era la sera del 5 giugno

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Era la sera del 5 giugno, un sabato. Ero in Sardegna, nel Gennargentu. Da ore trattavo con i sindacati per definire le modalità di riduzione del personale senza che ci fossero problemi per i lavoratori interessati. Un prepensionamento allo stesso importo stipendiale, restando in organico, e il passaggio graduale alla pensione. Se il lavoro fosse aumentato qualcuno avrebbe potuto essere richiamato al lavoro, ma era una possibilità remota. I migliori, gli specialisti che servivano per ristrutturare davvero, se n’erano già andati e bisognava riqualificare chi era rimasto. La trattativa durava da due giorni, sempre nel pomeriggio tardi fino a notte, tutto era chiaro, ma non si chiudeva. Come gestore responsabile del progetto ne sentivo il peso, ristrutturando c’era un futuro, tirando avanti a contributi regionali ci sarebbe stata la chiusura, magari un anno dopo, ma lavoro stabile in quell’azienda non ce ne sarebbe più stato. Ci sono rituali nelle trattative. Di qualunque tipo siano. In fondo è un giocare a rimpiattino con la coscienza che ci saranno prezzi da pagare. Una buona trattativa si conclude con una moderata insoddisfazione di entrambe le parti, si deve sentire che si è un po’ perso ma che il buono e il giusto è stato preservato. Le sospensioni, i rinvii, le consultazioni servono a questo, ad affinare il punto dove ci si incontrerà.
Alle 21 fu chiesta una sospensione, un’ora, penso avessero fame.

Nei giorni precedenti, avevo fatto un lungo viaggio solitario tra i monti, in mezzo a macchie di sughere rosso fuoco ormai prive di corteccia. Erano nudità affascinanti, eppure sollevavano la pena di chi era stato derubato di sé. Forse rallentavo troppo per guardarle, così, dopo un controllo dei carabinieri, mi ero fermato sotto una quercia enorme ancora integra. Attorno c’era un verde a balze, il silenzio, un rapace che cercava preda e le macchie scure dei boschetti pieni di uccelli. Più lontano il riflesso di un lago e la mia meta di lavoro. Non ci pensavo e fino a sera ero libero, fuori dal tempo. Restai finché arrivò un gregge con la sua festa di cani, asini e agnelli. Due parole con il pastore, un pecorino tolto dalla bisaccia e l’affetto dell’ospitalità di uno sconosciuto. Aveva le mani forti e abili, annodava e costruiva recinti per la notte. Quando ci salutammo non volle essere pagato e prese il mio posto sotto la quercia, lanciando fischi ai cani, poi estrasse una specie di flauto e cominciò a suonare. Lo sentii dall’auto, lui era in compagnia, io ero con i miei pensieri. I giorni seguenti erano trascorsi tra impianti chimici e incontri e poi la trattativa. Così eravamo giunti a sabato notte. Nell’ora di pausa avevo fatto a tempo a telefonare a casa, a mia Mamma. L’avevo ringraziata ripetendo il bene che sempre ci ha unito.

Quando riprendemmo, il porceddu e il vino di Oliena, avevano alzato i toni, c’era forza nella stanza, persone abituate a resistere un minuto di più dell’avversario, ma io non ero un avversario e neppure chi era con me lo era: se non si trovava una soluzione non vinceva nessuno e l’azienda avrebbe chiuso.
Continuammo fino alle 23.30, poi fu chiesto un rinvio, io avevo mostrato e discusso i lucidi per almeno tre volte, cifra per cifra. Si era corretto assieme lo schema, rifatti i conti, mutato qualche turno, chiusa una porta inutile, recuperati 4 posti di lavoro, ma non era tempo di chiudere.
Ci salutammo e presi la strada dell’albergo, rifiutando la cena.

Avevo voglia di star da solo, di immergermi in quella casa di allora, vicino al canale. Ho sempre immaginato che fosse caldo e le finestre aperte sulla strada, la notte era piena ma alle 3 del mattino si sentivano già cantare le allodole. Mia Madre aveva la camicia candida, c’era mio Padre, mio fratello che dormiva, mia Nonna, la levatrice. Mi hanno detto che non c’ho impiegato molto ad uscire, che ero rosso in viso e che ci volle uno sculaccione per farmi piangere. Mi furono unte le labbra col vino e succhiai il dito, poi mi accoccolai tra le braccia di mia Madre. Ricevetti baci da tutti, mio fratello si svegliò e chiese chi ero, così ebbi anche un nome. Poi mi addormentai, la stanza pian piano si vuotò e arrivò il primo mattino.
A questo pensavo in mezzo ai monti e bevendo il vino rosso con l’albergatore, che mi aveva atteso, mi augurai buon compleanno. Gli auguri di chi mi amava erano già arrivati, adesso toccava a me volermi bene.
Il giorno dopo era domenica, trattammo fino a lunedì notte, ma non si concluse, perché la vita a volte va così ed è comunque buona.

