se non è complicato non riesce bene

In evidenza

Se non è complicato, non riesce bene, eppure la semplicità è a un passo, chiara come un navigatore appena tarato. Invece scartafascio portolani, cerco mappe
rosicchiate, rifiuto per indole e saturazione e non appartengo, non più, mi dico. Davanti ci sono passi e strada, pensieri, sensazioni, colori, frasi sottolineate, linee diritte e sghembe, architettura interiore che diventa segno e tempo.

Dichiarato l’ambito e la direzione, il necessario preventivamente va detto, perchè ci fu molto tempo diversamente confuso, le ferite sanguinavano e s’infettavano. Per quanto vale a sanificare ho solo seguito la passione, il
desiderio, la necessità d’essere amato. Può bastare?

Ora molto è più chiaro, non ho più alibi di
peso da sciorinare e sono un pessimo individuo, anche se non basta dirlo per tenere a bada i danni allegri che si compiono leggendo e camminando. E neppure ad evitare gli scroscio di chi scuote il capo comparendo. No, non basta, perchè posso essere redento, cambiato, fatto innamorare: si pensa mai che chi cambiamo forse poi non ci piacerà ancora e che era la differenza, tenue o forte, la ragione dell’attrarre che interrogava e si trasformava in similitudine tra eguali?

Ho vissuto dentro romanzi scritti malamente, non credevo ai miei occhi, ai miei pensieri, mi affidava alla volontà vana che non piega il corso delle cose, , tutto sembrava ricondursi a pochi fatti semplici. E tali erano, come ciò che sorprende ed è accanto, quello che ad occhi chiusi persiste, l’infinita varietà del vivere che non chiede consenso, che non è al nostro servizio, ma dona bellezza e intuizione fino a diventare altro e anche noi.

E’ vero, ma quanto male fa la semplicità che riduce tutto a un’equazione, in fondo complico ancora le cose per fuggire dal dolore. Almeno un poco. E dar spazio alla vita, che vorrà pur darsi da fare nella sua evoluzione positiva, per indicare la strada.
Voler bene e prendersi cura, bastare solo agli amici: hai idee chiare amico mio, hai capito molto della vita, a me non è accaduto e ogni volta mi sono detto che non bastava rispondere alle domande, dare ciò che si può, si doveva mettere in conto che ci verrà chiesto ciò che non è possibile dare. E li inizierà la sofferenza. Sono appartenuto, mi sono sostituito, ora non più e lascio entrare solo chi voglio, dico le regole della casa, indico con cortesia, la porta agli intrusi. Sono regole larghe, ma rispettose e non è da poco accogliere e stare al proprio posto, ma che dire oltre la verità?
In questi giorni d’incertezza, si scomplicheranno le cose, tutto diverrà semplice.

Lo spero e vorrei. Molto.

verdi dialoghi e confronti

In evidenza

Nel mio piccolo giardino le piante non sono cose, ma posseggono personalità precise. Alcune ascoltano, aspettano in silenzio d’essere curate, e deperiscono, come gli umani, in mancanza d’amore. Altre sono pensose, metodiche, spesso sotterranee nel meditare e fioriscono quando è tempo, spandono profumo, hanno un cosciente equilibrio di bellezza che si ripete, sempre nuovo e stupefacente. Altre ancora, sono arroganti, si propagano secondo oscuri amplessi, vanno ovunque, tolgono aria e respiro a chi da tempo occupa silente il luogo che pensava suo. Non bastano all’arroganza verde, i capienti vasi, si sparge nei giardini vicini, spesso viene strappata come erba ma è pervicace e molteplice d’ingegno così quella che sfugge diventa forte di radici, intimorisce i giardinieri improvvisati che lasciano crescere e poi si stupiscono d’essere prigionieri di nuovi alberi.
C’è talmente tanta vita in questo fazzoletto di terra che alberi maestosi vi vorrebbero trovare posto, le rose tranquille invecchierebbero, silenti e profumate e il gelsomino ripeterebbe la sua magia ogni anno parlando con il lento ulivo.
Le lotte verdi per il predominio trovano insperate alleanze in piante da semi ventosi e si disputano spazi, intrecciano radici e rami in dialoghi mai quieti e tantomeno casti. Ciò che prevale dipende dalla cura o dal capriccio della stagione, il caldo sceglie e modifica le resistenze di ciascuno, così l’acqua diviene il dono che posso dare indifferentemente a tutte, ma so che ciascuna ne farà un diverso uso e che ancora una volta, una sotterranea lotta s’accenderà per vivere e proliferare.
In questo battagliare salvo gli umili e i silenti, li porto altrove, in nuova terra e vasi, perché conosco l’arroganza che pretende e non fa dire ciò che necessita alla vita e alla bellezza di ciascuno. Per gli altri è un susseguirsi di rese e di nuovi assalti, di fascinazioni per uccelli prima affamati e poi golosi. Dei frutti nulla resta ma della battaglia sono osservatore attento. Partecipe, a volte, per simpatia o per stabilire un ordine, ciò che è tumulto di vita m’affascina quanto il silenzio del fiore di limone e il bocciolo di rosa, e capisco che un linguaggio per me silente, ma forte d’urli e di sussurri, sta percorrendo terra e aria che dà a ciascuno personalità e misura.
È un piccolo farsi di verde sociale dove nessuno mai rinuncia ad essere se stesso.

