lo so

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Lo so che il respiro lungo di questa notte, ancora calda, è la somma dei respiri che si muovono nei letti, l’affannare rotto dei desideri, l’aria impercettibile che si fa strada tra le labbra.

Lo so che questo respiro, che per un attimo si sospende, contiene tutti i sogni in corso, quelli scordati al levarsi, quelli che scivoleranno via con l’acqua del mattino.

Lo so che questo respiro riempie le strade, che viene tagliato in minuscoli pezzi dalle ultime auto e ricomposto dal camminare incerto verso casa, dal vagare senza meta.

Lo so che il respiro sale dai ciottoli e dalle pietre, dove s’era posato filtrando da persiane e imposte chiuse. Lo so che riempie gli spazi tra le case sino a traboccar sui tetti, che così riassume le veglie assopite, che spegne le luci delle stanze prima d’arrampicarsi irresistibile verso il cielo.

Lo so che questo sospiro ci unisce e ci divide, che ci spartisce, come coltello affilato, tra chi possiede una storia da raccontarsi e chi ne è privo. Ma so che ciò che divide ha sempre una speranza di riunirsi in un sogno già sognato.

Lo so che ciò che è diverso non lo è mai davvero eppure è irripetibile finché s’assomiglia ad un desiderio inappagato.

Ed io penso, sveglio, che questa notte non ha ancora l’odore delle tempeste d’autunno, ma sospira i ricordi delle nostre estati. Che la vita ha bisogno di noi. Che la tua estate e al mia sono così simili che ogni aggiungere è necessario e superfluo. Che l’aria tiene assieme, ed io respiro la tua e tu la mia, un poco tanto finchè sentirò il tuo cuore. E che questo ci è necessario perché contiamo noi, solo noi.

In un letto un desiderio s’è sovrapposto all’altro, incessantemente, sino alla quiete. Poi, nel sonno, dall’angolo di una bocca è scivolata una goccia di saliva: sembrava rugiada che aspettasse il sole, mentre il corpo si lasciava andare al sogno.

da est verso ovest

Stasera, tornando, avevo le Alpi Carniche alle spalle. Erano avvolte da temporali e i picchi emergevano tra nubi nere. Sono belle queste dolomiti, un po’ neglette, poco frequentate e i paesi non hanno quel kitsch che tutta la parte bolzanina e trentino veneta si sono trascinati dall’Austria. Ti sarebbe piaciuto vederle. Un pomeriggio mi fermai apposta a Ponte Rosso per guardare. Seduto a un bar di zona industriale, guardavo verso le cime che apparivano improvvise e nette tra le nubi che correvano. Credo di aver suscitato qualche commento tra gli avventori frettolosi che si chiedevano cosa quel tizio guardasse, tanto che mi chiesero, oltre all’ordinazione, se avevo bisogno di qualcosa, ma era di quiete che avevo bisogno e questa non si può ordinare al bar. Stasera invece ero solo, guidavo e guardavo. In autostrada ci sono questi ponti, che l’attraversano, semplici, tesi e dritti, con una ringhiera un po’ alta e qualcuno che guarda. Sono cinque, sei travi che poggiano su due rampe. Lì sotto, oggi, c’erano macchie di sole e sopra vedevi un grigio asfalto a pennellate larghe, che a volte sfumava in azzurro. Solo che quel grigio era il cielo, mentre l’asfalto, quello vero, marezzava di giallo. Ho avuto modo di guardare con attenzione quei ponti: rompono la vista, l’orizzonte, forse servono anche a non distrarsi e sono poco frequentati perché attorno c’è la campagna. Mi parevano dei boccascena. Solo che oltre si vedevano case, fabbriche, alberi senza confini, qualche macchia di pioppi da cartiera.