I giorni che seguirono

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Ci fu il giorno dopo, anzi furono settimane convulse e con spari la notte che piano diradavano. Qualche conto veniva saldato da uomini magri a cui i vestiti stavano larghi, altri non trovavano quelli che cercavano e di cui portavano addosso i segni, così non pochi si chiusero in un silenzio che riprendeva il lavoro di prima, quello mai smesso davvero, e lo riprendevano da dove avevano lasciato, come fosse un libro che anziché da leggere fosse da scrivere. C’era euforia nell’aria, la primavera aiutava, le donne mettevano vestiti leggeri per uscire, ma si facevano accompagnare dai padri o dai fidanzati e mariti che tornavano a casa. In città c’era stato un acquartieramento di truppe che non badavano a vincitori e vinti e il loro arrivo era stato preceduto dalla notizia di violenze e stupri.
Le sere s’allungavano, mio padre, dopo l’Africa e il rifiuto di aderire alla repubblica di Salò, aveva da sistemare qualche percossa di troppo, cercava i responsabili che pure erano stati presi. Gli stessi tedeschi li avevano lasciati a terra dai camion, così erano stati rinchiusi nelle celle del tribunale per essere giudicati e fucilati. Nel portarli in piazza, erano arrivati gli inglesi e ci fu subito tensione. Chi voleva fucilarli aveva le armi, due furono giustiziati ma gli altri, dopo una trattativa concitata e con la minaccia delle mitragliatrici furono presi in consegna dagli inglesi. Questi promisero, dissero, parlarono di giustizia e processi, che poi ci furono ma ormai era tardi e nemmeno tre anni dopo i responsabili di torture, assassini erano in libertà. Arroganti alcuni, silenti e pericolosi, altri. Mio padre se ne fece una ragione, altri meno e chi aveva rimesso in ordine la giustizia dovette scappare. A Praga alcuni, altri in Sud America, proprio dove stavano arrivando navi di nazisti e fascisti.


Il giorno dopo la Liberazione, era una giornata tiepida, mio fratello giocava tranquillo, in casa c’erano le finestre aperte. Era una novità perché per oltre un anno i miei avevano dovuto tenere gli scuri chiusi, dalla casa di mia Nonna, si vedeva il cortile di Palazzo Giusti e la banda Carità aveva imposto che nessuno vedesse i prigionieri. La libertà era la fine della paura, aprire le finestre e ascoltare la radio che entrava con l’aria, pensare di mettere il bimbo in carrozzina e cercare di comprare qualcosa che non fosse a borsa nera. Mia madre era contenta, mio Padre lavorava, mia Nonna aiutava a rimettere insieme la famiglia dopo aver perso la casa. Era un giorno d’aprile mai così luminoso e mai così diverso da quanto era accaduto prima. Gli uomini che ancora mancavano sarebbero tornati, la vita per molti aveva vinto anche se gli anni scuri, la guerra, pesavano in mezzo alla speranza. Erano stati anni rubati alla vita e non sarebbero tornati, meglio guardare avanti.
Era finita la guerra ed era il giorno dopo, quelli che si erano ribellati al fascismo avevano vinto e con fatica ricominciavano a vivere, sicuri che ciò che sapevano fare sarebbe bastato. A volte un tarlo si faceva strada, erano ancora disorientati dalle troppe speranze accumulate a ogni allarme, in ogni bombardamento, in ogni battaglia perduta, in ogni disperazione patita, vista, subita, temuta: avevano timore che fosse troppo bello tutto.
In quella casa dove abitavano i miei, la mamma del Partigiano fucilato abitava al piano di sotto, le era stata concessa la medaglia d’argento per le lacrime che non sarebbero mai finite. Era stato un anno prima, messo con altri sei contro il muro di una caserma di periferia, il prete, il plotone, il colpo di grazia. Chissà perché lo chiamavano così, colpo di grazia, lei, la Madre, glielo avessero dato ferito, lo avrebbe curato, risanato e portato a festeggiare quell’aprile, ma, Lui, che l’aveva reso possibile non c’era più. E a lei non importava che la portassero in piazza, che le fossero attorno. Aveva pagato per i molti che non pagavano e aprile era il mese in cui non c’era nulla da festeggiare.

Con difficoltà mio Padre parlava di quei giorni che mescolavano polvere, eroi e vili. Parlava di anni di freddo senza tregua e di notti brevissime costellate di fughe e fatiche. Parlava e taceva, perché ciò che emergeva non era solo una gioventù consumata tra guerre, precarietà, richiami e coercizione, ma anche di silenzi e idee da esprimere a mezza voce, di ceffoni e botte prese e mai accettate, paure e vita con sogni normali in un ambiente che li contraddiceva. Realista a tal punto da contare sul presente per avere un futuro. Tutte cose su cui non aveva dubbi, come quel 25 aprile, che era una consolazione per ciò che non era avvenuto, per le promesse mancate, per il tempo che cominciava nuovo e passava senza migliorare le condizioni di chi aveva lottato. Per sperare e per vivere la vita di chi amava e la sua con i giusti sogni. Una casa in subaffitto visto che l’altra era un mucchio di sassi, malta e mattoni sbriciolati. Una casa che bisognava riscaldare d’inverno e tenere pulita, una casa in cui doveva esserci profumo di cibo a mezzogiorno e sera e il caffè la mattina. Per questo andava distante, rinunciava, sperava e faceva un altro figlio. Perché la speranza era in ciò che credeva possibile e il possibile passava attraverso le sue mani, la sua fatica, le sue idee che ora poteva dire ad alta voce. Per questo il 25 aprile aveva un dopo e comunque era festa e si vestiva bene per andare in piazza e rivedere gli amici di allora. In qualsiasi altro giorno avrebbe avuto altri abiti, molta fatica e spesso una distanza poco sopportabile da casa. Nulla di eroico, malinconie serali per chi ritorna e attesa, ma il difficile era stato prima.
Ora era tempo di gioia e di domande, tante illusioni si erano perdute assieme alla giovinezza mancata. Come tanti altri. C’era il presente, si poteva dire ciò che non andava bene, votare, cambiare e questo apriva la porta al futuro. Stessa fatica di prima, però diversa e nuova. E quei figli avrebbero avuto la libertà che a lui era mancata.

my way

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Mi ricordo bene quando l’ansia di provare era forte, quando tutto era a disposizione e tutto meritava d’essere assaggiato. Allora il tempo non bastava mai e mi sembrava che essere coincidesse con esserci. E sentire fosse qualcosa di fugace come la felicità, anzi che sentire spesso coincidesse con l’essere felice. È durata molto a lungo questa sensazione e motivava un correre senza fine, tanto che, a volte, mi trovavo stremato da continue sensazioni. Il tempo era una creatura che vivera libera in me e non trovava soddisfazione, suggeriva che ciò che non provavo sarebbe stato definitivamente perduto.