mantra della centrale o della guerra

In evidenza

Nel pericolo per capire bisogna avere pazienza,

quando sembra tutto perduto, bisogna salvarsi e avere la pazienza di cercare vie d’uscita.

La forza della pazienza e del bene comune è il rifugio di chi ama la vita.

e quando tutto crolla bisogna avere la speranza della pazienza.

Solo attraverso la pazienza, qualcuno si salverà.

Lo penso per chi vive nella centrale,

ma anche per quelli fuori della centrale, che ignari attendono.

lo pensavo per i tecnici ed i pompieri di Chernobyl,

per tutti quelli che si lasciavano contaminare per salvare altri anziché fuggire.

Lo pensava Rigoni Stern che parlava della vita con voce paziente

mentre in Russia, nella ritirata, c’era quasi solo morte.

Lo penso per le piccole difficoltà che riducono l’orizzonte ad un angolo acuto,

lo penso quando non c’è pazienza per capire ciò che viene chiesto e offerto,

quando l’immagine mente e impedisce di vedere.

Lo penso quando l’ amor proprio toglie la pazienza di costruirsi,

quando non si capisce e si continua lo stesso a inondare di parole il mondo.

Quando c’è paura occorre pazienza,

quando è notte, senza conta d’ore, occorre la pazienza della luce,

quando si è soli, nella centrale o nel cuore dell’universo, occorre pazienza, verità, amore.

salmo laico

In evidenza

A non credere ci son vantaggi,

al prezzo di solitudini senza luce,

fatte di quel bujo che aspira la vita,

e toglie alibi e appigli al salire, scivolare e riprovare,

nella sequenza infinita del Sisifo che non muore.

La terra si scuote,

vibra sempre tutta, di noi indifferente,

che non sappiamo leggere o capire,

e l’uomo è appeso a ciò che crede, 

a chi sussurra di non chieder conto di quanto accade

e intanto riparare, consolare,

nella paura che resta e si confina nella fede.

Di cosa e di chi? E dei fili strappati che dire, allora?

Se le vite cancellate entrano nella contabilità del fato, del giorno resta l’ansia,

l’insicurezza che nulla e nessuno per noi governi il caso,

et non nobis domine,

perché ci toccherà davvero solo ciò che c’accade

allora abbi di noi pietà per essere salvi.

Ciechi, pazzi solitari, senza speranza,

torniamo umani con scintille d’amor comune,

per stenderci sulla terra e amarla.

Amarla d’ attenzioni tenere, ogni giorno,

sentirne il flusso e l’unisono respiro,

capirla ed esserne tutt’uno.

Congiungersi nella morale della terra, che non usa e non è usata,

morale d’essere, religione dell’esistere priva di domande

che altrove portino responsabilità e timore.

Noi, qui, adesso,

senz’alibi di vestiti a vibrare assieme

e muti di parole sentendo,

anche la paura sentendo,

quella che fa stringere i cuccioli,

che abbandona le case e corre nello spazio aperto,

quella che stringe ciò che è caro, e posa e capisce,

non la furia tua che non esiste, ma l’amor tuo indifferente,

di maestra senza ammonimenti, che rimette in ordine le cose,

e noi, consegnandoci ciò che importante è davvero.

