coraggio

C’è più coraggio in un riconoscimento di insufficienza e quindi nel ripiegare sulle posizioni più sicure, oppure nel tener testa, combattere oltre quello che si pensava e non recedere? Ognuno ha una sua risposta e vale sempre in quella vita che non è solo battaglia e tanto meno eroica. Penso alla vita quotidiana, alla difficoltà di fare il proprio lavoro oltre il minimo lecito, alla necessità di dire se si ama o meno una persona, al mettersi contro chi aggredisce portando idee trite e ritrite e magari approfitta del consenso intorno. Penso anche che il coraggio sia una scuola, ovvero che non valga il teorema di don Abbondio che chi non ha coraggio naturalmente, non se lo può dare. Se si viene educati al coraggio di dire ciò che si pensa, al tenere fede alle promesse, se si ha l’educazione a non compiacere ma a dire la verità, sopratutto nei sentimenti, non si è più felici, ma di sicuro più forti e coraggiosi.

Perché val più chi fugge, chi è un tartufo, chi accondiscende, chi si mimetizza, chi non dice la verità? Bisognerebbe rispondere a questa domanda perché il coraggioso alla fine sembra un visionario, un illuso, spesso un imbecille che non bada al suo tornaconto e allora se è così perché il coraggio non viene derubricato dalle azioni possibili e semplicemente si fugge. Si fugge tutti, da ogni difficoltà, da ogni impegno, da ogni fatica senza pensare che ci sarà qualcun altro che la farà al nostro posto. Perché dovrebbe essere normale un mondo in cui è normale che qualcuno si sacrifichi al nostro posto? Un bel mondo di ignavi, dove ciascuno pensa a sé e se c’è bisogno si sta zitti perché aiutare, fare ciò che non è richiesto è comunque una forma di coraggio. È questo che si vuole? Bisogna pensarci perché su questa strada siamo avviati da tempo e i coraggiosi vengono trattati da imbecilli.