Qui ci si può aspettare una conclusione che arriva a una nuova consapevolezza, svolta e continua in altro modo la vita cambiando tutto ciò. In realtà questo sentire è mutato per suo conto e quando non lo so dire perché non mi sento di essere diverso, ossia lo sono ma non per qualche motivo che non sia la naturale evoluzione del mio percorso. Non sono particolarmente stanco di una vita che desidera e neppure ho smesso di sentire, anzi direi che ho raffinato questa capacità. Quello che è mutato è il rapporto con il tempo. Ho sempre pensato che c’era tempo e non poteva essere diversamente nella spinta a fare che non esauriva i desideri ed era incapace di escludere ciò che non era possibile in quel momento, però era un aver tempo ansioso mentre ora c’è calma e il tempo è cosa mia. Se mi guardo attorno, la mia vita è così, con le persone che hanno sempre da dirmi molto più di quanto dicano, con l’interesse per il profondo che fa coincidere quello che provo con quello che mi porto dietro. Non è una collezione di sensazioni, ma un cammino dell’essere a cui regalano molto alcune persone, altre in misura minore, con una graduatoria, non del sentire, ma del condividere. E condivido senza mettere limiti di tempo. Non uso volentieri gli avverbi di tempo assoluti, i mai, i sempre, forse perché so che, molto spesso, questi rassicurano chi li pronuncia. Rinuncio a questa sicurezza perché ho fiducia in ciò che accadrà, ormai mi conosco un po’ e so che il mio essere fedele a ciò che sento è una costante della mia vita. Anche nel mutare, nel pensare diversamente, ciò che conta non viene scartato e resta ben radicato per tenere solida la mia casa.

il senso della cura

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Il senso della cura è in quel chiamare, pensare, scrivere: ci sono e ti penso.

È nei piccoli gesti che si arrendono all’evidenza delle molte specie d’amore e che solo chi ne conosce la grafia sa interpretare e tenere cari. La cura è colmare un silenzio intuito, sorprendere con un gesto inatteso.
La cura è l’attesa e la sua risposta nell’esserci. La cura toglie il calcolo dai gesti, dalle cose, è un accucciarsi caldo, una carezza inventata e lieve, un sentire che nell’aria c’è il profumo della presenza.

La cura è togliere dalla solitudine quando questa fa male e lasciarla quando è necessità del ritrovarsi.

La cura non ha tempo, non ha ora, è fatta di codici segreti, di piccole abitudini che tengono assieme la luce e il buio, è un dire con parole giuste e sbagliate, un eccedere che coglie l’inespresso, un tenere per mano quando la mano ha freddo.

La cura è essere se stessi e porgerlo quando si può, è attendere che arrivi un segnale e capire che esso ha le difficoltà che ogni vita contiene. La cura siamo noi in ogni movimento verso un amore, in ogni attesa di esso, in ogni contingenza che non ci distoglie dalla certezza di ciò che conta. E che sappiamo ci sarà adesso, stasera, domattina, fin quando sarà bello che esso sia perché viene accolto e sentito e restituito.

Questo, e molto altro, è la cura.

Di te, di me resteranno i vuoti lasciati negli abbracci,

saranno loro a parlare con il tempo,

e nessuno si preoccuperà del pulviscolo d’amore che alimenta l’universo,

come non si cruccia troppo del gas di scarico delle auto,

ma guarda il semaforo o la coda d’auto che lo precede.

Il pensiero di noi si racchiude in naturali gentilezze,

in presenze che qualcuno ha notato:

una mano nella mano, un sorriso senza apparente oggetto,

il pensiero lieto che non fa rumore,

dobbiamo credere che questo levi un vento d’onde che rimane

e con altro amore si mescoli e confonda

per dar senso all’universo

che d’indifferenza per suo conto è pieno.

una gita sull’Etna

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Brucoli era splendida di sole, comprato il pesce fresco per la sera, una corsa a casa e salimmo in auto per la gita sull’Etna. I bambini erano piccoli, noi grandi e ancora pieni di giovinezza, le auto, erano quelle che ci potevamo permettere, la mia 128 Fiat con cambio modificato (ma questa è una storia diversa) e una Lancia Flavia. Tre persone in una e quattro nell’altra. L’avvicinamento a Catania cantando, poi il caffè con i cannoli in via Etnea e guardando gli orologi a il sole ormai alto, via di corsa verso le pendici del vulcano. L’Etna è una presenza quasi umana, ben lo sanno i siciliani, noi ci avvicinavamo senza vederlo, perduti sotto alberi e per strade sconosciute, ma lo sentivamo. Si sentiva qualcosa che toccava dentro, una presenza che attirava e nel frattempo parlava per suo conto. Noi eravamo immersi in un’arcaica fase di approssimazione a un desiderio, presi da una spinta che ci faceva svoltare per strade e luoghi che preparavano all’incontro.

