elogio della perfezione imperfetta

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A tutti, l’insegnamento della perfezione, e del perfettibile, viene inoculato con la crescita. Ci si misura tra ignoranza e fare, tra modelli e realtà, così l’ansia da perfezione si trasforma in ansia da prestazione. Con un ottimo curriculum di pressapochista, di fancazzista di talento, di inesperto nelle arti maggiori e minori si può aspirare a scalare i più alti gradi della scala sociale, di collocarsi in quella sfera prevista dal principio di Peter, dove il dubbio sulla capacità e l’incompetenza si fondono, ma sono già collocati così in alto da essere poco scalfibili. Credo dipenda tutto dallo scarso uso del riso e della serietà della satira sostituiti dal dileggio e dal gossip, entrambi non solo inefficaci nel far vedere i veri limiti del soggetto, ma soprattutto laudativi del potere di esso e quindi rafforzativi di un potere che se si merita l’attenzione e il sussurro dovrà pur essere importante. Conoscendo bene le qualità dell’incompetente per personale esperienza, posso affermare che solo l’ego può mettere argine alla patacca reiterata e che solo la brutta figura diventa un deterrente credibile a chi ha una fiducia illimitata nel farla franca. Allora raccontiamola bene: esistono due tipi di umanità, gli inadatti consapevoli e quelli inconsci, ma la differenza vera è che entrambi si distinguono in realtà nella speranza di farla franca. Per questo le università si riempiono di esperti, di sapienti, di competenze che producono inesperti, tuttologi, incompetenti rispetto allo studio effettuato e in piccola misura, invece, nascono inventori, professionisti capaci, specialisti che saranno coordinati spesso dalla prima categoria di incompetenti. Da ciò, se le premesse sono giuste, se l’esperienza non ci inganna, se ne dovrebbe dedurre che una società sostanzialmente pressapochista e un po’ cialtrona, ha al proprio interno un oscuro collante che la tiene assieme e la fa evolvere. Solo che raramente il collante viene riconosciuto e osannato mentre l’onesta mediocrità ha il potere, guida, governa, legifera, promuove, giudica, affonda e innalza secondo suoi criteri e convenienze. Quindi sembra che il mondo abbia una serie di falsi obbiettivi: un’ansia da prestazione su cose che produrranno ben poco, un focalizzarsi sul gesto, sul particolare e non sulla somma delle cose fatte. Mentre se si parla di prestazione si dovrebbe considerare lo specifico e l’insieme, la riproducibilità e l’inventiva, l’errore che genera il nuovo ma questo esige che chi governa queste cose sia fattore di unione, abbia visione ampia, veda l’errore e lo sani, governi essendo un capo, cioè colui che anche l’ultimo dei suoi riconosce come tale. Così la prestazione non bara, ha un valore economico, è competenza e non è patacca.

Ma che conta tutto questo se invece di inoculare l’idea della prestazione si passa all’idea della perfezione, cosa ben più dinamica e misericordiosa della prima? L’idea della perfezione si può misurare con qualsiasi cosa, è un rapporto con sé prima d’ogni altro, accantona gli insuccessi, non li mostra e soprattutto tratta bene chi ha gli stessi problemi. La perfezione, sapendo di non poterla raggiungere, porta con sé la pazienza, spesso l’ironia che porta a ritentare. Si sa sin dall’inizio che è un processo asintotico, che quanto più bravi ed esperti si diventa, tanto più si vorrebbe trasmettere la piccola competenza raggiunta perché l’opera venga continuata da altri. In questa continuità c’è la dimensione della ricerca della perfezione, ma questo non ha grandi riflessi sulla società perché la perfezione non è di serie e quindi non ha un valore economico di massa. È un procedere per cultori, per iniziati e se lo sono davvero, non hanno l’ansia da prestazione ma l’ironia del far bene, dello stare assieme, del condividere ciò che si può. In fondo chi cerca la perfezione sa di essere ignorante, poco intelligente, scarsamente preparato, chi invece ha la sensazione del ruolo, del potere, della mansione riconosciuta pensa di essere adeguato e di poter aspirare a più di quello che ha. Il fatto è  che la perfezione è un dialogo con se stessi, mentre la prestazione è un dire ad altri cosa devono fare non sapendolo fare.

aria d’autunno

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La città si riempie di giovani attese:

riaprono le scuole

e son finiti i giorni delle strade vuote

nell’ indifferente calura.