Nelle mani, aperte, che sanno d’erba e di terra, di roccia e d’alberi,

di pelle e di ferite, di piacere e di respiro,

palmi da aprire e posare, per ascoltare non per dire,

palmi da portare al viso, ed annusare,

per respirare te, che vivi con noi, e non per noi.

A te non chiederò ragione, di te mi fido,

non ho nulla da credere, posso solo amarti

scoprire qualcosa, oltre ciò che vedo, sentendo, ascoltando,

e so che di tutto questo tu farai di me uno,

come hai sempre fatto.

E tanti.

E di questa unicità che non si trasmette, lascerai traccia per riconoscere,

chi come me ti ama, e condivide,

e resta uno, e non solo.

variazioni sull’otto marzo

In evidenza

prima variazione:

Si può essere commossi e calmi? Sì, se ciò che si è subito ha talmente imbevuto la vita da diventare permanente parte di essa.

Con voce commossa e calma, enuncia lo stalking subito per sei anni, le minacce fisiche, le percosse, il pericolo di morte. E accanto a questa condizione assurda del vivere, enumera le denunce, la diffidenza incontrata, i tentativi di dissuaderla dalle querele, l’atteggiamento e l’insensibilità incontrate, divenuti essi stessi, percossa e violenza. Il tentativo di convincerla a capire più l’aggressore che lei stessa in nome di una inesistente unione e amore. Una parola pesante emerge tra le altre, la connivenza che è parte dell’istituzione e rende compatibile socialmente l’abuso. Anch’essa parte del torto e dell’abuso subito. Poi il racconto continua con il positivo incontrato, le persone sensibili delle associazioni di aiuto contro violenza, un graduato di polizia che capisce e chiede scusa a nome dello stato. Il narrare è sereno, ma non scompare del tutto la piega amara della voce, delle parole. Poi, l’epilogo, che non è tale, verrà col processo dopo sei anni di sofferenza. Ma non ci sarà processo, perché nel frattempo il persecutore è morto. Tutto derubricato quindi? Finito? No, perché la vittima per fortuna è viva, ma deve ricostruirsi, inglobare la violenza subita in una visione positiva di se stessa, terapie per riaprirsi alla speranza, al rapporto con gli altri.

Si può essere commossi e calmi nella voce e trasmettere, proprio attraverso la calma, il carico di dolore in atto e quello trascorso. Questo insegna, fa riflettere, rende lampante l’inadeguatezza delle parole di legge e dei comportamenti che esse generano. Non si tratta solo di sentirsi in colpa in quanto genere maschile. A che serve la colpa se non è accompagnata dal suo superamento? Bisogna essere consapevoli, e questo riguarda tutti, capire che la violenza è tra noi e che, se non la vogliamo, bisogna, non solo emettere leggi, ma fare in modo che essa non sia accolta, analizzata, resa comportamento, giustificata, relativizzata, messa in conto come danno collaterale. Non c’è nessuna guerra in atto tra i sessi, c’è solo una questione di rapporti ed eguaglianza che dev’essere modificata nella cultura, nella percezione. A partire dalla mia cultura, dal mio intendere la presenza femminile ovunque nella società.

seconda variazione:

La ragazza ha meno di vent’anni. Stringe tra le dita un mazzetto di mimosa molto sciupato. Eppure se potesse liscerebbe gli steli, gonfierebbe i fiori sino a renderli turgidi come appena colti. Lo ripara dal sole con la mano mentre cammina veloce. Potrebbe metterlo nello zainetto, ma si sciuperebbe ancora di più. Rivolge i fiori verso il basso, cerca una fontana per bagnarli e poi ogni tanto li rialza per controllare se si riprendono. Di certo li ha ricevuti da una persona per lei importante. Così ha collegato la giornata di festa che la riguarda con un atto di affetto. Forse d’amore.