Alle 11, in un paese non identificato, ci imbattemmo in una corsa ciclistica, le deviazioni sul posto erano ben visibili, i vigili e l’organizzazione, solerti. Ma era entrare in un labirinto di deviazioni e stradine, dove nessun cartello corrispondeva più alla carta e alla meta confondeva le idee. Non c’era google maps a quei tempi, bensì una enorme carta Michelin, interpretata dalla cosa più fallace che l’uomo conosca: l’intuito. Dopo molto girare in tondo e dopo aver visto per tre volte scritto su un muro a caratteri bianchi cubitali “vota Bianco”, dopo esserci fermati e sfamati. Prima i bimbi e poi gli adulti. Finalmente nel sole a picco apparve, un po’ sbiadito, un samaritano, definito come tale perché sapeva cosa cercavamo. E infatti con poche indicazioni e un solo votaBianco, la strada verso la presenza amica del vulcano fu ripresa.

Arrivammo al rifugio un po’ in ritardo sui tempi previsti, ma intanto il vulcano era dilagato ovunque, sopra e intorno a noi, tangibile, ricco di rumori intestinali, di cui ci fu detto di non preoccuparci perché c’era sì un’eruzione in corso, ma tranquilla e da una bocca larga la lava fluiva lenta e regolare. Il paesaggio era strano, tagliente, casuale nei pinnacoli che sembravano usciti dalla mano di un bimbo che faceva uscire la sabbia e l’acqua, dalle mani per creare statue. Era impressionante perché mai visto eguale, senza neppure un ricordo delle montagne dolomitiche che lo potesse approssimare. C’era il nero e il corallo acceso delle rocce, qualche cespuglio, rade macchie gialle tendenti al rosso. Anche i bambini erano meravigliati e parlavano piano, ma volevano vedere il fuoco e la lava incandescente, lo chiedevano con cortesia ritrosa, quasi intimoriti dalle domande che facevano.

Trovata una guida, partimmo per l’escursione, in calzoni corti, scarpe da ginnastica e maglietta maniche corte. I bambini con i k-way per il vento, noi forti e impavidi ai limiti del freddo. La nostra guida era gentile, precisa nelle istruzioni sui pericoli, paziente nel raggrupparci in modo che tutti potessero sentire. Con i bimbi a mano, cominciammo a camminare. Noi sette eravamo assieme, un unico gruppo, parlavamo veneto tra noi e italiano con la guida. Erano tempi strani, in Veneto, la lega scriveva sui muri forza Etna o forza Vesuvio, ma a noi sembrava un modo per ridere all’osteria perché poi in fabbrica si lavorava tutti assieme, così non ci pensavamo. Anche perché noi eravamo comunisti, mica della lega, e ai nostri vicini a Brucoli chiedevamo dei parenti al nord, cercando di scoprire conoscenze comuni.

Il mio amico, compagno di banco e di università, risiedeva in Sicilia da un paio d’anni, faceva il direttore pro tempore di uno stabilimento chimico dell’Anic in provincia di Siracusa, era una persona squisita per modi e gentilezza, un compagno integerrimo e se non si vedeva dal sorriso allegro, noi lo sapevamo bene. Questa notazione ci servirà per il ritorno. I bambini erano felici di camminare in mezzo a tutta quella graniglia nera, su sentierini strani che si stagliavano appena e in mezzo a una polvere sottile che s’intrufolava ovunque. Si grattavano e si toglievano le scarpe ogni 10 passi, noi resistevamo stoicamente cercando di fare domande intelligenti. Il paesaggio che banalmente si definiva lunare, aveva sole e colori nitidissimi, era impressionante, come i brontolii del vulcano, cosa viva che forse qualcosa voleva dirci, ma si distraeva per ragioni sue. Capivamo tutta la letteratura epica greca, la meraviglia degli antichi, il timore e l’ estraneità umana del posto riservato agli dei. Visto che Vulcano era tranquillo, si capiva che non ci voleva male, ma quello era un posto solo da ammirare con creanza e cercare di capire quello che si poteva del mistero e della forza della Gea primordiale, non una terra da considerare per umani. La guida ci propose di arrivare, con i bambini a debita distanza e ben tenuti a mano, fino alla distanza di sicurezza dal fronte della colata lavica. Accettammo con entusiasmo come fosse un regalo.

Tra noi commentavamo sottovoce la singolarità dei luoghi e due alla volta fummo accompagnati fino a una strana roccia grigia, larga come un torrente, che si muoveva con un fronte arrotondato come in un film di fantascienza da paura e che dalle crepe mostrava vene rosso fuoco. Tutto era quieto, non un uccello o un verso d’animale, la roccia faceva un rumore come masticasse il terreno su cui avanzava e se c’era un arbusto o qualcosa di infiammabile sul suo cammino, immediatamente questo prendeva fuoco. La guida ci raccontò le temperature, la velocità di uscita, sentivamo il calore come davanti a un camino senza fiamma, poi cominciammo ad arretrare. Qui subentrò una strana impressione, ossia che la graniglia nera e grigia e la polvere si attaccassero ai piedi molto caldi, infatti guardando le scarpe da ginnastica queste erano diventate stranamente larghe, palmate come quelle dei paperi. Arretrando con una certa fretta constatammo che avevamo un paio di pinne ai piedi, io in particolare, e che la graniglia nera si era incorporata nelle suole fuse. La cosa aveva non pochi lati ilari per i bambini ed era allegra anche per noi, che scherzavamo, pensando di ripristinare le suole togliendo quella sovrastruttura come si fa con il fango. Ebbene, non era così, anzi raffreddandosi, suola e sasso diventavano un tutt’uno. Avevamo le suole di pietra, belle larghe e stabili: una nuova moda. Con discrezione, sulla via del ritorno, considerato il peso crescente delle scarpe, ne parlammo con la guida, che in modo allegro ci confermò l’inadeguatezza del nostro equipaggiamento, già oggetto di osservazione alla partenza, e si lasciò scappare che se si incoraggia l’Etna, il vulcano benevolo, si dava un po’ da fare.