il sostenibile peso del divagare

È un cono panciuto, soddisfatto anticipatore di una forma alla Norman Foster (30 St. Mary Axe, London), solo molto più piccolo e meno fallicamente evocativo. Ha più di 250 anni, certamente fatto a mano con notevole, perduta, precisione. Probabilmente passato con un tornio ad acqua per lisciarne la superficie dopo la fusione ad anima persa. È almeno del ‘700 e veneziano. È un peso da stadera, non piccolo come un suo fratello tondo e ottocentesco. A fatica sta nel cavo della mano, e pesa: la cera persa è stata sostituita da un’anima di piombo che lo rende inaspettatamente consistente. Segno, quest’ultimo, che era destinato a una stadera per pesi notevoli. Sulla superficie d’ottone brunito ci sono i segni dei verificatori del peso, il leone di San Marco e forse il marchio del balanzėr. La Repubblica non aveva pietà per i truffatori e i falsari e, al contrario di quanto accade ora, il commercio aveva bisogno di un potere che gli desse certezza non il contrario. Ci provavano a frodare, ma se presi, la pena era severa. Non ci sono tracce di verifiche ulteriori, austriache o sabaude, e forse da un uso pubblico è passato ad uno domestico. Onorato servizio prima di perdere funzione. Non per sua responsabilità immagino, forse cedette il piatto della stadera, più debole e suscettibile d’essere venduto al peso d’ottone, oppure l’asta incisa fu soppiantata dall’arrivo di Napoleone e dal suo sistema metrico. Sono per questa tesi, e per una sua graduale uscita di mercato. Pur essendoci tracce di once e libbre nel dialetto di casa, una bilancia doveva misurare chili ed etti dopo il passaggio dei franzosi. E mi i piace credere che abbia fatto parte dello sconquasso, che sia stata questa invasione che lo mise in disuso e che per fortuna e dimenticanza sia giunto sino a me. All’inizio, dopo averlo scoperto, l’ho pensato fermacarte. Peso e forma aiutavano, ma in questa casa di carte non vola più nulla e lui scompariva nello scrittoio sepolto tra cose meno nobili e troppo ciarliere. Stava per suo conto, corrucciato di non essere riconosciuto, insomma non era al suo posto, e non è stato contento finché dopo vario peregrinare non è arrivato sulla credenza, prima col fratello tondo e ottocentesco, poi da solo.
Vicino alla sfera ha una sua forte personalità e il colore si avvicina a quello del legno su cui poggia con propri lampi di lucentezza quando il sole lo colpisce. È presente senz’essere tronfio, eppure di cose ne ha viste. L’ho immaginato al mercato di Rialto che pesava verdura e frutta di sant’Erasmo, o pesce di mare di Chioggia, ancora vivo, oppure carne che veniva dalle mandrie portate dall’Ongaria dopo un viaggio di settimane. La sera appesa la stadera per il gancio, penzolava alla fine dell’asta in attesa del giorno seguente per riprendere un lavoro fatto di maestria nell’equilibrio, perché la truffa non era tanto nel peso ma nella velocità con cui questo sull’asta si muoveva per segnare un equilibrio inesistente e vantaggioso. Era un tutt’uno col braccio e la mente del commerciante che doveva dare la sensazione del giusto, rubando sul peso.
L’ho pensato a Rialto o in un campo veneziano per il suo essere poco sensibile al salso, per quell’anello a losanga sbozzato a lima e levigato dall’uso. Particolari che lo retrodatano e lo portano nella bottega di un balanzer come quelle che c’erano fino a pochi anni fa al limite del ghetto a Padova o sulla riva vicino alla Misericordia a Venezia. Sono testimoniate dalla difficoltà di fare fori netti, di lavorare metallo di fusione con attrezzi piccoli. Se non a Rialto lo penserei in piazza delle Erbe, sotto il Salone, a Padova, oppure in mezzo ai colli da dove viene la mia famiglia, che era pur sempre di commercianti, anche se poi sciamati e incuranti delle cose. Lo penso in un luogo in cui si mescolano nobili e plebei, costretti dal piacere del cibo e dalla necessità di vederlo, uniti nell’usare il giudizio per valutarlo, nel tenere a conto l’andamento del prezzo e quindi del tempo politico e delle stagioni. Il mio peso è stato testimone muto di un evolvere d’epoca che noi collochiamo in un tempo remoto, ma che nasce meno di una decina di generazioni fa.

Antonio era figlio di Giovan Battista che era figlio di Antonio che a sua volta era figlio di Giovan Battista e così via a risalire nei secoli.

E lui, il peso di stadera, rappresentava la fortuna o la difficoltà di vivere. Il suo lavorare, il suo cercare un equilibrio, il suo muoversi veloce certificava l’onesta o meno del suo padrone.

L’equilibrio, il peso, la misura, in sintesi la metafora del giudicare sé e gli altri; la vita come la si interpreta, insomma. Ma non esiste una morale, né una conclusione, le cose hanno il significato che attribuiamo a loro, racchiudono ciò che noi vogliamo vedere. E così io vedo Rialto, sento le voci che magnificano la merce, il dialetto, i litigi, gli sfottò, le parole perse verso sera quando c’è un bilancio della giornata, il peso dell’ultima pesata che non si può prevedere e il trarre giudizio sul giorno e una speranza su quello a venire. Ma dipende da ciò che io vedo e sento e immagino, un altro vedrebbe un conoide, lo prenderebbe in mano, chiederebbe cos’è, commenterebbe il peso e neppure vedrebbe quei punzoni sulla superficie. Al più direbbe: però… E lo poserebbe sulla credenza.

l’assoluto è adesso

Si andava al mare. Su questa sponda dell’Adriatico. Per anni si erano frequentate le rocce e il mare cristallino dell’Istria e Croazia, poi era scoppiata una guerra e si era tornati alle solite spiagge. Sembrava una cosa dappoco, in fondo eravamo tutti civilizzati dall’ultimo conflitto, no? Eravamo europei, anche più di adesso, e in Europa non ci sarebbero state più guerre. Era un patto chiaro e semplice, tra Stati moderni e civili.

