un buon metodo

Un buon metodo per decidere da che parte stare nella confusione di questi giorni, è chiedersi: ma se fossi stato al suo posto, che avrei fatto?
Vale sempre e dà la misura della nostra etica personale, pubblica e privata. Ci dice che non siamo sopra le parti, che il relativo riguarda le coscienze prima deĺla ragion di stato, le convenienze e chissa quante altre inconfessabili ragioni. Ma la domanda a cui rispondere è sempre quella su come noi ci saremmo comportati. La risposta sincera toglie molta fuffa dai ragionamenti, molta spocchia nel giudicare, ci dimensiona e determina se siamo diversi o meno.


tre minuti

Chiamato a raccontare in tre minuti cos’è per me la vita, per uno e mezzo stetti in silenzio: bisognava dar tempo alla vita di nascere.

Poi aggiunsi un sospiro, che non era indecisione e neppure stanchezza, ma soffio. Come fa la vita bambina che scherza col sonno del bimbo che dorme ed è comunicazione, aggregazione, dolcezza dell’amor vicino.

Così mezzo minuto lo usai per dire che per costruire qualcosa, vita compresa, bisognava mettere assieme, stabilire una relazione tra diversità apparenti, usare la tenerezza del congiungere con legami forti e deboli.

Lasciai mezzo minuto di silenzio per pensare. Sono lunghi trenta secondi, ma servivano a capire.

Mi restava mezzo minuto, sorrisi prima di concludere, perché era difficile mostrare che viver bene è più che vivere.

E allora dssi che per farlo serviva tentare di realizzare la vita aggregandola con armonia.

E che quando accadeva era un ordine o un disordine comune che faceva scorrere mentre rasserenava.

Forse avevo usato più parole del necessario e il tempo s’era concluso.

La vita perdonerà, perché in realtà non c’era molto da dire, bastava vivere.

frammenti

(Ci) Sono sempre frammenti da ricomporre anche se pare tutto intero.
E tutto quello che non scegli mica si dilegua.
Ma ogni tanto torna. E queste storie che sembrano compiute non si compiono per davvero.
Capisci che c’è un principio e un’apparente fine.
Ma qualcosa torna sempre. Resta ed è un fantasma piccolino che sorride e poi scompare. E tu mica hai capisci cos’è rimasto ancora.
A volte mi par d’essere la stazione degli autobus. Sono tutti così uguali.
E magari chi parte ti pare di conoscerlo perché sembra quello che da poco è arrivato.
Invece è diverso com’è per ogni storia nuova. O almeno così sembra.
E allora penso all’Africa, ai suoi pulmini colmi di persone, di fagotti di cui non è possibile far senza, però se lo perdono mica ci pensano poi troppo.
Forse è nostalgia di colori e di precarietà che si respira assieme, di profumo di persone che sperano così forte che si sente, e ti contagia come un’allegria.
Oppure è quel viaggiare che va in ogni posto e non si ripete mai, che riapre storie.
È che ognuno raggiunge qualcosa di suo, quando deve, ma quando si può chissà se mai finisce.                                           E forse loro non han frammenti da riattaccare. E neppure gran motivi per restare in quel posto che sembra non bastare.
E forse neppur hanno i fantasmi piccolini che gli fanno compagnia di tanto in tanto.
Forse.
Ma magari è differente e non si capisce bene.
E allora penso che non ci sia una regola.
Non una che vale poi per tutti.

lo so

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Lo so che il respiro lungo di questa notte, ancora calda, è la somma dei respiri che si muovono nei letti, l’affannare rotto dei desideri, l’aria impercettibile che si fa strada tra le labbra.

Lo so che questo respiro, che per un attimo si sospende, contiene tutti i sogni in corso, quelli scordati al levarsi, quelli che scivoleranno via con l’acqua del mattino.

Lo so che questo respiro riempie le strade, che viene tagliato in minuscoli pezzi dalle ultime auto e ricomposto dal camminare incerto verso casa, dal vagare senza meta.