Si vive anche di simboli e di gentilezza, almeno per una giornata. Ci penso poco a questo. Mi ha sempre infastidito l’insistenza avida dei fiorai, l’attenzione pelosa del donare obbligato dal conformismo che si chiude in un giorno. E al pari m’ infastidisce l’ignoranza liberatoria delle pizzerie, dei night a spettacolo invertito nel genere. Anche la risata grassa e ricca di doppi sensi mi dispiace perché ad essa corrisponde quella maschile. Mi sembra di mettere assieme la parte bassa della libertà. Eppure anche in questo c’è un passo avanti, una liberazione d’accatto ch’è poco o nulla, ma è sempre meglio del bigottismo precedente.

Un fiore, anche virtuale, tutto l’anno per ripristinare la mimosa sciupata. Ogni giorno, la predisposizione a dare gesti di cura. Anche un abbraccio può servire. Un abbraccio lungo, caldo e silenzioso. Ricco di sottointesi e appena colto dall’albero del bene reciproco.

terza variazione:

Li ho visti l’altra sera in televisione, ripresi e commentati con la levità empatica dei conduttori che mette in luce, non l’immagine di rapina del fotoreporter, ma una quotidianità assurda, sofferente. Sono le donne e i bambini della rotta balcanica. Passano la giornata in fila per un panino e una bottiglietta d’acqua, attendono che qualcuno possa passare. Inermi tra gli inermi. Donne avvolte in lunghi abiti neri oppure con gonne corte colorate, che stanno in attesa e altre arrivano. Si sistemano in tende fragili, estive. Tutti nella stessa condizione, pur venendo da diverse esperienze di rapporti familiari, di vita e di prospettive.

Non credo che oggi abbiano distribuito mimosa nel campo, sarebbero bastati i panini con un minor tempo d’attesa. Chissà se per loro prima esisteva un otto marzo, comunque non ci pensano ora. Non loro, non i tre milioni di profughi in Turchia, in maggioranza donne e bambini. Non il milione e mezzo stipato in Libano (ma forse quelli stanno meglio che con Erdogan). Non gli oltre 350.000 somali in un unico campo di tende a Dadaab in Kenia. Non l’indeterminato numero alle soglie del Sahara o sulle coste libiche. In maggioranza sono donne e bambini che attendono e mostrano la nostra vergogna.

Qui il genere scompare: quante donne che festeggiano l’otto marzo pensano che l’esodo dev’essere un problema che si risolve in occidente? Penso alle donne perché gli uomini su questo hanno gesti sbrigativi, considerano che i danni collaterali fanno parte della realtà. Poi si sa, che i maschi se la cavano, anche quando emigrano. Anche nel morire se la cavano, ma le donne come fanno a tenere a bada la paura e il dolore per i propri figli, per sé, per i compagni? Come in questi giorni in Calabria, chi penserà a loro, a ciò che hanno patito sino al viaggio estremo. Chi piangerà i loro figli, i familiari, loro stesse, ormai prive di vite sono state oggetto di discussione mentre serviva soccorso, umanità. Le sopravvissute ricostruiranno le culture, i nuclei di relazione, l’amore, anche se non viene loro permesso di avere un futuro. La mia amica danese mi dice che in Danimarca non si festeggia l’otto marzo perché i diritti delle donne sono una cosa normale. Ma per chi valgono i diritti basilari? Quelli semplici, da cultura laica o religiosa: accoglienza, rispetto, eguaglianza, sono riservati a chi ha cittadinanza e basta. Si è parlato molto a lungo di radici culturali da inserire nella costituzione europea. Questi diritti erano ricompresi, a partire dalle presunte radici cristiane. Che fine hanno fatto alla prova dei fatti? Sparito tutto. Forse anche per questo l’otto marzo non è proprio solo una festa commerciale.

chi è quell’uomo che m’assomiglia

In evidenza

Posted on willyco.blog 24 gennaio 2016

È giusto si sappia che trattenere la rabbia costa fatica, che restare calmi consuma quantità immani d’energia.

È giusto si sappia che nessuna rinuncia è a basso costo, che la notte o il primo mattino ci sarà un risveglio che porterà il pensiero lì, proprio su quella rinuncia, e farà star male.

È giusto si sappia che per costruire una vita come la vorremmo serve non meno energia che per accendere una stella, ma anche per quello straccio di vita che abbiamo realizzato con fatica serve altrettanta energia e se questa ha un sentimento, è meglio ricordare che è stata irrorata di un amore inverosimile. Senza misura, proprio come quello degli dei. Quelli del nostro olimpo, perché gli altri dei hanno tutti misura e limite.

