elogio della perfezione imperfetta

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A tutti, l’insegnamento della perfezione, e del perfettibile, viene inoculato con la crescita. Ci si misura tra ignoranza e fare, tra modelli e realtà, così l’ansia da perfezione si trasforma in ansia da prestazione. Con un ottimo curriculum di pressapochista, di fancazzista di talento, di inesperto nelle arti maggiori e minori si può aspirare a scalare i più alti gradi della scala sociale, di collocarsi in quella sfera prevista dal principio di Peter, dove il dubbio sulla capacità e l’incompetenza si fondono, ma sono già collocati così in alto da essere poco scalfibili. Credo dipenda tutto dallo scarso uso del riso e della serietà della satira sostituiti dal dileggio e dal gossip, entrambi non solo inefficaci nel far vedere i veri limiti del soggetto, ma soprattutto laudativi del potere di esso e quindi rafforzativi di un potere che se si merita l’attenzione e il sussurro dovrà pur essere importante. Conoscendo bene le qualità dell’incompetente per personale esperienza, posso affermare che solo l’ego può mettere argine alla patacca reiterata e che solo la brutta figura diventa un deterrente credibile a chi ha una fiducia illimitata nel farla franca. Allora raccontiamola bene: esistono due tipi di umanità, gli inadatti consapevoli e quelli inconsci, ma la differenza vera è che entrambi si distinguono in realtà nella speranza di farla franca. Per questo le università si riempiono di esperti, di sapienti, di competenze che producono inesperti, tuttologi, incompetenti rispetto allo studio effettuato e in piccola misura, invece, nascono inventori, professionisti capaci, specialisti che saranno coordinati spesso dalla prima categoria di incompetenti. Da ciò, se le premesse sono giuste, se l’esperienza non ci inganna, se ne dovrebbe dedurre che una società sostanzialmente pressapochista e un po’ cialtrona, ha al proprio interno un oscuro collante che la tiene assieme e la fa evolvere. Solo che raramente il collante viene riconosciuto e osannato mentre l’onesta mediocrità ha il potere, guida, governa, legifera, promuove, giudica, affonda e innalza secondo suoi criteri e convenienze. Quindi sembra che il mondo abbia una serie di falsi obbiettivi: un’ansia da prestazione su cose che produrranno ben poco, un focalizzarsi sul gesto, sul particolare e non sulla somma delle cose fatte. Mentre se si parla di prestazione si dovrebbe considerare lo specifico e l’insieme, la riproducibilità e l’inventiva, l’errore che genera il nuovo ma questo esige che chi governa queste cose sia fattore di unione, abbia visione ampia, veda l’errore e lo sani, governi essendo un capo, cioè colui che anche l’ultimo dei suoi riconosce come tale. Così la prestazione non bara, ha un valore economico, è competenza e non è patacca.

Ma che conta tutto questo se invece di inoculare l’idea della prestazione si passa all’idea della perfezione, cosa ben più dinamica e misericordiosa della prima? L’idea della perfezione si può misurare con qualsiasi cosa, è un rapporto con sé prima d’ogni altro, accantona gli insuccessi, non li mostra e soprattutto tratta bene chi ha gli stessi problemi. La perfezione, sapendo di non poterla raggiungere, porta con sé la pazienza, spesso l’ironia che porta a ritentare. Si sa sin dall’inizio che è un processo asintotico, che quanto più bravi ed esperti si diventa, tanto più si vorrebbe trasmettere la piccola competenza raggiunta perché l’opera venga continuata da altri. In questa continuità c’è la dimensione della ricerca della perfezione, ma questo non ha grandi riflessi sulla società perché la perfezione non è di serie e quindi non ha un valore economico di massa. È un procedere per cultori, per iniziati e se lo sono davvero, non hanno l’ansia da prestazione ma l’ironia del far bene, dello stare assieme, del condividere ciò che si può. In fondo chi cerca la perfezione sa di essere ignorante, poco intelligente, scarsamente preparato, chi invece ha la sensazione del ruolo, del potere, della mansione riconosciuta pensa di essere adeguato e di poter aspirare a più di quello che ha. Il fatto è  che la perfezione è un dialogo con se stessi, mentre la prestazione è un dire ad altri cosa devono fare non sapendolo fare.

stanchezza

Sposto di poco un quadro; si vede la linea grigia del tempo. Segni in una stanza dove le pareti sono impregnate di me eppure indecise sul da farsi. Tentano e si guardano chiedendo se va bene. L’indecisione fa parte delle cose che non sanno mai che fare, dove stare, con chi stare. Quasi tutte sarebbero superflue, ma è quel superfluo necessario. Almeno un poco perché le nostre vite semplici non sono monacali, vogliono la semplicità ma anche l’essere libere da regole troppo severe. C’è già il super io con cui fare i conti, il resto dovrebbe essere un continuo spogliarsi degli abiti ricevuti.

Pulisco il muro, allineo le cornici. Ovunque guardi questi muri mi parlano; sono conseguenza di un immaginare coniugato all’essere, alla realtà. Quindi approssimano. Accade a tutti, o almeno a quelli che rifiutano un ordine esteriore imposto. Per questo sposto quadri e oggetti, tolgo e aggiungo. La casa è uno spazio quieto. Quasi sempre lo è. Però è uno spazio mobile. Le corse e il nuovo vi arrivano filtrati; sarà perché nella casa a propria immagine si può depositare l’inermità della stanchezza? La stanchezza viene da fuori, la distendo sulla chaise longue, la faccio sciogliere in un libro scelto a caso, la svuoto in una musica che conosce la battuta che segue. Insomma la tratto bene e col giusto tempo.