Lo so che il respiro sale dai ciottoli e dalle pietre, dove s’era posato filtrando da persiane e imposte chiuse. Lo so che riempie gli spazi tra le case sino a traboccar sui tetti, che così riassume le veglie assopite, che spegne le luci delle stanze prima d’arrampicarsi irresistibile verso il cielo.

Lo so che questo sospiro ci unisce e ci divide, che ci spartisce, come coltello affilato, tra chi possiede una storia da raccontarsi e chi ne è privo. Ma so che ciò che divide ha sempre una speranza di riunirsi in un sogno già sognato.

Lo so che ciò che è diverso non lo è mai davvero eppure è irripetibile finché s’assomiglia ad un desiderio inappagato.

Ed io penso, sveglio, che questa notte non ha ancora l’odore delle tempeste d’autunno, ma sospira i ricordi delle nostre estati. Che la vita ha bisogno di noi. Che la tua estate e al mia sono così simili che ogni aggiungere è necessario e superfluo. Che l’aria tiene assieme, ed io respiro la tua e tu la mia, un poco tanto finchè sentirò il tuo cuore. E che questo ci è necessario perché contiamo noi, solo noi.

In un letto un desiderio s’è sovrapposto all’altro, incessantemente, sino alla quiete. Poi, nel sonno, dall’angolo di una bocca è scivolata una goccia di saliva: sembrava rugiada che aspettasse il sole, mentre il corpo si lasciava andare al sogno.

primo settembre


Dov’ero il primo settembre 2004? E nei due giorni successivi che facevo? Ho risposte a entrambe le domande e una piccola vergogna: ascoltavo le notizie con il distacco che provoca, anche in chi è attento, il sovrapporsi della cronaca nera al vivere comune. Non per espungere ciò che potrebbe toccare il nostro idilliaco mondo, ma l’eccessiva presenza di disgrazie ci fa abituare alla violenza che non riguarda il mondo vicino, ci si assuefa e si delimita il mondo tra un dentro e un fuori, come se la violenza fosse il rumore di fondo del mondo, il cigolio del ruotare, ma riguardasse altri.

Le scuole iniziavano ad ottobre, quand’ero bambino. Nel mese precedente si era nostalgicamente liquidata la vacanza e iniziava qualcosa che aveva odore d’inchiostro nero e di carta. Da solo o con la mamma, andavo in quella cartoleria vicino a casa, chiedevo i libri, i quaderni, le matite, colorate e non, l’album da disegno. Mi piaceva tantissimo il profumo di quella botteguccia, la signorilità della proprietaria che concedeva la possibilità di comprare qualcosa che si sarebbe trasformato in altro. Era un profumo che restava dentro, come l’imparare. Ho imparato un profumo prima di compitare, di far di conto. Poi c’era la scuola: qualunque cosa si facesse era un nobile inizio, magari fatto di spintoni, cartelle gettate, graffi e urla, ma era un inizio intinto di sacralità sociale. Non sapevo nessuna di queste parole, però avevo capito tutto quello che c’era da capire. 

In Russia la scuola inizia il primo settembre. In Ossezia, repubblica autonoma della federazione Russa, il primo giorno dell’anno scolastico, era una festa. I bambini più grandi, quelli che finivano il ciclo, accompagnavano i piccoli nelle classi e questi davano un fiore a quelli che avrebbero fatto un’altra scuola.  Un accogliere e un lasciare che aveva un grande significato simbolico di trasmissione tra età. La festa a Beslan, nell’istituto n.1, era stata preparata con cura, come in ogni altra scuola. Bambini, mamme, insegnanti, nonne, papà, bidelli, più di mille persone. E i bambini avevano il profumo della scuola, del nuovo che iniziava. Mentre ciò accadeva, da un posto imprecisato, si stavano avvicinando su auto e camion, 32 persone, tra essi, due donne. Erano armati, avevano grandi quantità di esplosivo. I ceceni non amano gli ossezi, questioni antiche, ma non c’era un odio quale quello che i primi avevano per i russi. Chissà perché scelsero una scuola e osseta, non russa. I primi spari sembravano palloncini che scoppiano, nessuno capiva cosa accadeva, poi i primi morti, una ventina. Tra essi molti bambini. Il resto della cronaca, compreso l’eccidio finale, potete leggerlo sulle molte fonti in rete, che mettono in luce, anche le contraddizioni e i misteri di quella strage. Alla fine i bambini uccisi furono 186 e 148 gli adulti ostaggi, poi altri morti furono tra i terroristi, le forze speciali, i soccorritori.

