specie. Il contrario di questo è violenza, sull’ambiente, sugli uomini, sulla bellezza, sui deboli, sulla crescita comune interiore ed esteriore. Siamo diventati vecchia plastica, apparenza che si decompone e si disfa alla luce, questa è la fragilità che percepisco e siamo ancora a tempo per mutare, ma non è possibile farlo senza pagare un prezzo che non tocca le esistenze, anzi le rende migliori, è la volontà di dominio che deve pagare il prezzo, l’economia di rapina, la glorificazione della diseguaglianza. In cambio c’è vita e bellezza, rispetto, futuro, questa è l’alternativa che vedo dinanzi.