C’è un tempo in cui si smarriscono le fragili virtù:

che s’allontanano da noi,

lasciando il suono delle foglie

nell’aria d’autunno.

Così tra folate di traffico improvvise,

il ricordo diviene passatempo,

e il futuro, un’attesa, senz’ ansia di risposte,

allora penso, incauto e allegro,

a mettere il tempo al posto suo giusto.

la grande bellezza

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Mi racconti di come la città sia scivolata dalla speranza alla disillusione, di come la bellezza si sia velata, nascosta in sé, retratta per sdegno. La spazzatura che si accumula, la metro che si ferma, gli autobus senz’aria condizionata e l’impressione di un’ anarchia da rotta che induce il pensiero dell’abbandono. Ma chi non può andarsene, chi è affezionato alla bellezza. Chi la sente come propria motivazione, compagnia, sorella del vivere, che può fare se non oscillare tra la protesta che arrossa il viso e sbotta nelle parole poco ragionate di chi subisce un torto e la rassegnazione che, al pari della bellezza, ritrae in sé, attende tempi migliori; in fondo contando sul fatto che l’evidenza abbia infine una ragione?

Ti confesso che, distante e quindi poco addentro alla meccanica dei ricatti che indubbiamente si sono instaurati generando impotenza, sarei propenso al decidere forte, uscendo dall’infingardaggine, magari per poi pentirsi, ma almeno aver fatto qualcosa per mutare ciò che sta attorno, e quindi sé. Un paio di mesi fa, a Napoli, capitale anch’essa derelitta e conservata solo nelle parti in cui la bellezza deve mostrarsi perché evidente, visitai al museo archeologico nazionale, le collezioni classiche dei Borboni, ad essi giunte o per scavi a Pompei ed Ercolano, oppure attraverso l’eredità dei Farnese, e di quella statuaria imponente mi restò l’impressione, assieme allo stupore per tanta bellezza creata, che solo un tempo si potè conservarne l’idea del goderne, del mostrarla, dell’indicare l’assenza di misura proprio portandola a cultura, a meraviglia. Ciò che serviva ai potenti per magnificare sé, serviva poi a tutti, per cui l’appartenenza ad una città, a un luogo, a una stirpe, generava rispetto e cura, mentre ora, che in piccolissimi interessi s’era dissolta l’idea d’ essere partecipi di un tutto, emergeva una sciatteria e un disprezzo del bene comune che alla fine generava il brutto. Non è forse questa una delle idee che abbiamo della bruttezza, veduta nell’incuria di sé, della propria immagine, della possibilità d’essere anche per altri e non solo per sé? Per questo, quando mi racconti delle tue giornate faticose, sento il limite di un Paese che non trova una via d’uscita alta, che non crea un orgoglio e una cultura adeguata al tempo, ma si perde nella furbizia e nel tornaconto. Neppure i potenti sanno essere tali e si valgono di mille piccoli interessi che non sanno dominare e sono da essi ricattati. Quindi non il diritto e il giusto, ma l’abuso, il privilegio e la furbizia elargite che poi si riversano su chi è più debole e non può difendersi.