Così quanto accadeva si vedeva da distante, dal mare, che poi era lo stesso, a Barcola, a Costa dei Barbari, come a Lignano o Jesolo, si continuava a fare il bagno, a prendere il sole. Nessuno pensava che arrivasse una barca dall’altra parte, che ci fossero profughi, eppure con un buon motoscafo erano distanti un paio d’ore di mare. Però arrivavano le notizie degli scontri, gli eccidi, le bombe. Sarajevo e il suo ponte che saltava, Ragusa bombardata, Spalato, Zagabria, ma ancor più Tuzla, Skopje, Pristina, fino all’orrore di Srebrenica. Come un corpo che si risvegliasse impazzito, quella che per noi era ancora la Jugoslavia, si scrollava pezzi di carne viva e pezzi si staccavano, ritrovavano ragioni e assetti che risalivano a conflitti antichi di luoghi, religioni, di guerre tra turchi e cristiani.

Arrivavano notizie e durante l’anno s’aiutavano i profughi che s’ ammassavano in Istria e in Dalmazia, ma sembrava fosse lì lì per finire senza orrore. In fondo si relativizza anche se nei telegiornali, nelle fotografie degli inviati di guerra, l’orrore cresceva. Però la Bosnia, il Kossovo, sembravano così distanti… Come l’Africa adesso. Alcuni dicevano: sono fatti così, sono slavi. Come ci fosse un’abitudine all’atroce che riguarda alcuni e che periodicamente risale dal profondo e noi ne fossimo immuni. E così si andava al mare e non ci si pensava più di tanto. Era vicino, ma per le nostre teste tarate sui percorsi delle auto che ci portavano a quelle spiagge, sembrava tutto distante.

Anche oggi andiamo al mare e non capiamo cosa avviene sull’altra sponda, non diamo importanza, sembra non ci riguardi. Anche perché in Libia mica ci andavamo al mare, magari in Marocco o in Tunisia sì, ma quando mai in Libia. Basta restare da questa parte e poi passerà.

Noi andavamo al mare vent’anni fa o giù di lì, e si pensava finisse presto. Eravamo distanti dalla realtà più che dai luoghi, perché quella realtà non ci piaceva, come adesso, non era quella che avremmo voluto, non è quella che vorremmo. E allora bastava metterla distante e non pensarci più.

In ricordo di un uomo grande: Alexander Langer. Perché per essere uomini bisogna vedere e capire e lui non si rifiutò mai di farlo.

la grande bellezza

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Mi racconti di come la città sia scivolata dalla speranza alla disillusione, di come la bellezza si sia velata, nascosta in sé, retratta per sdegno. La spazzatura che si accumula, la metro che si ferma, gli autobus senz’aria condizionata e l’impressione di un’ anarchia da rotta che induce il pensiero dell’abbandono. Ma chi non può andarsene, chi è affezionato alla bellezza. Chi la sente come propria motivazione, compagnia, sorella del vivere, che può fare se non oscillare tra la protesta che arrossa il viso e sbotta nelle parole poco ragionate di chi subisce un torto e la rassegnazione che, al pari della bellezza, ritrae in sé, attende tempi migliori; in fondo contando sul fatto che l’evidenza abbia infine una ragione?