Sono arrivato al Piave e il ponte, lunghissimo, oscurava la vista laterale con transenne molto alte. Però qualcosa si vedeva comunque. E’ strano che sul ponte del fiume sacro alla Patria non ci sia un posto dove fermarsi. Non si può pensare, meditare su quello che è accaduto su quelle sponde: nel secolo scorso la guerra e il Vajont e non solo. Quest’anno, da giugno è stato quasi sempre una serie di pozze che comunicavano, immagino, carsicamente, e faceva pena quel mare di ghiaia, arido, senza una idea di fiume. Potevano chiamarlo: fiume secco alla Patria non sacro. Ma è spesso così, ormai più che un corso d’acqua è una nozione: lunghezza del ponte, nome, cartello. Però oggi, stranamente c’erano larghe vene d’acqua che attraversavano la ghiaia. Poca cosa, ma almeno aveva la parvenza d’un fiumicello.

Pensa che gli hanno cambiato nome perché la virtù mascolina del fare la guerra non sopportava che il fiume avesse un nome femminile: la Piave. Bisognava provvedere, ci pensò D’Annunzio. Anche la fronte non andava bene e la mutarono in il fronte. Le donne mica potevano assaltare, resistere al nemico, dovevano allevare i figli, dargli da mangiare non si sa come, e piangere compostamente i morti. Senza disturbare. Quei femminili nei fiumi e nelle cose di guerra davano fastidio  e così senza saperlo hanno genderizzato le cose, gli hanno cambiato sesso mantenendone la funzione.

Oggi comunque la Piave ti sarebbe piaciuta. Ho rallentato, cambiato corsia e ho visto quell’acqua limpida in mezzo ai sassi bianchi. Sarebbe stato bello sedersi con i piedi nell’acqua e guardare il grigio sui monti che contrastava con il biancore dei sassi. È tutta questione di luce, le cose diventano nette e anche i pensieri lo fanno. È durato poco ma quell’acqua mi ha fatto bene, c’era la continuità delle cose, la corrispondenza con le parole. Ho pensato che se anche era un fiumetto, uno di quelli che abbiamo a iosa tra i nostri campi e a cui nessuno penserebbe di cambiare nome, però questo era il fiume della Patria e che forse anche tutto quel bianco che rifletteva il cielo e faceva risaltare il verde dei campi era fiume e Patria. Così com’è adesso. Sulla Piave non ci sono argini, forse perché non ha mai troppa acqua. Ho pensato che quando accade che ce ne sia molta, di acqua, allora la Piave porta sfiga, quindi è meglio così: si vede che le centrali idroelettriche pensano alla nostra salute oltre che ai loro profitti.

Il cielo davanti era indeciso tra scrosci d’acqua e sole a manate, come se la stagione fosse in bilico e non sapesse più bene dove andare. Ho pensato che le facciamo correre troppo le stagioni, neppure ci accorgiamo di quello che ci dicono. Bisognerebbe fermarsi, ma un grill non è una cosa ferma, è parte della corsa. E noi dobbiamo sempre arrivare da qualche parte. Rallentare fa parte del vedere e del raccontare ciò che si vede, e oggi ti sarebbe piaciuto fermarsi assieme, scambiare il silenzio e qualcosa di quello che vedevamo.

ascoltavo:

del Kronos quartet parleremo:

cominciamo dalla sfera il divagare

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Materiale composito poroso, bianco. Ottone brunito e piombo. Legno invecchiato dalla luce del tempo, castano scuro. Una sfera, un peso da stadera, una credenza. La sfera è cava, sembra fatta al tornio per le irregolarità delle rigature concentriche, probabilmente è fusa e poi rifinita a mano. È uno spandi profumo acquistato anni fa, il materiale e la forma sono molto efficaci all’uso: l’essenza non ha lasciato macchie sulla superficie e l’aria attorno ne è piacevolmente pervasa. L’odore agrumato si è ben fuso con quello del legno e sente di far parte di quella mistura indefinibile che è il profumo di casa. Credo sia per questo che la sfera sembra molto compresa nel suo lavoro: la sfericità è concentrazione. Rappresenta un’autosufficienza monodica, che trae la polifonia dal riflesso, è come per il gregoriano che si avvale degli echi e della fusione delle voci per acquistare una sostanza inattesa, colora il buio, s’alleggerisce nella luce, ma alla fine torna a sé, punto di partenza e di arrivo.