Furono tre giorni e due notti: noi dove eravamo, cosa facevamo finché tutto accadeva? Non sarebbe cambiato nulla nell’esito, ma se avessimo davvero partecipato saremmo cambiati noi. Ed ora cosa resta di tutto quell’orrore?

Oggi pensavo alla mia scuola, anche allora c’erano feste d’inizio, oggi forse non ci sono più. E allora ho desiderato che in tutto il mondo si ricordassero i bambini di Beslan, che se ne parlasse nelle classi, senza paura, senza sfumare l’orrore. Che qualcuno si assumesse il compito di mostrare che tutto quello che accade è vicino e che tutto ci riguarda. E che non dobbiamo cancellarlo per non essere soverchiati dal male ma combatterlo, capendone le ragioni. Eradicarlo insieme ai pali di confine per l’umanità. Non c’è un dentro il recinto e un fuori di esso. Bisognerebbe che questa persona facesse capire che non ci dev’essere neppure il recinto e che esso ci limita, non ci difende. E che il cuore dell’uomo non muta se non viene educato a capire.

Questo sarebbe un maestro che accompagna all’apprendere il mondo. E questa sarebbe la festa della scuola e il suo significato. 

da est verso ovest

Stasera, tornando, avevo le Alpi Carniche alle spalle. Erano avvolte da temporali e i picchi emergevano tra nubi nere. Sono belle queste dolomiti, un po’ neglette, poco frequentate e i paesi non hanno quel kitsch che tutta la parte bolzanina e trentino veneta si sono trascinati dall’Austria. Ti sarebbe piaciuto vederle. Un pomeriggio mi fermai apposta a Ponte Rosso per guardare. Seduto a un bar di zona industriale, guardavo verso le cime che apparivano improvvise e nette tra le nubi che correvano. Credo di aver suscitato qualche commento tra gli avventori frettolosi che si chiedevano cosa quel tizio guardasse, tanto che mi chiesero, oltre all’ordinazione, se avevo bisogno di qualcosa, ma era di quiete che avevo bisogno e questa non si può ordinare al bar. Stasera invece ero solo, guidavo e guardavo. In autostrada ci sono questi ponti, che l’attraversano, semplici, tesi e dritti, con una ringhiera un po’ alta e qualcuno che guarda. Sono cinque, sei travi che poggiano su due rampe. Lì sotto, oggi, c’erano macchie di sole e sopra vedevi un grigio asfalto a pennellate larghe, che a volte sfumava in azzurro. Solo che quel grigio era il cielo, mentre l’asfalto, quello vero, marezzava di giallo. Ho avuto modo di guardare con attenzione quei ponti: rompono la vista, l’orizzonte, forse servono anche a non distrarsi e sono poco frequentati perché attorno c’è la campagna. Mi parevano dei boccascena. Solo che oltre si vedevano case, fabbriche, alberi senza confini, qualche macchia di pioppi da cartiera.