Ti confesso che, distante e quindi poco addentro alla meccanica dei ricatti che indubbiamente si sono instaurati generando impotenza, sarei propenso al decidere forte, uscendo dall’infingardaggine, magari per poi pentirsi, ma almeno aver fatto qualcosa per mutare ciò che sta attorno, e quindi sé. Un paio di mesi fa, a Napoli, capitale anch’essa derelitta e conservata solo nelle parti in cui la bellezza deve mostrarsi perché evidente, visitai al museo archeologico nazionale, le collezioni classiche dei Borboni, ad essi giunte o per scavi a Pompei ed Ercolano, oppure attraverso l’eredità dei Farnese, e di quella statuaria imponente mi restò l’impressione, assieme allo stupore per tanta bellezza creata, che solo un tempo si potè conservarne l’idea del goderne, del mostrarla, dell’indicare l’assenza di misura proprio portandola a cultura, a meraviglia. Ciò che serviva ai potenti per magnificare sé, serviva poi a tutti, per cui l’appartenenza ad una città, a un luogo, a una stirpe, generava rispetto e cura, mentre ora, che in piccolissimi interessi s’era dissolta l’idea d’ essere partecipi di un tutto, emergeva una sciatteria e un disprezzo del bene comune che alla fine generava il brutto. Non è forse questa una delle idee che abbiamo della bruttezza, veduta nell’incuria di sé, della propria immagine, della possibilità d’essere anche per altri e non solo per sé? Per questo, quando mi racconti delle tue giornate faticose, sento il limite di un Paese che non trova una via d’uscita alta, che non crea un orgoglio e una cultura adeguata al tempo, ma si perde nella furbizia e nel tornaconto. Neppure i potenti sanno essere tali e si valgono di mille piccoli interessi che non sanno dominare e sono da essi ricattati. Quindi non il diritto e il giusto, ma l’abuso, il privilegio e la furbizia elargite che poi si riversano su chi è più debole e non può difendersi.

Di questo ho tristezza, come della spazzatura che si accumula agli angoli e penso che noi tutti diventiamo rifiuto nel perdere dignità, nel non usare fermezza e mano dura contro i furbi che nel privilegio sguazzano. Si corrompe un’etica, se mai c’è stata, del bene comune e con essa, dal basso, si compiono tante piccole sopraffazioni. Questo non tollero e, seppur distante, ti capisco. E sento come un ferire noi tutti il continuo non affermarsi del diritto, ma dell’abuso. Io spero ci sia una via d’uscita, lo spero per tutti noi e non per quelle frasi fatte che dicono che il pesce puzza dalla testa, ma per la convinzione che senza uno scatto d’orgoglio smotteremo anche noi in una china dove l’essere stati sarà solo ricordo e tristezza per non aver saputo, voluto, potuto.

volo di notte

Resistere al sonno della ragione, alla tentazione di far diventare passato il presente.

Devo.

Togliere consistenza alla lettura dei fatti, usare l’ironia che è senso della misura, relativizzare, svuotare ciò che si vede dal suo carico predittivo.

Devo.

Limitare l’acuzia dello scorgere e deldell’intuire, 0trattare cio che emoziona come un indistinto ondeggisre di realta che si elidono, che non hanno attracchi, che si rifugiano nel luogo comune per dare un significato.

Devo.

Questo è il dramma del pensare a sinistra, della mente e dell’azione che vuole mutare e non s’accontenta, del vedere secondo i canoni di un’ umanesimo che non è piu tale nel pensiero politico, perché la sinistra ė l’unica ideologia negletta, gettata nel fango dai suoi stessi epigoni che non osano, non sono, non vogliono rivendicare una storia che nel sangue non ė meno fulgida delle altre ideologie rimaste. Eh si perché le altre ideologie ci sono tutte, vive e vegete: il liberismo, il capitalismo, la destra nelle sue infinite varianti tra il nazi fascismo e la reazionaria quiete del conservatorismo. Nei giorni scorsi si è arrivati a chiamare un nuovo partito: conservatori e riformisti. Meglio non vedere, non sentire, non capire se ciò che si dovrebbe opporre a tutto questo con la nitidezza delle analisi, con la convinzioni dei principi, con quel piccolo inesauribile breviario di umanità e lotta politica che si riassume in libertà, eguaglianza e solidarietà, sono poi i socialisti europei che si vergognano d’ogni pensiero che non sia conforme ad un liberismo che neppure vede l’uomo.

Così il presente lo sorvolo e aspetto passi. E penso che solo l’ umanesimo ci possa salvare, diventare luce, pensiero positivo del fare, insomma dare appartenenza al presente e relegare quella pletora di segni di piccolezza a quello che sono: infingardaggine, furbizia, pusillanimita.

Ritrovare, finalmente un senso alla fine della notte, al futuro.

Devo.

cosa c’è di nuovo?