La mia sfera bianca non ha altra fungibilità che essere ciò che è e sembra cosciente e orgogliosa di servire solo a quello per cui è stata fatta. Chi ama la geometria, nella perfezione di questa sfera potrebbe trovare una sottile bellezza, con quelle rigature che non toccano la forma. Volendo investigarne qualche esoterico significato dovrei trovare dei numeri.

S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, d’ambo i lati calpestio rimbomba 4/3 pigreco erre tre.

Calcolarne il volume e poi cercare lettere rivelatrici che la mettano in relazione con me. La Kabbala fantasiosa delle coincidenze suggerirebbe l’espandere delle previsioni sullo status e sulla coscienza di sé. Una scelta inconsapevole di forma e utilizzo che porta verso il profondo, l’intimo. Cosa molto emblematica nel passato: non a caso la sfera orna i frontali dei palazzi storici della città e si ripete negli appoggi, nelle volute delle scale. Discreta e presente, col suo rappresentare rammenta il coincidere di coscienza e perfezione del proprietario: Non nobis Domine, ma sappiamo chi siamo. Dovevano scrivere così sul timpano delle porte, bastava la prima parte il resto si vedeva.

Nonostante la spocchia che gira oggi, anche nella forma delle cose, comunque la sfera è un po’ negletta, troppo severa e rigorosa per essere un simbolo attuale, sembra arcaica nella sua perfezione, e sopratutto porta al meditare per superare il mito dell’innocenza e trovare l’autosufficienza. Oggi nessuno persegue l’autosufficienza e la gara è tra l’essere sul transatlantico oppure finire sulla zattera della medusa, la dimensione è l’apparire più che l’essere sufficienti a sé. La sfera sfugge allo schiacciamento della bidimensionalità che evoca la facilità del pressapoco. Aborre l’imprecisione, accetta di essere messa da parte piuttosto che ridimensionata. Il suo cercare l’equilibrio e la profondità ricorda che si perde spessore nell’approssimazione. È più facile toccare, assaggiare piuttosto che sentire e gustare a fondo, ma lontana dalla ricerca dello spessore anche la libertà è compromessa e nell’homo aeconomicus, lo diceva, anche Marcuse, ci si appiattisce e si perde orizzonte proprio perché manca lo spessore e la varietà che conteniamo dentro, e in esse la libertà e il riconoscere l’altrui dimensione, possibilità e libertà. Ma chi si ricorda più di Marcuse e di tutta la Scuola di Francoforte? Che poi mica parlavano di sfere ma di rapporti umani e di spessore necessario alla loro crescita. Ma torniamo alla nostra sfera, oggi negletta al pari di altre forme geometriche: il cono (algida a parte), la piramide, ad esempio, tutte poco frequentate, anzi dimenticate a favore del più banale parallelepipedo. Il loro essere generose e incuranti dello spreco di spazio le ha ridotte a curiosità nella nostra consuetudine di vita. Provate a cercare attorno quanti coni e piramidi vedete e anche nell’abitare osservate quanto poche siano le forme che non sono ritte e piane. Pensiamo tanto allo spazio ma solo perché si compra non per la sua utilità o bellezza, pensate al piacere di avere un bow window, alla luce che attornia da più lati. La sfera sarebbe perfetta per questo e le cupole geodetiche ne sono una bella approssimazione, peccato che non abbiano preso piede come modalità del costruire, avrebbero cambiato pensiero e percezione del vivere.
E se ci si pensa davvero si capisce che la bellezza non ha molta relazione con lo spazio, ha bisogno di compiutezza per cui essa si può realizzare nell’infinitamente piccolo, oppure nel senza limite per grandezza. Tra una reggia e una casa ci può essere la stessa sensazione di bellezza se c’è unità della proporzione e dell’armonia, del genio del rappresentare icastico ed evocativo e insieme la semplicità della linea. La sfera si pone alla bellezza come esempio arduo, difficile e compiutamente conclusa in sé, si approssima, si usa, è esercizio di profondità ma non si potrà mai rinchiudere nel costo dello spazio.
E la mia piccola sfera di materiale composito poroso bianco cosa c’entra con tutto questo? Nulla se non per la sua capacità di generare pensiero, di far emergere le sue sorelle di cristallo immerse tra solidi trasparenti nelle vetrine, di far proseguire il racconto verso il conoide della stadera, ma questa è un’altra diversa storia che continuerà il divagare.