Sono arrivato al Piave e il ponte, lunghissimo, oscurava la vista laterale con transenne molto alte. Però qualcosa si vedeva comunque. E’ strano che sul ponte del fiume sacro alla Patria non ci sia un posto dove fermarsi. Non si può pensare, meditare su quello che è accaduto su quelle sponde: nel secolo scorso la guerra e il Vajont e non solo. Quest’anno, da giugno è stato quasi sempre una serie di pozze che comunicavano, immagino, carsicamente, e faceva pena quel mare di ghiaia, arido, senza una idea di fiume. Potevano chiamarlo: fiume secco alla Patria non sacro. Ma è spesso così, ormai più che un corso d’acqua è una nozione: lunghezza del ponte, nome, cartello. Però oggi, stranamente c’erano larghe vene d’acqua che attraversavano la ghiaia. Poca cosa, ma almeno aveva la parvenza d’un fiumicello.

Pensa che gli hanno cambiato nome perché la virtù mascolina del fare la guerra non sopportava che il fiume avesse un nome femminile: la Piave. Bisognava provvedere, ci pensò D’Annunzio. Anche la fronte non andava bene e la mutarono in il fronte. Le donne mica potevano assaltare, resistere al nemico, dovevano allevare i figli, dargli da mangiare non si sa come, e piangere compostamente i morti. Senza disturbare. Quei femminili nei fiumi e nelle cose di guerra davano fastidio  e così senza saperlo hanno genderizzato le cose, gli hanno cambiato sesso mantenendone la funzione.

Oggi comunque la Piave ti sarebbe piaciuta. Ho rallentato, cambiato corsia e ho visto quell’acqua limpida in mezzo ai sassi bianchi. Sarebbe stato bello sedersi con i piedi nell’acqua e guardare il grigio sui monti che contrastava con il biancore dei sassi. È tutta questione di luce, le cose diventano nette e anche i pensieri lo fanno. È durato poco ma quell’acqua mi ha fatto bene, c’era la continuità delle cose, la corrispondenza con le parole. Ho pensato che se anche era un fiumetto, uno di quelli che abbiamo a iosa tra i nostri campi e a cui nessuno penserebbe di cambiare nome, però questo era il fiume della Patria e che forse anche tutto quel bianco che rifletteva il cielo e faceva risaltare il verde dei campi era fiume e Patria. Così com’è adesso. Sulla Piave non ci sono argini, forse perché non ha mai troppa acqua. Ho pensato che quando accade che ce ne sia molta, di acqua, allora la Piave porta sfiga, quindi è meglio così: si vede che le centrali idroelettriche pensano alla nostra salute oltre che ai loro profitti.

Il cielo davanti era indeciso tra scrosci d’acqua e sole a manate, come se la stagione fosse in bilico e non sapesse più bene dove andare. Ho pensato che le facciamo correre troppo le stagioni, neppure ci accorgiamo di quello che ci dicono. Bisognerebbe fermarsi, ma un grill non è una cosa ferma, è parte della corsa. E noi dobbiamo sempre arrivare da qualche parte. Rallentare fa parte del vedere e del raccontare ciò che si vede, e oggi ti sarebbe piaciuto fermarsi assieme, scambiare il silenzio e qualcosa di quello che vedevamo.

ascoltavo:

del Kronos quartet parleremo:

coraggio

C’è più coraggio in un riconoscimento di insufficienza e quindi nel ripiegare sulle posizioni più sicure, oppure nel tener testa, combattere oltre quello che si pensava e non recedere? Ognuno ha una sua risposta e vale sempre in quella vita che non è solo battaglia e tanto meno eroica. Penso alla vita quotidiana, alla difficoltà di fare il proprio lavoro oltre il minimo lecito, alla necessità di dire se si ama o meno una persona, al mettersi contro chi aggredisce portando idee trite e ritrite e magari approfitta del consenso intorno. Penso anche che il coraggio sia una scuola, ovvero che non valga il teorema di don Abbondio che chi non ha coraggio naturalmente, non se lo può dare. Se si viene educati al coraggio di dire ciò che si pensa, al tenere fede alle promesse, se si ha l’educazione a non compiacere ma a dire la verità, sopratutto nei sentimenti, non si è più felici, ma di sicuro più forti e coraggiosi.