Tenere bene a mente questi nomi: Germania, Austria, Finlandia, Slovenia, Estonia, Olanda, sono gli stati che diranno se si potrà trattare con la Grecia. Quelli che hanno più sovranità degli altri. Tenere a mente anche questi quattro nomi: Germania, Olanda, Estonia, Finlandia: sono quelli che devono approvare l’accordo nei loro parlamenti. Questi hanno ancora più sovranità. Voi pensate che un’Europa che umilia una Nazione e non ha nessun processo di unione dei popoli in corso abbia un futuro? In queste trattative non c’è stata una parola sulle miserabili condizioni del popolo prigioniero del debito, non una considerazione su chi si è arricchito, non un pensiero che considerasse sia le banche salvate che le aziende fallite, nulla sul lavoro perduto, sulla diseguaglianza cresciuta, sulla povertà acquisita.
Questa non è la mia Europa, non è quella di Spinelli, ma neppure quella di Adenauer e Schumann. Non è l’Europa dei socialisti e neppure dei democristiani che avevano conosciuto la guerra e la necessità del rispetto comune e della pace, Non è l’Europa che mette assieme ed esclude la volontà di potenza, questa è altra cosa e m’ interessa poco.
Non c’è nulla di nuovo e non s’è  imparato nulla, non siamo più vicini, siamo prigionieri. E ciò che accade non promette nulla di buono perché ogni gesto verrà ricordato, ogni umiliazione tornerà a galla. E c’è un corollario in ciò che è accaduto: chi crea un debito pubblico ha una responsabilità che non è solo politica, ma personale. L’ha già fatto l’Islanda. È una cosa nuova, ci pensi chi governa: il popolo può chiedere conto, non solo la finanza internazionale.

restate nelle case

 In Italia o altrove, sempre più spesso arriva questo invito del governo, della polizia, della protezione civile: restate nelle case.

Restate nei vostri fortilizi, barricatevi, circondate di mura i giardini e le piazze, non possiamo difendervi, non possiamo garantire la vostra incolumità. Anzi non riusciamo a mantenere ciò che è scritto e cioè che la giustizia sia imparziale e quindi ciò che è giusto per alcuni sarà ingiusto per altri e questi si incazzeranno e vorranno pareggiare il conto e diventeranno pericolosi. Chiudetevi in casa, state attenti, il mondo che governiamo è insicuro, qualunque cosa facciate è a vostro rischio.

Le nostre case sono oggi la sicurezza, pensate al terrore che si prova vedendo in un film, la porta che viene abbattuta: è il male, non l’ospite che entra.  E su questa sicurezza/insicurezza si fondano fortune politiche, si erode la libertà di muoversi, di essere, di comunicare.

Ma io voglio uscire di casa, stare tra gli altri, non pensare a  nuove blindature, voglio essere libero senza pericolo. Ed invece sempre più mi dicono che la libertà è un rischio, che non la posso esercitare ovunque , così che il limite della libertà sta diventando la mia casa. 

Qual’è la politica della sicurezza che ci permette di essere liberi ovunque?

segnali

La Cisl prevede 900.000 nuovi disoccupati nei prossimi mesi, ora il suo problema è come reagire a questo governo e alle sue proposte.

Nei prossimi mesi si giocherà una partita fondamentale per l’economia italiana e ciò che uscirà dalla recessione sarà ben diverso da quello che conosciamo ora. Sparirà una parte del manifatturiero entrato in crisi nella crisi. Ci saranno fenomeni delocalizzativi accentuati dalla ricerca dei bassi salari nei paesi emergenti. Segmenti importanti di tecnologia, che attualmente vendono molto all’estero, saranno ridimensionati dalla crisi dell’auto e del mercato consumer. La crisi trascinerà il terziario e la ricerca finanziata dalle imprese, nel ridimensionamento delle commesse.

Fin qui, previsioni elementari, ma le domande da porre alla Cisl e agli altri sindacati vengono dall’azione: come si creeranno posti di lavoro nei prossimi mesi, come si sosterrà il reddito attuale, quanto conterà l’unità dei lavoratori per determinare una uscita favorevole dal tunnel?