Se qualcuno l’avesse raccontato, magari insegnato, quando ancora capivo a malapena, non avrei creduto. Non mi sarebbe parsa una grande impresa vivere, ne avrei visto l’eroicità, non la consuetudine, non le incrostazioni, gli obblighi. Avrei protestato la mia libertà facile, la limpidezza di poche idee che non avevano contrasto apparente, non mi sarei fermato sulle contraddizioni, anzi le avrei sciolte con la lieta spensieratezza e coscienza d’ Alessandro: con un colpo netto anche il nodo di Gordio giaceva risolto. E invece poi quelle contraddizioni si sono rivelate la vera essenza di ciò che stava dentro, quello che protestava la sua umanità vilipesa dalle costrizioni, da idee ricevute e stantie, dalle consuetudini.

Allora è giusto si sappia che non è nel distruggere se stessi ma è nell’assomigliarsi la fatica. Che il comporre equilibri esige un’infinita dolce pazienza, un’energia che ordina ad una stella d’accendersi nel cuore e nel pensiero. Che questo è tutto quello che a volte si potrà offrire e quasi mai verrà compreso.

scene da un matrimonio

In evidenza

Un film che colpì molto nel ’73, parlo di chi allora aveva 20 anni o giù di lì, fu “Scene da un matrimonio” di Bergman. Vivevamo in un Paese in cui, pur con il ’68 appena passato,  era meglio sottacere, far finta di nulla. Si discuteva di divorzio, ma il divorzio ancora non c’era, si parlava e si tentava l’amore libero, ma i sentimenti erano gli stessi di prima. Allora vedere che un matrimonio normale si rompeva perché lui s’innamorava di una sua allieva, ma poi le cose continuavano, i sentimenti evolvevano, si intrecciavano di nuovo, restava la sensazione che la vita era normale, dolorosa, difficile e civile. Un bel bagno di realtà, rispetto al ribollire di idee e di confusione che avevamo dentro e attorno. 

Di tutto quel film mi restarono in testa due scene. La prima era quella in cui Liv Ullmann-Marianne parla degli anziani zii, (vicini ai 70 e allora era già vecchiaia) che la sera si ritrovavano nel grande lettone e la vita sembrava ormai pacifica per loro. Invece la zia chiede il divorzio perché i figli sono grandi e non c’è più motivo per stare assieme, non c’è più amore. La seconda scena era il ritorno assieme dei protagonisti per una notte, entrambi si sono risposati, si dicono felici, si ritrovano assieme per un anniversario. Stanno cercando una traccia importante di loro nel presente, forse un futuro, anche se non lo dicono. Fuori c’è silenzio, freddo e buio. Che sia la solitudine il motivo?

Il matrimonio veniva visto come contenitore di sentimenti: l’amore si era svolto, poi l’affetto non bastava più e la soluzione risiedeva nella razionalità del divorzio. Ma pure questo non bastava per rimettere assieme vite e sentimenti. Come se il lasciarsi fosse comunque una ferita che non rimarginava perché l’amore era una risposta alla solitudine e questa permaneva per sempre, al più si attenuava. Così mi pareva che la tesi fosse che le vite procedono e includono i sentimenti, ma l’esito può essere lo stare assieme oppure lasciarsi e che l’una o l’altra cosa dipendesse dalle scelte contingenti e che alla fine tutto ciò dipendesse dalla solitudine.

C’era una logica stringente nella meccanica delle cose, gli amori nascono, crescono, finiscono e pensavo che questa idea era così naturale che la sapevamo tutti, ma lì funzionava e qui no. Forse perché in Svezia c’era la razionalità protestante mentre da noi diventava persino arduo pensare l’idea che i sentimenti evolvono, e così il bene delle persone veniva spostato verso una loro relativizzazione. Una sorta di utilitarismo legato alla famiglia come entità socio economica prima che come insieme di affetti e siccome non si era trovata una buona soluzione economica tutto veniva tenuto assieme, si derubricava la paura del disamore, la solitudine. Certo gli amori per una vita esistevano, e si raccontavano, ma non erano la norma, erano una conquista delle persone, non del matrimonio. Quello che stava dietro a questo evolvere assieme l’amore, non si indagava, era un patrimonio personale che si chiudeva in un incontrarsi e in un mutare assieme. Per noi che eravamo giovani, già il poter esibire l’amore, sperimentare, discutere era rivoluzionario. Bastava, e sembrava che alla fine il cambiamento sociale collettivo avrebbe risolto tutto toccando motu proprio la radice del bisogno di stare assieme. 