un vino non si racconta

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Un vino non si racconta, si beve, lo si fa proprio, lo si distribuisce in tutti i centri di sapidità posseduti. Come ogni piacere. È strano dirlo ma vale anche per l’astenersi che opera per differenza, ossia si appaga d’altro e lo confronta dicendone il non bisogno. Perché il piacere resti intatto non si può raccontare, è come per l’opera d’arte; chi la concepì, la visse, si fece travolgere dal farla, non è sovrapponibile a nessuno degli spettatori che, al più, possono essere coinvolti dall’inventiva, dall’originalità ma col fatto solo di farla propria la contaminano di sé. Non accade, forse, anche in poesia quando si cerca l’universalità del tema sotto le parole mentre il poeta parla dell’emozione propria, del sentire unico che gli appartiene e che nello sforzo di diventare universale modifica chi lo legge? Se noi usciamo intatti da un vino buono, da un cibo mai provato, da un’opera d’arte che ci parla profondamente, se non siamo cambiati dall’esperienza, ma abbiamo solo aggiunto un numero all’elenco del fatto, del provato, del vissuto, ben poco dell’unicità ci ha raggiunto. E quando invece questo essere mutati dall’emozione nostra, sottolineo nostra, accade, sono gli atti successivi, la vita che non s’accontenta più del precedente a stabilire la differenza e l’unicità di ciò che si è provato. Per questo il vino non si racconta, i romanzi e le poesie si leggono, le opere d’arte si guardano e si fanno entrare. Le gioie non si raccontano perché sennò s’assomigliano e chi vorrebbe davvero assomigliare nel gioire ?

sterminata l’estate e il mare

La vacanza sembrava infinita. Non c’era una percezione del tempo, si procedeva sino a sazietà e il penultimo giorno era come il primo. Non si tornava mai prima di una fine naturale. Finiva agosto, finiva la vacanza. Erano quattro settimane precedute dall’inizio estate che pure era alterazione d’ogni abitudine e dovere, e quindi vacanza. Allora appresi il significato della parola sterminato e il suo applicarsi all’indeterminato tempo, luogo, spazio. Sterminata era l’estate finché durava agosto. Sterminata era la spiaggia che s’inoltrava tra le altissime dune, tra i fiori spinosi, tra le piante acuminate, tra i percorsi lunghissimi degli scarabei. Prima d’inerpicarsi su una cima, presa sempre di corsa perché scivolava e franava con noi, e prima di rotolarsi giù per un pendio sino al fondo di sassolini e sabbia, non c’era alcun pensiero di fine, di tempo. Era una corsa seguita da una corsa, un gioco che proseguiva in un altro perché oltre quella duna c’erano altre altissime dune, sino all’ultima da cui si apriva il mare. Messo di traverso al tramonto e più propenso all’alba, ma anch’esso sterminato e pieno di tempo, fantasia, cose. Fossero le vele o una nave lontana, i pesci enormi trascinati a riva la sera, i legni e le cose che ogni mattina faceva scoprire, fosse questo e il molto d’altro che mostrava, era comunque una piccola parte di quell’immenso che conteneva e si perdeva in una nebbiolina di calore, là, in fondo, nell’orizzonte. Incontinente il mare, ma contenuto in una testa ricciuta, in un corpo nero di sole, in un ansimare di fatiche gioiose. Contenuto, perché tutto sta dentro nella testa di un bambino, nulla è precluso e superare la paura coinvolge come il racconto che poi si farà d’essa. A cose fatte, nasce lo sterminato tempo di ciò che si potrà fare. Poi.