E se il governo non sta facendo le politiche giuste per recuperare posti di lavoro e redditi sufficienti, perchè a fronte di 900.000 posti di lavoro in caduta libera, la Cisl non partecipa allo sciopero generale del 12 dicembre, indetto dalla Cgil?

Se non arrivano risposte mica mi preoccupo, mi terrò i miei pregiudizi.

emigro

Almeno in parte, emigro. Una parte scrivente di me si specializza, credo che porterò le mie furie, e i pensieri che le accompagnano, altrove. Le persone che frequento, i blog che leggo, mi assomigliano e mi trovo bene, mi manca solo quella parte di politica che ha fatto la mia vita. In questi giorni, penso alla scuola, all’opposizione sindacale fatta a suo tempo a De Mauro, a Berlinguer nelle loro ragionevoli riforme, a Bonanni e Angeletti sempre pronti a trattare, al sonno del parco buoi che emerge in mogugno, ma non si concretizza in coscienza,  alla Cgil che non capisce che l’unità sindacale è finita e basta, al Pd che si barcamena e non dice a sufficienza per paura dei propri democristiani, dei cattolici, dei posti da perdere e fa l’arrogante solo con quella sinistra divisa e disgraziata, incapace di un corteo unitario, ai cittadini che si rivolgono al capo dello Stato, e non all’opposizione, perchè ritengono che sia l’ultima speranza (delusa peraltro), alla politica di destra che affronta problemi veri, là dove quella di centro sinistra ha preferito sorvolare, e propone, naturalmente, soluzioni di destra. A quelli che si scandalizzano tra una tartina e un campari, all’incapacità dei riformisti di rispettare il nome che portano e non propongono riforme convincenti. A questo paese che non è peggio di altri, ma sta peggiorando, a Berlusconi a cui non si dice che è il peggiore capo di stato in occidente, a chi non vede che il berlusconismo altera definitivamente il modo di percepire i diritti. A chi giustifica la lega perchè è di popolo, a chi pensa che non ci sia speranza, a chi si culla nell’illusione di emigrare, a chi non trova lavoro e non si ribella, a chi si accontenta oltre la dignità, a chi si è rotto le palle di questi discorsi tanto non cambia nulla, a chi vede sempre le ragioni dell’altro che comanda e mai quelle di tutti, a chi è imbecille e non lo sa, a chi crede di salvarsi, a chi se ne frega tanto non va più a votare, a chi non capisce più qual’è il suo ruolo, a chi ha la ragion di stato, di partito, di convenienza. Come faccio a non dire che tutto questo e altro mi sta sul cazzo, che l’unica via è quella di cercare di modificare questo stato di cose, che i sentimenti sono parte della vita reale, non una via di fuga. Si può traslocare nel virtuale, trovare una Patagonia dove sia bello andare e al tempo stesso avere un posto dove tornare? Credo di sì, e credo anche che se si mettesse in moto una migrazione di massa chissà quali sarebbero gli effetti nel mondo reale. Basta pensare all’effetto Obama sul convincimento delle persone attraverso la rete, partendo da oggettive condizioni di difficoltà. Reale e virtuale si toccano, si scambiano i ruoli, influenzano scelte e condizionano vite, nella politica in Italia non è così. Non ancora e prima che questo terreno tendenzialmente libero, venga circondato di reticolati, è possibile lavorare sulla coscienza della forza del mezzo. Ai detrattori, ai minimizzatori dell’importanza di questo mondo, finora non è interessato intervenire, perchè gli effetti sono la babele, il pensiero che si elide, ma se le cose mutano allora i benpensanti denunceranno la canaglia e il bubbone. Questo blog non chiude, parlerà meno di tutto questo, annoierà da altre parti. E’ necessario comunicare quando si parla di sociale, di politica, di vita comune, ma se non ci sono commenti o critiche, si resta alla superficie. E questo non mi va.  

no

Non collaborare, lasciare che sia il governo a governare, fare opposizione, difendere chi è debole, chi perderà il posto di lavoro, chi non galleggia. No. Non capisco quello che non sia difendere i diritti individuali e collettivi, la responsabilità dell’opposizione è verso la propria idea di paese.