Perché val più chi fugge, chi è un tartufo, chi accondiscende, chi si mimetizza, chi non dice la verità? Bisognerebbe rispondere a questa domanda perché il coraggioso alla fine sembra un visionario, un illuso, spesso un imbecille che non bada al suo tornaconto e allora se è così perché il coraggio non viene derubricato dalle azioni possibili e semplicemente si fugge. Si fugge tutti, da ogni difficoltà, da ogni impegno, da ogni fatica senza pensare che ci sarà qualcun altro che la farà al nostro posto. Perché dovrebbe essere normale un mondo in cui è normale che qualcuno si sacrifichi al nostro posto? Un bel mondo di ignavi, dove ciascuno pensa a sé e se c’è bisogno si sta zitti perché aiutare, fare ciò che non è richiesto è comunque una forma di coraggio. È questo che si vuole? Bisogna pensarci perché su questa strada siamo avviati da tempo e i coraggiosi vengono trattati da imbecilli.

cominciamo dalla sfera il divagare

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Materiale composito poroso, bianco. Ottone brunito e piombo. Legno invecchiato dalla luce del tempo, castano scuro. Una sfera, un peso da stadera, una credenza. La sfera è cava, sembra fatta al tornio per le irregolarità delle rigature concentriche, probabilmente è fusa e poi rifinita a mano. È uno spandi profumo acquistato anni fa, il materiale e la forma sono molto efficaci all’uso: l’essenza non ha lasciato macchie sulla superficie e l’aria attorno ne è piacevolmente pervasa. L’odore agrumato si è ben fuso con quello del legno e sente di far parte di quella mistura indefinibile che è il profumo di casa. Credo sia per questo che la sfera sembra molto compresa nel suo lavoro: la sfericità è concentrazione. Rappresenta un’autosufficienza monodica, che trae la polifonia dal riflesso, è come per il gregoriano che si avvale degli echi e della fusione delle voci per acquistare una sostanza inattesa, colora il buio, s’alleggerisce nella luce, ma alla fine torna a sé, punto di partenza e di arrivo.

La mia sfera bianca non ha altra fungibilità che essere ciò che è e sembra cosciente e orgogliosa di servire solo a quello per cui è stata fatta. Chi ama la geometria, nella perfezione di questa sfera potrebbe trovare una sottile bellezza, con quelle rigature che non toccano la forma. Volendo investigarne qualche esoterico significato dovrei trovare dei numeri.

S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, d’ambo i lati calpestio rimbomba 4/3 pigreco erre tre.

Calcolarne il volume e poi cercare lettere rivelatrici che la mettano in relazione con me. La Kabbala fantasiosa delle coincidenze suggerirebbe l’espandere delle previsioni sullo status e sulla coscienza di sé. Una scelta inconsapevole di forma e utilizzo che porta verso il profondo, l’intimo. Cosa molto emblematica nel passato: non a caso la sfera orna i frontali dei palazzi storici della città e si ripete negli appoggi, nelle volute delle scale. Discreta e presente, col suo rappresentare rammenta il coincidere di coscienza e perfezione del proprietario: Non nobis Domine, ma sappiamo chi siamo. Dovevano scrivere così sul timpano delle porte, bastava la prima parte il resto si vedeva.