Di questo ho tristezza, come della spazzatura che si accumula agli angoli e penso che noi tutti diventiamo rifiuto nel perdere dignità, nel non usare fermezza e mano dura contro i furbi che nel privilegio sguazzano. Si corrompe un’etica, se mai c’è stata, del bene comune e con essa, dal basso, si compiono tante piccole sopraffazioni. Questo non tollero e, seppur distante, ti capisco. E sento come un ferire noi tutti il continuo non affermarsi del diritto, ma dell’abuso. Io spero ci sia una via d’uscita, lo spero per tutti noi e non per quelle frasi fatte che dicono che il pesce puzza dalla testa, ma per la convinzione che senza uno scatto d’orgoglio smotteremo anche noi in una china dove l’essere stati sarà solo ricordo e tristezza per non aver saputo, voluto, potuto.

tempo 2.

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Frammento sulla fine della giovinezza … 

Non era coinciso nulla. Maturità, attese, posizione, amore, situazioni. Nulla che avesse un posto predefinito, che potesse far dire: c’è un prima e quindi un dopo. Così nel flusso tutto, semplicemente, continuava mutando. Anche i fatti avevano una loro singolarità, ma erano fatti. E non era un giudizio di valore, certo che l’importanza veniva sentita, ma erano accadimenti, con una loro meccanica che includeva il mutamente. E non poteva essere diversamente proprio perché erano importanti ma umani. Forse che prima d’essi, non c’erano stati altrettanti, e magari più profondi, mutamenti? E allora se non si quietava il confluire dell’accadere, nello scorrere tranquillo (pareva che l’idea di flusso fosse quanto di più vicino al tempo che viene vissuto, indossato a pelle, e acconciato a sé), se questo non s’allargava e rallentava, allora non si capiva dove fosse un prima se non per cronologia, oppure per quella localizzazione che era più una mappa dell’anima che di luoghi.

Si poteva dire: allora, in quel giorno, ero qui, sentivo questo. E la geografia di sentimenti avrebbe avuto un suo perché assoluto, com’ essa fosse il vero portolano che descriveva la rotta d’ una vita. Però di molti anni non restava traccia, come se essi si fossero consunti in un grigiore di candele senza presenza. Neppure delle infinite sequele di piccoli piaceri, di incontri, di discussioni accese, di mondi ardui, di sentenze scavate a fatica, feroci, apparentemente definitive, restava traccia, come se quel lasso di tempo lungo, e in sé ben vissuto, fosse infine privo d’un colore definito, e per questo utile a sé solo. Guardando il passato, esso era una sconfinata serie di piccoli avanzamenti, un pullulare di fatti, di cose, di eccezioni uniche, poste su un turbolento orizzonte avanzante e non una sequenza lineare per cui ciò che era stato nuovo, ora fosse in uno scaffale. Semplicemente era stato prima. Non era definitivo in sé, era accaduto e non aveva chiuso nulla davvero. Quindi la vita poteva essere una infinita serie di aperture o di chiusure e stava in noi scegliere l’una o l’altra condizione e quindi il definitivo prima e l’assoluto dopo.

E la giovinezza finiva davvero assieme alla sua follia? E se la follia non terminava sarebbe sfociata nella pateticità? Chiedersi quando finiva la giovinezza era dare una data alla follia del corpo, all’eccesso portato sorridente oltre il suo limite, ma il pensiero che lo guidava, che attingeva goloso al nuovo e lo gettava in quel flusso, ed era ricco d’ansia costante d’incompiuto, di lasciato in disparte, e di nuovo che sorgeva, poteva esso generare, combinando tutto, una condizione d’essere non connotata. Libera da collocazione e ruolo, rispondente a sé e alla propria percezione del mondo. Pensava di sì, perché non poteva fare altro se la vita apriva. E solo il patetico, e il suo farsi ridicolo, era da evitare con accuratezza, per non essere caricatura di se stessi. Insomma corrispondere a ciò che era ed evitare, l’insania suprema del ridicolo. Assomigliarsi per vivere bene il tempo proprio, non un’età.