C’era un prima, un attendere insonne prima di partire, che faceva parte del magico rituale del lasciare, eppoi un dopo, un consumato tempo altrove che avrebbe reso estranea la porta, la scala, le stanze, persino i pochi giochi lasciati. Al ritorno la luce scemava prima, cambiavano gli odori, prima così forti ed estenuati di sole, e ora vellutati d’ombra odorosa di rosse fraganze e di frutta matura. Un senso di cominciamento, meno felice, era alle porte. Se sconfinato era il tempo della vacanza, lo straniamento del ritorno non faceva paura, casomai meraviglia. Cominciava qualcosa, e si era quelli di prima ma diversi, e ci pareva, nuovi.

la grande bellezza

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Mi racconti di come la città sia scivolata dalla speranza alla disillusione, di come la bellezza si sia velata, nascosta in sé, retratta per sdegno. La spazzatura che si accumula, la metro che si ferma, gli autobus senz’aria condizionata e l’impressione di un’ anarchia da rotta che induce il pensiero dell’abbandono. Ma chi non può andarsene, chi è affezionato alla bellezza. Chi la sente come propria motivazione, compagnia, sorella del vivere, che può fare se non oscillare tra la protesta che arrossa il viso e sbotta nelle parole poco ragionate di chi subisce un torto e la rassegnazione che, al pari della bellezza, ritrae in sé, attende tempi migliori; in fondo contando sul fatto che l’evidenza abbia infine una ragione?

Ti confesso che, distante e quindi poco addentro alla meccanica dei ricatti che indubbiamente si sono instaurati generando impotenza, sarei propenso al decidere forte, uscendo dall’infingardaggine, magari per poi pentirsi, ma almeno aver fatto qualcosa per mutare ciò che sta attorno, e quindi sé. Un paio di mesi fa, a Napoli, capitale anch’essa derelitta e conservata solo nelle parti in cui la bellezza deve mostrarsi perché evidente, visitai al museo archeologico nazionale, le collezioni classiche dei Borboni, ad essi giunte o per scavi a Pompei ed Ercolano, oppure attraverso l’eredità dei Farnese, e di quella statuaria imponente mi restò l’impressione, assieme allo stupore per tanta bellezza creata, che solo un tempo si potè conservarne l’idea del goderne, del mostrarla, dell’indicare l’assenza di misura proprio portandola a cultura, a meraviglia. Ciò che serviva ai potenti per magnificare sé, serviva poi a tutti, per cui l’appartenenza ad una città, a un luogo, a una stirpe, generava rispetto e cura, mentre ora, che in piccolissimi interessi s’era dissolta l’idea d’ essere partecipi di un tutto, emergeva una sciatteria e un disprezzo del bene comune che alla fine generava il brutto. Non è forse questa una delle idee che abbiamo della bruttezza, veduta nell’incuria di sé, della propria immagine, della possibilità d’essere anche per altri e non solo per sé? Per questo, quando mi racconti delle tue giornate faticose, sento il limite di un Paese che non trova una via d’uscita alta, che non crea un orgoglio e una cultura adeguata al tempo, ma si perde nella furbizia e nel tornaconto. Neppure i potenti sanno essere tali e si valgono di mille piccoli interessi che non sanno dominare e sono da essi ricattati. Quindi non il diritto e il giusto, ma l’abuso, il privilegio e la furbizia elargite che poi si riversano su chi è più debole e non può difendersi.