Cosa e quanto è mutato da allora? In mezzo c’è stata la legge sul divorzio che ha tolto molta ipocrisia, sono scomparsi (ma ora tornano trionfanti) i vecchi partiti del si fa ma non si dice ma questi anni sembrano aver riguardato il contorno, il sesso, la liberalizzazione di alcuni comportamenti mentre sull’evolvere dei sentimenti, su come le persone possono educarsi all’amore e anche a lasciarsi, non c’è stata una consapevolezza sociale profonda. Perché non si indaga abbastanza su questa solitudine che si insinua tra di noi e che nessun contratto riesce a sciogliere?

La domanda che si fa Marianne-Liv Ullmann, anche oggi pare abbia solo risposte personali e che in fondo non sia mutata:

“Credi che viviamo in una totale confusione? Credi che dentro di noi si abbia paura perché non sappiamo dove aggrapparci? Non si è perso qualcosa di importante? Credo che in fondo c’è il rimpianto di non aver amato nessuno e che nessuno mi abbia amato?”

Ecco questa forse era una radice del problema, ma allora esisteva il cambiamento, la psicoanalisi, gli psicofarmaci, e tutto veniva semplicemente rinviato ad un oggi in cui tutto è scontato e nulla è approfondito. Leggevo nell’ultimo libro di Paolo Giordano, Tasmania, l’evolvere della sua vita di coppia e la frase che a un certo punto pronuncia alla sua compagna, che è molto più innanzi di lui nella comprensione dell’amore come rifiuto dell’egoismo: non vedo noi nel futuro. E infatti il suo apporto alla vita di coppia è fatto di indecisioni personali, di dubbi, di paure sul futuro della specie e sull’inarrestabilità del degrado climatico, tutto concreto, ma paralizzante e non genera una catarsi nell’amore. Ci sono amori che si formano attorno a lui, ma sono atipici, disorientanti e non si chiede della natura di questo evolvere. Non analizza, eppure è un fisico, un uomo di scienza.

Ai tempi di scene da un matrimonio era più semplice, l’evoluzione dell’amore era all’interno di un paradigma codificato che se viene scardinato genera un altro amore simile, difficile ma ripetitivo. Ciò che non è accaduto è rendersi conto che la cosa di cui più si parla, l’amore, non può essere espunta dalla società. E’ un fatto personale e collettivo, ha aspetti pubblici e privati, ma ciascuno ha a disposizione le soluzioni che l’educazione, il sentire, il contesto gli offre. Ora esaminare l’amore ai tempi della possibile estinzione, cosa significa? Parlarne adesso significa considerare che l’amore romantico è mutato, è diventato specie e interpello personale, ma anche problema di massa che non ha adeguate risposte. E questo lascia attoniti.

Willyco.blog

Willyco è l’abbreviazione di Willy coyote. Personaggio che mi è particolarmente simpatico.

l’oppio dei popoli è la disperazione del cambiare davvero

In evidenza

Li conosco i soddisfatti, i lavevodettoio, gli acidosi da maalox, che con il sorriso dell’ovvietà bieca percorreranno circonferenze di chiacchiere per tornar da capo. Chi aveva capito (cosa? come?) si vanta: il populismo ha fatto cadere i potenti, ne ha visto per tempo i piedi di sabbia, ed è stato pronto per essere scelto. Nulla aveva fatto prima, nulla farà poi, una scelta perfetta. La conservazione sceglierà i suoi. Il resto, l’opposizione, poco abituata ad esserlo è confusa, ricorda un passato furbo in cui non occorreva il consenso per avere il potere, ma ora? Nell’ombra si muovono appena i pupari, basta poco perché le cose vadano secondo quello che si aspettano. Neppure liscia o il pelo al gatto di turno, non ne hanno bisogno : chi non vuol cambiare punterà su di loro perché nulla cambi e la mediocrità eccella in ciò che è insostituibile, ovvero convincersi di interpretare ciò che davvero ciò che pensa la gente.