azzerare

Vorremmo azzerare i passati, a volte, non spesso. Dipende da quello che ci avviene e deve essere forte, tanto da desiderare di derubricarci da quell’agenda fitta di fatti, luoghi, persone che sembrano frapporsi tra noi e l’innocenza. Un essere prima d’altro essere stato. Ignorare, dormire e svegliarsi nuovi perché gli errori siano anch’essi privi della muffa del già provato, sentito, visto. Privi di noia e nuovi, senza sforzo, per processo naturale in uno statu nascendi che ha in sé ogni strada, ogni possibilità per lasciarsi travolgere dal nuovo. Innocente e senza passato. Basta non chiedere, non ricordare, non avere paura di provare. Basterebbe…

svolte

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L’edificio è al buio, ha avuto luce a lungo e ora si appresta per la notte, ma sopra la luce lo investe e sembra a lui inutile. Non a me che lo vedo e che colgo l’edificio e il cielo, assieme, congiunti.

Noi siamo struttura. Stanze comunicanti con corridoi. Pertugi e passaggi. Cantine e soffitte. Belli o brutti secondo il gusto del tempo. Solidi e fragili. Contenitori di pensieri, insomma. Ma dietro di noi, o in alto, cosa c’è. A malapena ci giriamo, guardarsi attorno sembra sia insicurezza, eppure qualcosa ci aspetta e pensa per suo  conto a ricombinare le nostre scelte.

Nella mia vita ci sono state svolte. Parecchie. Non ho avuto percorsi lineari. Alcune svolte, importanti e inattese, mi hanno fermato per un momento sulla soglia, poi la sconsideratezza mi ha spinto oltre. Saggiare, imparare, usare l’umiltà di non sapere. Non so cosa sia rimasto poi, a me molto. 

Altro mutare era collegato al sentimento. All’attrazione, che si trasforma, interpella, vuole una risposta precisa, ma è già amore. Queste sono svolte che mutano dentro. Forse il per sempre di cui parlano, è questo: l’essere definitivamente mutati.

Il lavoro spesso mi ha chiesto di osare. Mettere lo sguardo appena oltre quello che pensavo un limite, una condizione acquisita. Per un po’ nasceva silenzio e solitudine. Ma cosa tempera il silenzio se non la voglia di creare, di fare qualcosa che a partire da condizioni date muti il luogo in cui siamo finiti? Il silenzio così trovava le sue parole.

E’ un caso? Non credo, come per ogni possibilità c’è stato qualcosa che dentro di noi l’ha generata. Allora è vero che siamo struttura, ma anche divenire, sogni, luce che investe dall’alto. Come il cielo oltre l’edificio, nella sera che osa la notte, nel giorno che resiste, nella mattina che attende.

Noi, me. Non solo connessioni e stanze, abitudini e attese.

Ieri era così buio.

Non solo.

 

a cercar oltre la rossa primavera

Sono una piccola parte di un processo sociale e politico, nella mia libertà esercitata, appartengo, m’appassiono, condiziono la vita e ne sono condizionato, ma per scelta. Una persona che vive così cerca un compromesso per vivere, un accordo tra i principi e la realtà. Non lo si fa forse ogni giorno nell’esercizio delle passioni domestiche, nei piccoli grandi amori che c’accompagnano? Perché quindi le passioni civili non dovrebbero irrompere ed essere contiguità del nostro vivere. Così mi pongo domande, soffro ed esulto per cose che una parte grande dei miei amici ( ma vorrei dire per gran parte dei cittadini di questo Paese) sono importanti e marginali. Importanti quando accadono e marginali nello svolgere personale del vivere. Ecco, invece per me queste cose sono importanti e basta.