Di questo ho tristezza, come della spazzatura che si accumula agli angoli e penso che noi tutti diventiamo rifiuto nel perdere dignità, nel non usare fermezza e mano dura contro i furbi che nel privilegio sguazzano. Si corrompe un’etica, se mai c’è stata, del bene comune e con essa, dal basso, si compiono tante piccole sopraffazioni. Questo non tollero e, seppur distante, ti capisco. E sento come un ferire noi tutti il continuo non affermarsi del diritto, ma dell’abuso. Io spero ci sia una via d’uscita, lo spero per tutti noi e non per quelle frasi fatte che dicono che il pesce puzza dalla testa, ma per la convinzione che senza uno scatto d’orgoglio smotteremo anche noi in una china dove l’essere stati sarà solo ricordo e tristezza per non aver saputo, voluto, potuto.

anguriare non era un verbo

A giugno, improvvisamente, apparivano in ritagli di verde, accanto a strade che uscivano dalla città, sotto alle mura, in quello che era stato il guasto ed ora era prato senza giochi. Ancora, altre, erano vicine a crocicchi di periferia, oppure sotto agli argini dei fiumi che contornavano la città. Comunque mai in centro, erano giudicate, nella loro precarietà, poco consone ai palazzi, alle strade che avevano ricevuto innumeri passi importanti, però erano facilmente raggiungibili. Erano le “anguriare” in dialetto, e noi ci scherzavamo evocando un verbo per definire l’atto del mangiare anguria: io angurio, tu anguri, noi anguriamo, ecc. e giù risate. Le anguriare erano baracche precarie d’assi e travi, con vecchie panche e tavoli coperti d’incerata a quadretti rossi e bianchi. Allegre di bandierine verdi, rosse, blue, di carte veline ritagliate in casa, pavesate tra luci di nude lampadine. Bandierine e lampadine erano appese a fili di rame, vestiti di treccia di cotone, gli stessi delle case, e avevano l’anarchia del quotidiano tolto dalle case, con la stessa gioiosa precarietà che il moderno portava con sé.

Si arrivava a piedi o in bicicletta. Restavano aperte sino a tarda notte ed erano luogo di solitudine  o di conversazione interminabili davanti a una fetta d’anguria. Il bancone zincato, in quelle più pretenziose, oppure un piano di marmo, sotto una tettoia e di poco a lato, una grande tinozza piena d’acqua dove le grandi angurie sgomitavano e si raffrescavano per ore prima d’essere scelte, tagliate a mezzo e poi in quarti per essere consumate tra parole e silenzi, sputi di neri ossicini, pensieri,  risate. Le fette non vendute venivano messe sotto reticelle fitte che arginavano le mosche. Una parvenza di igiene dove nulla era davvero pulito, a partire dall’acqua che solo a volte veniva da una fontana vicina, ma più spesso da pozzi oppure addirittura dal fiume.

Mio zio prese il tifo in una estate molto calda in cui le anguriare fecero grandi affari. La colpa fu attribuita dai nonni, a frutti troppo maturi e a un melone che doveva essere già marcio. Fu portato all’ospedale, erano in sei in una stanza con le pareti bianchissime di calce, le suore infermiere avevano grandi grembiuli bianchi, le lenzuola erano rattoppate ma bianche e fresche di lisciva. Sopravvisse solo lui, era fortunato, lo fu sempre nella sua vita, oppure quella volta era solo più in carne degli altri. Mia madre si impressionò molto della malattia, dell’ospedale e del modo in cui si poteva morire. Lei piccola e suo fratello ancora più giovane ne facevano una simbiosi particolare. Così di quella vicenda, tragica e fortunata, restò traccia e ne maturarono divieti oscuri e scaramantici. Non si doveva mangiare la polpa rosea vicino alla buccia, meglio evitare gli infidi meloni, dopo aver consumato la propria fetta, disinfettare bocca e stomaco con un po’ di grappa. Se qualcuno fosse andato ad analizzare l’acqua  in cui venivano lavati coltelli e cucchiai per gli avventori dell’anguriara avrebbe trovato  che in quel catino dove l’acqua veniva cambiata al mattino, c’erano gli stessi patogeni della febbre tifoide che facevano compagnia alle angurie che galleggiavano nella grande tinozza. Il tifo era endemico ed ogni estate colpiva, ma per chi lo subiva o vedeva, l’aver trovato un rapporto di causa-effetto, scenografico e semplice, ne dava una prevenzione e una cura sciamanica che avrebbe reso immuni. Andava così e se le cose si sono scolpite nella memoria, e credo nei modi di trattare l’anguria, qualche forza nella parola-immagine ci deve pur essere.