Nel Pd, moti browniani, la fisica e la politica sono ricche di similitudini, un po’ di altezzosità e gestione di ciò che si può. Ciò che si deve da tempo non esiste più e chi dovrebbe capirlo si lamenta di non essere capito. Dove andremo se non in braccio ai negromanti che leggono passato e futuro allo stesso tempo, quelli che vivono in torri di qualunquismo e si informano, leggono più giornali, parlano tra loro e si convincono. Professionisti dell’esegesi, non camminano (scendono) tra le persone di cui parlano, si informano se il popolo ha fame, se è inappetente, se è satollo.  Hanno contratto quella malattia che nel Pd è nella sinistra, si conosce bene ed è afasia strutturale del capire politico, ovvero  il problema è altro, non capite e comunque l’avevo detto.

Quando cadrà la destra ex missina? Difficile dirlo, forse l’economia che cede, oppure l’inflazione e il lavoro sempre più povero, o ancora gli avvenimenti europei. Spero cada sulla riforma costituzionale in fieri, ma vorrebbe dire che gli italiani amano questa libertà ricevuta gratis dai nonni, temo le trappole del centro perché strizzano l’ occhio ai poteri esecutivi rafforzati e ai presidenzialismo, scordando che è l*equilibrio dei poteri che difende la democrazia e i suoi diritti dagli autocrati. Sanno i professionisti dei poteri forti che in un paese determinato a risolvere i suoi problemi, cadranno tutti, perché si reggono sul contrasto e non sulle idee di futuro e sulla proposta vincente di un cambiamento che affronti la diseguaglianza crescente.

Forse per questo il conservatorismo dei privilegi ancora reggerà, perché genera un sistema vuoto di proposte e pieno di problemi, dove il lavoro povero non permette che le persone abbiano speranza di crescita sociale. Qualcuno si ricorda dopo Berlinguer, Moro, Occhetto e Prodi, qual’è stata una proposta politica riformista complessiva che sia durata più di due anni? La più recente idea è di 15 anni fa. Ecco, il male è dentro questa assenza di risposte che diano un motivo alla sofferenza, perché se c’è da soffrire, un motivo, una prospettiva futura ci deve pur essere. E non mi piacciono quelli che avevano sempre saputo, e guardavano. Guardavano e basta.

fratture

In evidenza

Bisogna rendersi conto che esiste la frattura. Nelle cose è facile ammetterla, persino porvi rimedio, più complessa è la sua gestione nei rapporti tra persone perché dolorosa nel sentire e perché traccia un prima e un dopo, senza ponti. Resta il ricordo. Dovrebbe essere ripulito dalle nostre scorie, riportato a fatto, essenza pura. È più facile ricoprirlo di indifferenza, di rancore, togliere lo smalto a ciò che è stato perché ora non è più. Questa mancata persistenza, ferisce, questo genera il rancore. Sapere di essere sbiaditi, non più importanti, cancellati, tocca nella considerazione di sé, ma c’è altro su cui si fonda la ferita. Nella rottura, qualunque essa sia, l’uno scriveva ancora una pagina e immaginava ce ne fossero altre, l’altro, sia esso umano o oggetto, ha già chiuso il rapporto. È una tazza che cade e si frantuma, un libro perduto, un treno di cui si vede l’ultimo vagone, comunque sia accaduto: è finita una storia. E chi usa lo scrivere dovrebbe sapere quando è tempo di concludere perché ogni ulteriore passo è nel nulla.

Chiudere porta con sé un silenzio, differente per ogni caso. È quello della scopa che raccoglie i cocci, rumoroso e costernato. È quello della banchina svuotata della stazione ricca di voci estranee, o, nella consuetudine, quello della mano che si ferma e non cerca più il contatto. La mente è divenuta consapevole, ha capito che è finita la storia e ora c’è il momentaneo vuoto che porta ad altro. Questo altro non esiste ancora, ma esisterà e non sarà uguale, non rimpiazzerà nulla di ciò che si è frantumato, sarà altro e nuovo.
Per questo, forse, neppure un saluto è necessario, per sancire dentro che quanto ha avuto una sua bellezza non è recuperabile. Deve restare solo il bello nel ricordo.