Parlare di passioni, di amori, di problemi quotidiani, di lavoro, in fondo è facile. Si sente il pathos e raramente il giudizio morale, si empatizza con chi racconta, ma se tutto questo si trasferisce in politica, allora il primo giudizio è negativo, poi il resto diventano considerazioni da perditempo. Si discute di politica come si discute di sport, ovvero senza giocare e si ha sempre la risposta per vincere. Per questo semplifico il discorso, procedo per giudizi netti, perché l’argomentare risulta, alla fine, poco efficace. E’ come se, pur essendoci attenzione, si dovesse derubricare il discorso, sfumarlo. Come si fa del resto quando c’è un retro giudizio morale che fa dire: sì, ma…

Sono quindi un rompicoglioni moderato dal dubbio, dal dubbio che chi ascolta, davvero senta cosa per me rappresenta ciò di cui parlo e quindi appartengo a una categoria politico sociale fatta di solitari (lupi o meno), che non coagula consenso, non trova ragione di gruppo per la propria visione, che è al tempo stesso, analitica e dubbiosa. Però ritengo che questo modo di vedere, post ideologico, sia l’unico che può ancora sorreggere passioni forti. Ché le altre si nutrono molto più della convenienza e del disegno futuro di sé, più che del gruppo e della prospettiva forte che dovrebbe tenerlo assieme. Così in questi giorni, tra i miei pochi compagni d’idee, con cui ci si ritrova e s’approfondisce, emerge che la vera battaglia sarà lunga, che stancarsi è facile, che una fiducia a un governo che assembla l’acqua e l’olio, è, al più, atto di necessità furba, ma che la vera scelta è dare il giusto peso alle cose e che la battaglia vera si combatterà al congresso del PD. Sconcerta vedere che il distacco tra votanti e partito democratico, nei parlamentari scompare, che dopo i riti, siano essi le primarie, la nomina del Presidente della Repubblica o il governo, con sollievo si passa alla normalità. Tipico questo delle religioni vuote, dove il rito diviene lo scopo. Ma la normalità ha pur sempre una carica enorme di realtà e di verità, e nel lavoro parlamentare, nelle leggi, nei provvedimenti governativi, nelle priorità e nei modi di soluzione, emergerà la differenza tra chi considera il mandato come tale, ovvero come interpretazione dell’elettore e chi invece scinde la fase delle elezioni da ciò che avviene dopo. I provvedimenti veri, e il discrimine, riguarderanno il conflitto di interessi, la giustizia, la legge elettorale, la corruzione, la legge sui partiti, la riforma dello stato, l’evasione fiscale, i privilegi della casta. Qui si misurerà il governo e la sua innovazione e nel consenso o dissenso, la coerenza di ciascuno. Ma collettivamente, questo sarà il prodotto della battaglia congressuale che porterà il PD fuori dalla terra di nessuno in cui si trova e lì si verificherà se esse potrà essere un possibile contenitore di passioni, il luogo di maggioranze, ma anche di minoranze forti e decise, che producono una visione del reale legata a un progetto di società e di diritti individuali oppure un insieme di interessi, di parti che conciliano dove hanno meno da perdere.  Il resto è solo un passaggio dove la mediocrità del sentire è stata soverchiata dalla scienza del mediare. Non il migliore dei mondi possibili, ma una possibilità.  

Ha vinto Macchiavelli, le leggi del potere sono ferree, e non poteva essere altrimenti, però… Ecco bisogna considerare che se il potere è fatto di lucide geometrie, la passione ha una sua nitidezza semplice e solo noi possiamo derubricarla dalle nostre vite, scegliere le complessità che nascondono la difficoltà del giustificare a noi ciò che facciamo e non facciamo.  Passare il proprio tempo nel tentativo di mostrare che Macchiavelli non sempre ha ragione, sarà pur cosa da perditempo, ma è un gran modo di vivere.

la libertà e i sognatori

Se son benevoli, al più diranno che siamo fuori della realtà, destinati a vivere di sogni, eterni ragazzi che corrono dietro alle passioni d’un tempo.

E’ vero che ci perdiamo un poco quando pensiamo alla libertà, che lasciamo che ciò che racchiude la parola apra il cuore e faccia d’un sentimento individuale la presunzione d’un bene di tutti.