Capimmo il sottointeso, il parlare veneto era diventato un linguaggio poco gradito a chi ogni giorno faticava per guadagnarsi la giornata proprio su quell’Etna che veniva incoraggiato. Ci sperticammo nei distinguo, e credo fummo convincenti, anche perché i bimbi era così allegri mentre noi ciabattavamo verso il rifugio, così subentrò il dialogo e il perdono. Restavano le scarpe da paperi, ma quelle avremmo tentato di aggiustarle nella discesa. Cosa non semplice perché ritagliammo il profilo con il coltello e con le nuove suole, dopo saluti e pacche sulle spalle, ci avviammo verso le auto. Il sole stava calando, illuminava il nero dei basalti, con bagliori che si rincorrevano su pagliuzze che ad occhio nudo non si erano viste, l’immanenza dell’Etna era sopra e sotto di noi, un animale che dormiva vigile e sognava, così lo raccontavamo ai bimbi e a noi stessi. Si faceva fatica a staccarsi da quella sensazione di meraviglia ma il pesce fresco ci attendeva a Brucoli e con i calzini e le ciabatte, perché le scarpe erano da buttare, ci accingemmo al ritorno. E qui comincia un’altra storia di vulcani e gentilezza.

Scendendo verso Catania la Flavia del mio amico ebbe un comportamento strano. Era il crepuscolo e accendemmo i fari, io ero dietro e vedevo la sua auto rallentava procedendo a sussulti. Se spegneva i fari il motore riprendeva e le cose sembravano normali, ma non si potevano avere entrambe le cose: motore acceso e fari accesi. Passai a condurre e lui mi seguiva a fari spenti cantando Battisti, continuammo per un pezzo a scendere, ma le curve , le strade sconosciute, non illuminate e povere di indicazioni, ci persuasero che era pericoloso continuare in quel modo. Arrivammo, credo, in pianura in un paese di cui ci sfuggì il nome, parcheggiammo la Flavia lungo una lunga recinzione in muratura che portava la scritta VotaBianco e pensando di tornare l’indomani, tutti salirono sulla poderosa 128 Fiat berlina. Eravamo in sette in auto e ritenendo la cosa stretta ma normale, tornammo cantando, cercando di evitare i luoghi e le strade troppo affollate. Naturalmente sia chi era alla guida, cioè io, e il mio amico cercavamo di imprimerci bene in mente la strada del ritorno, per tornare in fretta il giorno dopo.

Tra canzoni, sfottò, sonni dei bimbi stanchi, superammo Catania, e a notte arrivammo a Brucoli. Finché friggeva il pesce cominciarono le docce e la ripulitura dalla polvere, non ho ancora capito come ne avessimo così tanta addosso e come mai non si intasò lo scarico, posso dire che dopo tre giorni alla doccia serale restava ancora una traccia di polvere nera. La serata continuò tra racconti, impressioni, giochi e vino, finché tutti stremati, andammo a dormire con l’appuntamento per la colazione, il giorno dopo di buonora, con il nuovo viaggio per il recupero della Flavia, ma questa è altra storia e la continuerò se avrete pazienza.

omeostasi

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“Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità”
Romain Gary

L’omeostasi ovvero il nostro muoversi verso ciò che permette la vita include dove e ciò che siamo, come lo sentiamo, chi siamo. Tutto separato e frammischiato come si pescassero i numeri dal sacchetto della tombola perché il gioco è unico come il suo fine. Per il corpo è importante stare bene, per lo spirito o la mente, meno ma star male non piace all’omeostasi. Quindi tutto si tiene, si conserva e si evolve e del passato si può parlare bene anche solo per il fatto di essere vitali e attempati.

Però di quegli anni le parole non danno misura, sono immemori della dimensione dei giorni e delle notti, delle passioni che le animavano e le rendevano brevi e infinite di connessioni continue. C’era una dolcezza diffusa, anche i profumi erano diversi, e questo manca, come la reversibile pazzia degli unici amori, delle attese senza fine, del palpitar sognando. Su tutto imperava una agitazione allegra che faceva cantare con la voce e con il corpo. Il tempo non passava mai e sfuggiva tra innumerevoli impegni, doveri, piaceri.

Difficile dire a posteriori che si era felici, ha ragione il poeta, ma la quantità di sensazioni che si ottenevano vivendo era smisurata. Prima tra tutti la consapevolezza di vivere un tempo irripetibile che ci mutava in persone differenti da prima di allora.

Imprudenza nel credere e nel lasciarsi prendere, eppure L’omeostasi funzionava, ma gli scenari che traccia vano le sensazioni nella mente erano così ricche e alternative da considerare vitale la vita complicata, l’assenza, la delusione assieme all’innamoramento, alle felicità improvvise, le presenze totalizzante.

L’età matura fa emergere l’intelligenza della conservazione, porta verso il caldo, il buono, il dolce ma con parsimonia d’entusiasmo, è questo che permette le vite e scatena altri scenari dove le sensazioni oscillano tra il ricordo e un nuovo legato al possibile.

