A giugno, improvvisamente, apparivano in ritagli di verde, accanto a strade che uscivano dalla città, sotto alle mura, in quello che era stato il guasto ed ora era prato senza giochi. Ancora, altre, erano vicine a crocicchi di periferia, oppure sotto agli argini dei fiumi che contornavano la città. Comunque mai in centro, erano giudicate, nella loro precarietà, poco consone ai palazzi, alle strade che avevano ricevuto innumeri passi importanti, però erano facilmente raggiungibili. Erano le “anguriare” in dialetto, e noi ci scherzavamo evocando un verbo per definire l’atto del mangiare anguria: io angurio, tu anguri, noi anguriamo, ecc. e giù risate. Le anguriare erano baracche precarie d’assi e travi, con vecchie panche e tavoli coperti d’incerata a quadretti rossi e bianchi. Allegre di bandierine verdi, rosse, blue, di carte veline ritagliate in casa, pavesate tra luci di nude lampadine. Bandierine e lampadine erano appese a fili di rame, vestiti di treccia di cotone, gli stessi delle case, e avevano l’anarchia del quotidiano tolto dalle case, con la stessa gioiosa precarietà che il moderno portava con sé.
Si arrivava a piedi o in bicicletta. Restavano aperte sino a tarda notte ed erano luogo di solitudine o di conversazione interminabili davanti a una fetta d’anguria. Il bancone zincato, in quelle più pretenziose, oppure un piano di marmo, sotto una tettoia e di poco a lato, una grande tinozza piena d’acqua dove le grandi angurie sgomitavano e si raffrescavano per ore prima d’essere scelte, tagliate a mezzo e poi in quarti per essere consumate tra parole e silenzi, sputi di neri ossicini, pensieri, risate. Le fette non vendute venivano messe sotto reticelle fitte che arginavano le mosche. Una parvenza di igiene dove nulla era davvero pulito, a partire dall’acqua che solo a volte veniva da una fontana vicina, ma più spesso da pozzi oppure addirittura dal fiume.
Mio zio prese il tifo in una estate molto calda in cui le anguriare fecero grandi affari. La colpa fu attribuita dai nonni, a frutti troppo maturi e a un melone che doveva essere già marcio. Fu portato all’ospedale, erano in sei in una stanza con le pareti bianchissime di calce, le suore infermiere avevano grandi grembiuli bianchi, le lenzuola erano rattoppate ma bianche e fresche di lisciva. Sopravvisse solo lui, era fortunato, lo fu sempre nella sua vita, oppure quella volta era solo più in carne degli altri. Mia madre si impressionò molto della malattia, dell’ospedale e del modo in cui si poteva morire. Lei piccola e suo fratello ancora più giovane ne facevano una simbiosi particolare. Così di quella vicenda, tragica e fortunata, restò traccia e ne maturarono divieti oscuri e scaramantici. Non si doveva mangiare la polpa rosea vicino alla buccia, meglio evitare gli infidi meloni, dopo aver consumato la propria fetta, disinfettare bocca e stomaco con un po’ di grappa. Se qualcuno fosse andato ad analizzare l’acqua in cui venivano lavati coltelli e cucchiai per gli avventori dell’anguriara avrebbe trovato che in quel catino dove l’acqua veniva cambiata al mattino, c’erano gli stessi patogeni della febbre tifoide che facevano compagnia alle angurie che galleggiavano nella grande tinozza. Il tifo era endemico ed ogni estate colpiva, ma per chi lo subiva o vedeva, l’aver trovato un rapporto di causa-effetto, scenografico e semplice, ne dava una prevenzione e una cura sciamanica che avrebbe reso immuni. Andava così e se le cose si sono scolpite nella memoria, e credo nei modi di trattare l’anguria, qualche forza nella parola-immagine ci deve pur essere.
Comunque frequentavo le anguriare nella mia giovinezza, nel loro rischio calcolato, nel fascino della luce fulgida e triste che le stagliava nella notte, nell’accozzarsi di persone diverse senza l’abitudine e la conoscenza dell’osteria. Ricordo la loro freschezza nella notte, i lampi veduti in lontananza verso i monti, il parlare più quieto nell’ora tarda, le prostitute che venivano a mangiare una fetta d’anguria, sospendendo il lavoro sulla strada e sui prati vicini, ricordo le sigarette scambiate a fine pacchetto, la bocca impastata di fumo e di sonno e la bottiglia di grappa che stava su un lato del bancone. Nuda, senza etichette e un tappo di sughero, un bicchierino costava più della fetta, ma ci voleva. Per disinfettare, per disinfettarci dentro da quella vita di deriva che pullulava attorno nella notte e che non aveva speranza. Noi avevamo una nostra allegria, vita davanti, passioni tutte nuove, ma loro che lavoravano in strada o già a quell’ora andavano al mercato o nei magazzini vicini a scaricare casse, che vita avevano? Solo bestemmie dette piano, e lavoro, un lavoro che consumava e niente speranza. Quella era andata negli anni in cui sembrava tutto possibile, il buono e il meno buono, e a loro era toccato questo, ma almeno il tifo non c’era più
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