E’ vero che per la libertà abbiamo un’attenzione speciale, qualcosa che ci fa litigare, noi che siamo pacifici, è vero che la nostra libertà fa fatica a compiersi e quindi spinge sempre ad interessarci di cose che sembrano perdute, come la cosa pubblica, la politica, il bene comune.

E’ vero che questa parola così individuale nel sentire, non si riesce a racchiudere in qualcosa di solamente proprio, che c’è bisogno di pronunciarla abbracciando, e ci fa sentire molti solo al pensarla.

E’ vero che è stata usurpata, che ne hanno fatto la sigla di un partito, come essa potesse essere solo di una parte. Un partito, che proprio libero non è, visto che chi decide è uno solo.

E’ vero che è una parola e un sentimento di tutti che nessuno ha il diritto di sporcare e di sentire solo suo. E’ vero che essa ci appartiene e solo noi possiamo cederla ad altri, se non lottiamo per essa.

E’ vero tutto questo, ma noi siamo sognatori e ancora pensiamo che ci sia una religione della libertà che spinge a fare cose inaudite, a superare ciò che sembra impossibile. Un giorno fu Resistenza, lo è ora come allora, perché la libertà è esserci, ed anche se non è più solo resistere, adesso è fare e non lasciar decidere al nostro posto. Applicarsi al mondo e capirlo con la pazienza che solo il rispetto può dare. Ecco la libertà è rispetto nel fare ciò che si sente dentro, per questo la libertà non prevarica, ma permette, essa sola, di essere davvero.

Forse per questo i cinici, gli infingardi, i prepotenti, gli arroganti, sentono che la libertà l’abbiamo noi che sogniamo. Ed è solo invidia per le nostre passioni così piene ai loro occhi, per il nostro guardare avanti con speranza, ed è anche la paura più grande di chi opprime, perché la libertà riemerge e tutto ciò che l’ha conculcata sparisce, diventa polvere e passato. Per questo siamo lieti di sognare, non solo oggi, ma ogni giorno.

Buona festa della Liberazione a tutti i sognatori.

nel web il liceo non finisce mai

Il web ha certamente un’azione rafforzativa per quella che, in occidente, è stata la generazione più fortunata della storia dell’umanità: niente guerre, una longevità crescente, benessere diffuso, mobilità sociale, scolarità disponibile e gratuita, ecc. ecc. Se una caratteristica di questa generazione è quella di non farsi da parte, in questo non poco favorita non solo dalla predisposizione naturale, ma anche dai provvedimenti dei governi, si può rilevare che anche questa è un’anomalia storica sia per le dimensioni, che per i modi, infatti precedentemente si facevano invecchiare precocemente i giovani (l’età della ragione e del conformismo) per sostituire la generazione precedente, piuttosto che mantenere giovani i vecchi. 

In questo il web, con la sua carica di liberazione e di alterità, è specchio e rafforzativo di una tendenza. Aiutati da questa rivalutazione dello scrivere come mezzo comunicativo, non pochi riscoprono vocazioni poetiche che sembravano finite con l’esame di maturità, altri liberano lo spirito critico proprio dell’età della discussione, per molti, emergono interessi e passioni insospettate, anche una leggerezza di sentimenti diventa possibile, amori che in altre età si sarebbero scartati, prendono consistenza e si svolgono mescolando reale ed immaginario. Insomma abbiamo i sintomi caratteristici dell’età nascendi, dove tutto è possibile, e tutto si sente, si scopre, si vive.