La linea del possibile è la misura di ciò pensiamo di noi e su questa linea danza il tempo nostro.

chi è quell’uomo che m’assomiglia

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Posted on willyco.blog 24 gennaio 2016

È giusto si sappia che trattenere la rabbia costa fatica, che restare calmi consuma quantità immani d’energia.

È giusto si sappia che nessuna rinuncia è a basso costo, che la notte o il primo mattino ci sarà un risveglio che porterà il pensiero lì, proprio su quella rinuncia, e farà star male.

È giusto si sappia che per costruire una vita come la vorremmo serve non meno energia che per accendere una stella, ma anche per quello straccio di vita che abbiamo realizzato con fatica serve altrettanta energia e se questa ha un sentimento, è meglio ricordare che è stata irrorata di un amore inverosimile. Senza misura, proprio come quello degli dei. Quelli del nostro olimpo, perché gli altri dei hanno tutti misura e limite.

Se qualcuno l’avesse raccontato, magari insegnato, quando ancora capivo a malapena, non avrei creduto. Non mi sarebbe parsa una grande impresa vivere, ne avrei visto l’eroicità, non la consuetudine, non le incrostazioni, gli obblighi. Avrei protestato la mia libertà facile, la limpidezza di poche idee che non avevano contrasto apparente, non mi sarei fermato sulle contraddizioni, anzi le avrei sciolte con la lieta spensieratezza e coscienza d’ Alessandro: con un colpo netto anche il nodo di Gordio giaceva risolto. E invece poi quelle contraddizioni si sono rivelate la vera essenza di ciò che stava dentro, quello che protestava la sua umanità vilipesa dalle costrizioni, da idee ricevute e stantie, dalle consuetudini.

Allora è giusto si sappia che non è nel distruggere se stessi ma è nell’assomigliarsi la fatica. Che il comporre equilibri esige un’infinita dolce pazienza, un’energia che ordina ad una stella d’accendersi nel cuore e nel pensiero. Che questo è tutto quello che a volte si potrà offrire e quasi mai verrà compreso.

scene da un matrimonio

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Un film che colpì molto nel ’73, parlo di chi allora aveva 20 anni o giù di lì, fu “Scene da un matrimonio” di Bergman. Vivevamo in un Paese in cui, pur con il ’68 appena passato,  era meglio sottacere, far finta di nulla. Si discuteva di divorzio, ma il divorzio ancora non c’era, si parlava e si tentava l’amore libero, ma i sentimenti erano gli stessi di prima. Allora vedere che un matrimonio normale si rompeva perché lui s’innamorava di una sua allieva, ma poi le cose continuavano, i sentimenti evolvevano, si intrecciavano di nuovo, restava la sensazione che la vita era normale, dolorosa, difficile e civile. Un bel bagno di realtà, rispetto al ribollire di idee e di confusione che avevamo dentro e attorno. 

Di tutto quel film mi restarono in testa due scene. La prima era quella in cui Liv Ullmann-Marianne parla degli anziani zii, (vicini ai 70 e allora era già vecchiaia) che la sera si ritrovavano nel grande lettone e la vita sembrava ormai pacifica per loro. Invece la zia chiede il divorzio perché i figli sono grandi e non c’è più motivo per stare assieme, non c’è più amore. La seconda scena era il ritorno assieme dei protagonisti per una notte, entrambi si sono risposati, si dicono felici, si ritrovano assieme per un anniversario. Stanno cercando una traccia importante di loro nel presente, forse un futuro, anche se non lo dicono. Fuori c’è silenzio, freddo e buio. Che sia la solitudine il motivo?

Il matrimonio veniva visto come contenitore di sentimenti: l’amore si era svolto, poi l’affetto non bastava più e la soluzione risiedeva nella razionalità del divorzio. Ma pure questo non bastava per rimettere assieme vite e sentimenti. Come se il lasciarsi fosse comunque una ferita che non rimarginava perché l’amore era una risposta alla solitudine e questa permaneva per sempre, al più si attenuava. Così mi pareva che la tesi fosse che le vite procedono e includono i sentimenti, ma l’esito può essere lo stare assieme oppure lasciarsi e che l’una o l’altra cosa dipendesse dalle scelte contingenti e che alla fine tutto ciò dipendesse dalla solitudine.

C’era una logica stringente nella meccanica delle cose, gli amori nascono, crescono, finiscono e pensavo che questa idea era così naturale che la sapevamo tutti, ma lì funzionava e qui no. Forse perché in Svezia c’era la razionalità protestante mentre da noi diventava persino arduo pensare l’idea che i sentimenti evolvono, e così il bene delle persone veniva spostato verso una loro relativizzazione. Una sorta di utilitarismo legato alla famiglia come entità socio economica prima che come insieme di affetti e siccome non si era trovata una buona soluzione economica tutto veniva tenuto assieme, si derubricava la paura del disamore, la solitudine. Certo gli amori per una vita esistevano, e si raccontavano, ma non erano la norma, erano una conquista delle persone, non del matrimonio. Quello che stava dietro a questo evolvere assieme l’amore, non si indagava, era un patrimonio personale che si chiudeva in un incontrarsi e in un mutare assieme. Per noi che eravamo giovani, già il poter esibire l’amore, sperimentare, discutere era rivoluzionario. Bastava, e sembrava che alla fine il cambiamento sociale collettivo avrebbe risolto tutto toccando motu proprio la radice del bisogno di stare assieme. 