Comunque frequentavo le anguriare nella mia giovinezza, nel loro rischio calcolato, nel fascino della luce fulgida e triste che le stagliava nella notte, nell’accozzarsi di persone diverse senza l’abitudine e la conoscenza dell’osteria. Ricordo la loro freschezza nella notte, i lampi veduti in lontananza verso i monti, il parlare più quieto nell’ora tarda, le prostitute che venivano a mangiare una fetta d’anguria, sospendendo il lavoro sulla strada e sui prati vicini, ricordo le sigarette scambiate a fine pacchetto, la bocca impastata di fumo e di sonno e la bottiglia di grappa che stava su un lato del bancone. Nuda, senza etichette e un tappo di sughero, un bicchierino costava più della fetta, ma ci voleva. Per disinfettare, per disinfettarci dentro da quella vita di deriva che pullulava attorno nella notte e che non aveva speranza. Noi avevamo una nostra allegria, vita davanti, passioni tutte nuove, ma loro che lavoravano in strada o già a quell’ora andavano al mercato o nei magazzini vicini a scaricare casse, che vita avevano? Solo bestemmie dette piano, e lavoro, un lavoro che consumava e niente speranza. Quella era andata negli anni in cui sembrava tutto possibile, il buono e il meno buono, e a loro era toccato questo, ma almeno il tifo non c’era più 

stanchezza

Sposto di poco un quadro; si vede la linea grigia del tempo. Segni in una stanza dove le pareti sono impregnate di me eppure indecise sul da farsi. Tentano e si guardano chiedendo se va bene. L’indecisione fa parte delle cose che non sanno mai che fare, dove stare, con chi stare. Quasi tutte sarebbero superflue, ma è quel superfluo necessario. Almeno un poco perché le nostre vite semplici non sono monacali, vogliono la semplicità ma anche l’essere libere da regole troppo severe. C’è già il super io con cui fare i conti, il resto dovrebbe essere un continuo spogliarsi degli abiti ricevuti.

Pulisco il muro, allineo le cornici. Ovunque guardi questi muri mi parlano; sono conseguenza di un immaginare coniugato all’essere, alla realtà. Quindi approssimano. Accade a tutti, o almeno a quelli che rifiutano un ordine esteriore imposto. Per questo sposto quadri e oggetti, tolgo e aggiungo. La casa è uno spazio quieto. Quasi sempre lo è. Però è uno spazio mobile. Le corse e il nuovo vi arrivano filtrati; sarà perché nella casa a propria immagine si può depositare l’inermità della stanchezza? La stanchezza viene da fuori, la distendo sulla chaise longue, la faccio sciogliere in un libro scelto a caso, la svuoto in una musica che conosce la battuta che segue. Insomma la tratto bene e col giusto tempo.