Questa virtuale età liceale ritrovata, soffre, o ha il vantaggio, di convivere con l’età cronologica: grandi speranze, grandi sensibilità, grandi dolori rimescolati con una vita svolta.  Nel riportare consistenza nelle vite, conta il discernimento, lo spirito critico, il fatto che la realtà irrompa costantemente, che l’intorno, la crisi dell’occidente tiri la camicia che spavaldamente si era lasciata fuori dei calzoni, però questa sensibilità ritrovata è un elemento del vivere, non l’unico cosicché, seppur prepotente, media, e il bagno di realtà mantiene aperta una porta di leggerezza, poesia, sentimento, speranza e malinconia. Non è poco per ora, poi le tecnologie e il cambio generazionale, comunque avverranno e la nuova generazione userà l’immateriale e il materiale, non come prosecuzione di una stagione della vita che non conosceva queste possibilità, ma piuttosto integrerà il tutto. Cosa ne verrà fuori è difficile da capire, se restasse più leggerezza, se la realtà intesa come duro confronto quotidiano che spesso esita in sopraffazione, si mitigasse, forse alla generazione più fortunata ed immemore, ne seguirebbe una consapevole della propria fortuna e perciò disponibile ad essere migliore. Potrebbe essere, speriamo.

Ogni tanto mi sogno la maturità, non ho paura dell’esame, non troppa almeno, mi pare solo una fatica immane che sembra non finire.

invidia e fascinazione

Tra le poche cose che resistono alla fascinazione, l’invidia eccelle. Anzi diciamo pure che l’invidia resiste a tutto. Anche alle passioni oltre che alla norma. L’invidioso instaura il dialogo, lo provoca, ma nel dialogo non si parla dell’oggetto comune, perché ciascuno parla di una sua visione dell’oggetto, solo che l’invidioso, nel mentre ne parla, lo distrugge. Prima dentro di sé e poi esternamente, finché l’invidioso viene talmente attratto dalla distruzione dell’oggetto invidiato da non volerlo più, se non scomparso; così smarrisce ogni contatto con il reale, e naturalmente con la sua relativizzazione. L’invidia altera quindi talmente tanto la comunicazione da chiuderla, pur mantenendola aperta. Ascolta solo se stessa, e della comunicazione prende ciò che le serve per il suo scopo, ovvero la distruzione del positivo dell’immagine dell’oggetto desiderato. Quindi l’invidia è una passione negativa nel suo tendere all’assoluto del possesso, nel suo pervadere interamente chi la prova e nel brucialo come nelle passioni positive, ma, al contrario di queste, si chiude in sé e si autodivora.

L’invidia ha nella mia immaginazione lo stesso color rosso della passione, me ne sono chiesto spesso il perché, dovrei vederla nera, ma il nero è riservato all’odio come altra faccia dell’amore, l’invidia si dibatte nel proprio sangue, forse per questo la vedo rossa.

Perché la ritengo impermeabile alla fascinazione? Perché la fascinazione è parte dell’oggetto che l’invidia vuole distruggere, e solo esercitando una sua impermeabilità non  può essere convinta a salvarlo, a vederlo diversamente, ad apprezzarne la verità, ad accettarne la vita.

E così la fascinazione, nella sua modalità positiva dell’attrarre-essere attratti e quindi di comunicazione intima, è soccombente e non diviene un’arte del comunicare insinuante e fragile, gioco ammaliatore, sottile, biunivoco dove esiste una gara che viene vinta nell’esercizio critico e nella crescita di sé, anzi la fascinazione viene semplicemente usata, gettata nella fornace delle prove che giustificano la morte dell’oggetto di desiderio.  La prepotenza ammaliatrice di don Giovanni non potrebbe esercitarsi contro la donna invidiosa, Jago non è preso dal fascino della potenza vittoriosa di Venezia perché questa coincide con Otello, Caino, pur avendo notevoli doglianze da fare per la natura matrigna e per il mancato favore della divinità, non porta le sue ragioni, semplicemente risolve il problema alla radice, ovvero lo elimina. L’invidia distrugge l’invidioso, gli toglie l’allegria, la positività, lo marchia escludendolo dalla fascinazione, e con questo lo esclude (si autoesclude) dalla possibilità di essere felicemente attratto. 

E’ chiara una mia valutazione positiva del ruolo della fascinazione nei rapporti interpersonali, e anche con se stessi, ma di questo ci sarà modo di parlare.

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