Cosa e quanto è mutato da allora? In mezzo c’è stata la legge sul divorzio che ha tolto molta ipocrisia, sono scomparsi (ma ora tornano trionfanti) i vecchi partiti del si fa ma non si dice ma questi anni sembrano aver riguardato il contorno, il sesso, la liberalizzazione di alcuni comportamenti mentre sull’evolvere dei sentimenti, su come le persone possono educarsi all’amore e anche a lasciarsi, non c’è stata una consapevolezza sociale profonda. Perché non si indaga abbastanza su questa solitudine che si insinua tra di noi e che nessun contratto riesce a sciogliere?

La domanda che si fa Marianne-Liv Ullmann, anche oggi pare abbia solo risposte personali e che in fondo non sia mutata:

“Credi che viviamo in una totale confusione? Credi che dentro di noi si abbia paura perché non sappiamo dove aggrapparci? Non si è perso qualcosa di importante? Credo che in fondo c’è il rimpianto di non aver amato nessuno e che nessuno mi abbia amato?”

Ecco questa forse era una radice del problema, ma allora esisteva il cambiamento, la psicoanalisi, gli psicofarmaci, e tutto veniva semplicemente rinviato ad un oggi in cui tutto è scontato e nulla è approfondito. Leggevo nell’ultimo libro di Paolo Giordano, Tasmania, l’evolvere della sua vita di coppia e la frase che a un certo punto pronuncia alla sua compagna, che è molto più innanzi di lui nella comprensione dell’amore come rifiuto dell’egoismo: non vedo noi nel futuro. E infatti il suo apporto alla vita di coppia è fatto di indecisioni personali, di dubbi, di paure sul futuro della specie e sull’inarrestabilità del degrado climatico, tutto concreto, ma paralizzante e non genera una catarsi nell’amore. Ci sono amori che si formano attorno a lui, ma sono atipici, disorientanti e non si chiede della natura di questo evolvere. Non analizza, eppure è un fisico, un uomo di scienza.

Ai tempi di scene da un matrimonio era più semplice, l’evoluzione dell’amore era all’interno di un paradigma codificato che se viene scardinato genera un altro amore simile, difficile ma ripetitivo. Ciò che non è accaduto è rendersi conto che la cosa di cui più si parla, l’amore, non può essere espunta dalla società. E’ un fatto personale e collettivo, ha aspetti pubblici e privati, ma ciascuno ha a disposizione le soluzioni che l’educazione, il sentire, il contesto gli offre. Ora esaminare l’amore ai tempi della possibile estinzione, cosa significa? Parlarne adesso significa considerare che l’amore romantico è mutato, è diventato specie e interpello personale, ma anche problema di massa che non ha adeguate risposte. E questo lascia attoniti.

la ricerca del tesoro

In evidenza

Oltre i portici, dietro le case che si appoggiano l’una all’altra, ci sono rettangoli di terra. Sono antichi orti di città, separati da muretti di mattoni, alti secondo l’amicizia tra vicini. Alcuni con gli spazi per appoggiare i gomiti e conversare, altri di tale altezza da occludere la vista e irti di cocci di vetro destinati a ipotetici ladri o gatti stranieri. Abitavo in una di quelle case del centro che un tempo era appena fuori le prime mura medievali della città.

La città dei Veneti, poi romana, era diventata bizantina come tutte le città vicine alla costa dell’Adriatico. Per  la sua importanza era stata il baluardo di difesa a nord dell’esarcato di Ravenna, dopo che Aquileia e le altre città della decima legio erano cadute sotto dominio longobardo. Intorno al 598 accaddero fatti straordinari e gravi, i due grandi fiumi che difendevano la città, per forti inondazioni e sconvolgimenti naturali, cambiarono corso spostandosi dal sito consueto. Si doveva capire che i presagi non erano buoni e infatti due anni dopo, la città fu cinta d’assedio dai Longobardi; rifiutò d’arrendersi e resistette 10 anni, poi capitolò. Ne parla Paolo Diacono, dicendo che l’intera città fu distrutta dandola alle fiamme e abbattendo le mura e gli edifici principali. La rovina fu proporzionata alla fierezza dei difensori e talmente severa che gli abitanti si ridussero a poche migliaia da quasi settantamila che erano prima dell’assedio. Restavano pietre ed erba dove c’erano stati porti, anfiteatri, terme, edifici imponenti, ville, case, ed ora sulle vie consolari pascolavano le pecore e si viveva nelle capanne. La sede vescovile fu soppressa per due secoli e spostata a Monselice. Si era tornati agli albori della storia, quando gli euganei popolavano di palafitte i fiumi, si raccoglievano in villaggi, avevano lingua, scrittura e forza militare. Accadeva ben prima che Roma nascesse e questi allevatori di cavalli, artigiani e guerrieri commerciavano con gli Etruschi, correvano i fiumi e raccoglievano e vendevano il sale della laguna.

La mia casa aveva un notevole riquadro di terra all’interno, si coltivava l’orto, c’erano alberi da frutto, spazio per correre e giocare. Non distante da dove abitavo era stata scoperta una villa romana, una piccola parte ma significativa. Era emerso un grande pavimento a mosaico e con figure colorate di uomini e animali, contornato da fregi intrecciati, era parte di una delle stanze, quale non si capiva. Era stato estratto intero e portato al museo. Si diceva che, per certo, la villa fosse ben più grande e che non si riuscisse a perimetrarla semplicemente perché le case le erano state costruite sopra, e altri pavimenti erano sotto cantine, strade, od orti. Questo racconto, unito alla vista quotidiana di quel mosaico che era sulla strada per andare a scuola, l’avevo udito in casa e aveva acceso la mia fantasia. Così d’estate, con la scusa di curare l’orto, scavavo buche a casaccio, aiutato dal cane di casa. Emergeva di tutto e nulla di quello che volevo, pensavo che anche in quella terra lavorata da millenni, ci fossero tracce di antichi manufatti. Mi accompagnava la curiosità interessata del mio cane, gran seppellitore di ossi, che però, oltre a riempirmi le scarpe di terra, non aveva gran utilità nella ricerca.