Tra le tante stanchezze, quella del dover fare, del ruolo, del dover essere è tra le peggiori. Puzza di libertà decomposta, di ragioni trovate per farsene, appunto, una ragione. Non ha la limpidezza del sudore, ma l’unto di ciò che non era nostro. E non basta una dormita e via, bisogna toglierla dall’anima. A questo servono i luoghi propri, a togliersi quegli abiti imposti e sentire la pelle.

la mia città e la bellezza

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Camminando per strade e piazze, riconoscendo luoghi, storie, godendo della bellezza che si è accumulata in quella che chiamo la mia città, sento che non è questione di merito e che nessuno di noi si merita ciò che gli riempie gli occhi e il cuore. Al più è stata fortuna d’essere in un luogo in un certo tempo, ma cosa abbiamo fatto per meritarcelo semplicemente non esiste. Quindi tutto questo non è dipeso da me o dai miei concittadini che vedo attorno. Neppure questa lingua bella e dolce è dipesa da noi, al più possiamo parlarla, trasmetterne la bellezza, ma non è un merito. E’ stato il caso unito a una serie infinita di fare e non fare che ha generato e mantenuto palazzi, strade, persone. Sono stati moti d’orgoglio, potenza, pietà, munificenza, paura, stupidità, insipienza, desiderio d’immortalità che hanno generato e tolto, ma basta seguire i passaggi di proprietà, testimoniati dai nomi delle case, per capire che chi ora possiede, al più è un custode. Ci sono 641 dimore storiche in città, gran parte sono gelose di sé e non si mostrano, ma questo poco importa perché c’è sempre un’evidenza che non si può nascondere, una curiosità che viene sollevata, e poi, col tempo, le porte si apriranno, perché se la bellezza non si rivela lentamente si banalizza, se non costa fatica non è preziosa, se non si indaga diventa apparenza.

La chiamo la mia città ma in realtà sono io che le appartengo ed è lei che dona a me affetto e bellezza. Al più posso un po’ amarla e se, con pazienza e attenzione, potrei tracciare la mappa di ciò che mi attrae, delle vie che conosco, delle sue opportunità, delle coincidenze, se potrei raccontare quello che so, e soffermarmi nel mistero di quello che ignoro, capisco che comunque sarebbe la mia interpretazione della sua bellezza, solo una piccola parte della sua. In questi luoghi si sono concentrate forze e ignavie immani, come dappertutto, ma ognuna ha avuto una storia propria e solo messe assieme hanno generato una bellezza specifica, non generica. Una identità. Se dicessi di ogni luogo amato sarebbe il mio modo di vedere, la mia concatenazione dei fatti, ma non cambierebbe di molto la percezione di gratuità del godere ciò che ho attorno. La fortuna è vedere ciò che c’è e lasciarsi prendere, senza ritegno e senza merito. 

bradipo

Corro, divoro vita.

Io no, aspetto che mi venga addosso. Ho esaurito da tempo l’idea che la corsa mi dia di più del capire, che l’esperienza abbia un valore se non mi da nulla e non mi rende almeno per poco felice. Ho anche l’impressione che non sia la corsa ma la leggerezza il vero modo di andare innanzi. Che nella leggerezza ci sia un puntare all’essenza, un trovarla e poterla scambiare con chi ha tempo per condividerla.

Magari sono gli anni che si accumulano, ma la stagione delle corse ormai non mi attrae più. Ciò non significa che rinuncio ad andare incontro al nuovo, anche se mi attrae più la bellezza della novità. E la bellezza ha bisogno di tempo e leggerezza. Per accoglierla e per darle spazio dentro di noi.

Credo ci sia generosità nella bellezza, che sia un uscire da sé che non ha equivalenti se non nell’amore. Eppure è difficile trovare categorie morali nel fruire della bellezza. In una astrazione immemore di limiti  è davanti a noi e si propone, basta coglierla. Sì credo ci sia generosità e semplicità nella bellezza. Se c‘è una cosa che il pidocchioso non potrà mai fare è innamorarsi della bellezza, perché vorrà possederla. Ma la bellezza è qualcosa che oltrepassa i mezzi, stabilisce un rapporto dove l’impossibile non è il possedere ma il non esserne posseduti e prigionieri. E dopo tutto diventerà più opaco e privo di luce, se la si perderà come cognizione. Per questo nella velocità e nel nuovo mi chiedo se c’è bellezza, e quando c’è non è né veloce né nuova, al più lo è a me che la scopro.