Nonostante la spocchia che gira oggi, anche nella forma delle cose, comunque la sfera è un po’ negletta, troppo severa e rigorosa per essere un simbolo attuale, sembra arcaica nella sua perfezione, e sopratutto porta al meditare per superare il mito dell’innocenza e trovare l’autosufficienza. Oggi nessuno persegue l’autosufficienza e la gara è tra l’essere sul transatlantico oppure finire sulla zattera della medusa, la dimensione è l’apparire più che l’essere sufficienti a sé. La sfera sfugge allo schiacciamento della bidimensionalità che evoca la facilità del pressapoco. Aborre l’imprecisione, accetta di essere messa da parte piuttosto che ridimensionata. Il suo cercare l’equilibrio e la profondità ricorda che si perde spessore nell’approssimazione. È più facile toccare, assaggiare piuttosto che sentire e gustare a fondo, ma lontana dalla ricerca dello spessore anche la libertà è compromessa e nell’homo aeconomicus, lo diceva, anche Marcuse, ci si appiattisce e si perde orizzonte proprio perché manca lo spessore e la varietà che conteniamo dentro, e in esse la libertà e il riconoscere l’altrui dimensione, possibilità e libertà. Ma chi si ricorda più di Marcuse e di tutta la Scuola di Francoforte? Che poi mica parlavano di sfere ma di rapporti umani e di spessore necessario alla loro crescita. Ma torniamo alla nostra sfera, oggi negletta al pari di altre forme geometriche: il cono (algida a parte), la piramide, ad esempio, tutte poco frequentate, anzi dimenticate a favore del più banale parallelepipedo. Il loro essere generose e incuranti dello spreco di spazio le ha ridotte a curiosità nella nostra consuetudine di vita. Provate a cercare attorno quanti coni e piramidi vedete e anche nell’abitare osservate quanto poche siano le forme che non sono ritte e piane. Pensiamo tanto allo spazio ma solo perché si compra non per la sua utilità o bellezza, pensate al piacere di avere un bow window, alla luce che attornia da più lati. La sfera sarebbe perfetta per questo e le cupole geodetiche ne sono una bella approssimazione, peccato che non abbiano preso piede come modalità del costruire, avrebbero cambiato pensiero e percezione del vivere.
E se ci si pensa davvero si capisce che la bellezza non ha molta relazione con lo spazio, ha bisogno di compiutezza per cui essa si può realizzare nell’infinitamente piccolo, oppure nel senza limite per grandezza. Tra una reggia e una casa ci può essere la stessa sensazione di bellezza se c’è unità della proporzione e dell’armonia, del genio del rappresentare icastico ed evocativo e insieme la semplicità della linea. La sfera si pone alla bellezza come esempio arduo, difficile e compiutamente conclusa in sé, si approssima, si usa, è esercizio di profondità ma non si potrà mai rinchiudere nel costo dello spazio.
E la mia piccola sfera di materiale composito poroso bianco cosa c’entra con tutto questo? Nulla se non per la sua capacità di generare pensiero, di far emergere le sue sorelle di cristallo immerse tra solidi trasparenti nelle vetrine, di far proseguire il racconto verso il conoide della stadera, ma questa è un’altra diversa storia che continuerà il divagare.

vigilia di ferragosto

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Nei paesi si festeggia: è ferragosto,

musichette e specialità tipiche del posto,

ma appena fuori non c’è più nessuno attorno,

solo voci da finestre illuminate,

luce di lampioni,

perimetri di case.

Segni d’una notte che non mente

che non avvolge e non rassicura.

Il cielo s’è riempito di nubi gialle e grigie

è la città che proietta le sue voglie,

ma le stelle cadenti si nascondono

e neppure un desiderio durerà a lungo.

Vicini lampi annunciano la pioggia.

e verrà, presto, grigia,

sporca d’abitudini,

pur di non lavare il mondo

s’infilerà tra steli e bagnerà fiori di campo,

gorgoglierà in grondaie di rame rosso verde,

si getterà tra scacchiere di chiusini

giocando con polvere e lamiere,

ma non con noi che abbiamo chiuso il cuore,

Non con noi che circondiamo l’amore di rifiuti,

non con noi che non ci stendiamo più nell’erba

per collocare un desiderio in cielo.