Ma io cosa cercavo? Credo mi aspettassi di trovare un tesoro sepolto da qualche abitante prima che la città capitolasse, magari una pentola di monete od oggetti preziosi di una casa patrizia sfuggiti alla devastazione dei longobardi. Oppure un pezzo di mosaico, un vaso, un’anfora come quelle che si vedevano nella casa accanto. Insomma qualcosa si sarebbe trovato. Per non tirarla troppo in lungo, nelle ripetute campagne di scavo, venne fuori una quantità industriale di radice di cren, ottimi vermi da pesca, non pochi ossi di manzo e prosciutto riseppelliti con solerzia dal cane Poldo, un notevole assortimento di pezzi di vetro e di ceramica, una monetina dello stato pontificio della fine del 1500, pezzi di marmo che attribuii a colonne spezzate, un paio di capitelli che lasciavano ben sperare, molta stanchezza serale. L’orto non fu mai così ben vangato come in quell’estate e a settembre chiusi la campagna di scavo.

Mi è tornato a mente quel tempo, così ricco di attesa, perché è una buona metafora della ricerca dentro di noi. E cioè, una fatica notevole, idee confuse, poca sistematicità nel cercare, la fortuna che latita, ritrovamenti che sembrano incongrui e che vengono scartati rispetto al grande risultato atteso, stanchezza finale. Allora avrei dovuto seguire la pista della monetina, insistere sui marmi e sui capitelli, cercare i collegamenti tra le cose e invece volevo il tesoro. Volevo cioè dimostrare che la ricerca produce un cambiamento radicale e immediato. Ho capito molto dopo che nel cercare dentro si trovano un sacco di cianfusaglie, che ciò che appare è la superficie scambiata per il profondo. E ho anche capito che serve metodo e silenzio, pazienza e acume. Tutte cose di cui siamo dotati, ma che  se applichiamo nella ricerca in profondità, diventano difficili da gestire su un risultato, ovvero portano dove vogliono loro.

Ho capito con molto ritardo, che non si trova ciò che si cerca, ma ciò che ci cerca ci trova e che questo, quasi mai è piacevole e non risponde al risultato atteso, però è in grado di cambiarci un poco, di attivare nuovi percorsi di vita, di farci scoprire legami inattesi. In fondo ciò che c’è sotto ha un suo fascino e si riallaccia a me. È la mia storia, non come me la sono raccontata, ma come si è creata facendo interagire la resistenza alla conquista, la punizione conseguente, la volontà di creare il nuovo, la capacità di non dimenticare nei secoli bui del cuore, chi ero. E questo processo, ne sono convinto, è quello che percorriamo tutti se cerchiamo qualcosa. Per questo non smetto di cercare e sono convinto che il sotto non smetta mai di dialogare con il sopra, attenda paziente di essere scoperto e di rivelarci il tesoro della conoscenza che non si esaurisce. Cari colleghi che non vi accontentate della superficie, buona ricerca e che gli dei del profondo ci aiutino.

qualsiasi cosa pensi

Da qualche giorno ho una urgenza di scrivere, sono inizi di pensieri da sviluppare, cose che si svolgono nei particolari che vedo, nella mia testa, in quel momento che ha durate sue, e che precede il sonno. Riempio pagine di appunti, cerco significati, misuro coincidenze. Il che non basta per considerare che si possa passare all’atto pratico e sensato di mettere in fila i pensieri. Sono porte che si aprono, necessità di mettere ordine.

Ad esempio se penso al Natale lo sento come una nascita che mi riguarda, un guardare in avanti che chiede un nuovo modo di vedere il mondo. Si sono accumulate tali e tante delusioni in questi anni che l’essere parte di una comunità divenuta sempre più indifferente, ha fatto smarrire il senso del procedere nell’umanità collettiva. Come si è uomini tra gli uomini?

Certo, la caduta dei miti, delle ideologie, ci ha lasciato soli. Uso il plurale perché penso ai molti che hanno speso le loro vite cercando di realizzare una piccola parte di utopia, senza interesse venale ma per una passione che spingeva verso l’eguaglianza, il giusto, il vero. Non posso pensare a quelle vite come inutili perché scomparire be la speranza, ovvero il motivo per resistere a tutto quello che mina la sopravvivenza del bello, dell’equo, della vita stessa. Quindi penso che chi ha vissuto parecchio, ha fatto esperienza di sé e del mondo e ancora crede nell’uomo debba raccogliere la piccola luce che possiede, quella grande di chi l’ha preceduto, è guardare con nuovi occhi se stesso e il mondo.

Nascere ora è questo essere nuovi perché muta la percezione, il sentire, il fare la nostra piccola realtà. Penso che la sera I pensieri che si accumulano e che urgono, debbano contenere la nostra giornata che seguirà. Il nostro nuovo farsi e fare è ciò che con pazienza, altri hanno fatto di loro stessi prima. Senza raccontarci storie, mettendo al bando inanità e tristezze, riprendere il nostro posto, con ciò che pensiamo nella realtà.