monte Cengio

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La roccia è una prora, un bastione che si erge per 900 metri sulla valle dell’Astico. Qui finisce l’altopiano, mostrando la sua natura carsica, fessurata dagli sbalzi di temperatura; non più prati, boschi, cime lunghe e dolci, ma una roccia verticale e scabra, adatta ad alpinismo estremi, che lo limita dalla pianura. Uno zoccolo che si elevava tra le nuvole, così dovettero sentirlo e vederlo gli abitanti dell’ altopiano, così lo videro i granatieri di Sardegna in quella estrema difesa che impedì il dilagare nel giugno del 1916, delle truppe imperiali in pianura e la fine della guerra con la sconfitta dell’Italia. In meno di dieci giorni, si concluse al limite dell’altopiano, quella che gli italiani chiamarono Strafexpedition, e per gli austriaci era il modo per chiudere i conti con quell’Italia che da alleata era diventata nemica. Su quel costone di roccia, sopravvisse un decimo dei rinforzi mandati a tenere la posizione, di 10.000 uomini partiti il 20 maggio, ne tornarono in pianura, 1.000 il 4 giugno.

Percorrendo il sentiero tra le trincee, ho chiesto a un gruppo di scout, cosa si provasse a percorrere questi luoghi, a pensare che chi combatteva aveva la loro età. Ci sono delle foto che mostrano rari momenti di quiete nell’inferno della prima linea: sorrisi, mantelline, piedi fasciati e scarpe chiodate. Le stesse che i ghiaioni continuano a restituire cento anni dopo. Quei visi nelle fotografie, sono adulti, a tratti già vecchi eppure molti avevano 18 anni. Lo scout mi parla della difficoltà di credere che sia accaduto, della insensatezza della guerra. Parliamo degli inglesi che erano poco distanti, dei loro cimiteri così ordinati, gli racconto fatti, storie di famiglie segnate per sempre dalle morti, gli dico dei parenti che ancora tornano a trovare persone mai conosciute. Gli spiego la mia paura che non ci sia più memoria tra noi di questi fatti e che quindi il dolore assoluto scompaia ed emerga l’elegia delle battaglie. Il monte Cengio, dove siamo, non fu una vittoria, fu perduto il 3 giugno 1916, ma le perdite furono così alte da entrambe le parti, la resistenza così accanita, che lo slancio e la furia di morte, si fermò. Ma di quella sofferenza, di quel morire cosa resta ora che allontani definitivamente la guerra? Parlo di questo dicendo che ormai nessuno racconta per esperienza familiare, che si perde l’emozione del vissuto e tutto si allontana.  Vedo che qualcuno ascolta, interloquisce, altri sono distratti, aggiustano un auricolare, parlottano guardando la valle.

Sotto di noi ci sono isole di capannoni che riflettono il sole, laghi di luce, il fiume e la piana si perde verso sud: è un territorio ricco ora, un tempo era pieno di miseria. Vicino a noi la roccia si protende nel vuoto, è un balcone che si chiama: ” il salto del granatiere”, Non avevano più munizioni, le ultime trincee furono difese all’arma bianca, con i corpi che si avvinghiavano in una lotta che non doveva avere pensieri se non il vivere o il morire. Ci sono molte testimonianze di ciò che accadde. Racconto ancora qualcosa e poi saluto. Ccon gli anni le storie si depositano dentro e ci si commuove per ciò che accadde. Ma anche ci si indigna per la retorica che rese, e rende, tutto eroico quello che era fatica e dolore. S’è perduta la dimensione della tragedia, anzi si perse subito per giustificare l’imnane dolore che sconvolgeva paesi interi e lo si ridusse a fatto privato. A questo serve la retorica. Ma chi lo provava sentiva la dimensione tragica e assoluta della guerra. Difficile che questa sensazione si trasmetta se non si racconta più. Facile che subentrino altre ideologie. Da tempo sento parlare con noncuranza delle conseguenze rispetto a ciò che ci accade attorno. Anche questo anniversario rischia di diventare un turismo di massa, fatto di cartelli, luoghi, tour, alberghi, menù. E invece bisognerebbe meditare, ascoltare i silenzi, leggere le lettere, pensare a quelle vite. Magari parlando con i coetanei di adesso dei soldati di allora e ci accorgeremmo che li abbiamo attorno e che sono i nostri figli.