Tra le tante stanchezze, quella del dover fare, del ruolo, del dover essere è tra le peggiori. Puzza di libertà decomposta, di ragioni trovate per farsene, appunto, una ragione. Non ha la limpidezza del sudore, ma l’unto di ciò che non era nostro. E non basta una dormita e via, bisogna toglierla dall’anima. A questo servono i luoghi propri, a togliersi quegli abiti imposti e sentire la pelle.

svolte

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L’edificio è al buio, ha avuto luce a lungo e ora si appresta per la notte, ma sopra la luce lo investe e sembra a lui inutile. Non a me che lo vedo e che colgo l’edificio e il cielo, assieme, congiunti.

Noi siamo struttura. Stanze comunicanti con corridoi. Pertugi e passaggi. Cantine e soffitte. Belli o brutti secondo il gusto del tempo. Solidi e fragili. Contenitori di pensieri, insomma. Ma dietro di noi, o in alto, cosa c’è. A malapena ci giriamo, guardarsi attorno sembra sia insicurezza, eppure qualcosa ci aspetta e pensa per suo  conto a ricombinare le nostre scelte.

Nella mia vita ci sono state svolte. Parecchie. Non ho avuto percorsi lineari. Alcune svolte, importanti e inattese, mi hanno fermato per un momento sulla soglia, poi la sconsideratezza mi ha spinto oltre. Saggiare, imparare, usare l’umiltà di non sapere. Non so cosa sia rimasto poi, a me molto. 

Altro mutare era collegato al sentimento. All’attrazione, che si trasforma, interpella, vuole una risposta precisa, ma è già amore. Queste sono svolte che mutano dentro. Forse il per sempre di cui parlano, è questo: l’essere definitivamente mutati.

Il lavoro spesso mi ha chiesto di osare. Mettere lo sguardo appena oltre quello che pensavo un limite, una condizione acquisita. Per un po’ nasceva silenzio e solitudine. Ma cosa tempera il silenzio se non la voglia di creare, di fare qualcosa che a partire da condizioni date muti il luogo in cui siamo finiti? Il silenzio così trovava le sue parole.

E’ un caso? Non credo, come per ogni possibilità c’è stato qualcosa che dentro di noi l’ha generata. Allora è vero che siamo struttura, ma anche divenire, sogni, luce che investe dall’alto. Come il cielo oltre l’edificio, nella sera che osa la notte, nel giorno che resiste, nella mattina che attende.

Noi, me. Non solo connessioni e stanze, abitudini e attese.

Ieri era così buio.

Non solo.

 

lavoro povero e senza domani

Il fenomeno del lavoro povero non è tale. Da sempre esiste lavoro sottopagato, malpagato, non pagato, tanto che della giustezza del retribuire il lavoro, il vangelo ne fa una condizione etica del rapporto. Dare la giusta mercede agli operai, è il sintomo di una prevaricazione che ha radici antiche. Chi più ha può togliere il giusto se non ha giustizia in sé.

Si è parlato a lungo di caporalato in Italia, e lo si confinava al sud, come questa fosse una scusante. Ma non risolvere il problema della legalità, lo ha propagato e portato ovunque. Nel nord, magari oggi un po’ meno ricco, è la condizione per mantenere e incrementare una ricchezza in alcuni settori. Però un effetto del lavoro povero è che uccide il lavoro giusto, che rende nero il lavoro bianco, che elimina la sicurezza come condizione del lavorare, che toglie le condizioni della concorrenza vera tra le aziende e la consegna all’illegalità. Nella logistica, nei servizi, nell’edilizia, nelle professioni, nelle fabbriche esistono percentuali importanti di lavoro terziarizzato in cui il committente non si cura di chi lavora, ma solo della quantità e qualità del lavoro. Come mi dire: non mi interessa come e con chi lo fai, basta che tu lo faccia. Non sono tutti così, ma il “fenomeno” si estende e così il lavoro diventa grigio e viene sottratto a due condizioni essenziali per qualsiasi attività umana: la legalità e la dignità. In queste aziende senza diritti, una parte dei lavoratori è regolare, ma è costretta a restituire parte della busta paga al caporale e con questa provvista di denaro si crea utile indebito e si utilizza per pagare i lavoratori completamente in nero. Spesso il ricatto è la sussistenza, e vale per tutti, italiani o meno, oppure la permanenza in Italia per i clandestini, un permesso di soggiorno, oppure ancora un tetto e un piatto di minestra, comunque le retribuzioni sono largamente inferiori a un livello di vita decente. Vita dignitosa come si dice in maniera più forbita. 400 euro al mese, o anche meno, per 50 e più ore di lavoro disagiato, spesso notturno, festivo, al freddo o al caldo, senza nessuna protezione, senza servizi, mensa o altro. Il problema è evidente, ma sembra esista solo per qualche sindacato, per qualche associazione che lo vede nelle sue espressioni estreme, cioè la miseria. In questo caso le soluzioni sono da emergenza: un piatto di minestra, un ricovero per qualche giorno, una bolletta pagata. Quello che fino a un certo punto stupisce è che non ci sono comuni, regioni o stato che intervengano perché vedono il problema. E neppure vedono il fatto che il problema genera problemi, in quanto è l’ultimo stadio prima della marginalità, prima dell’indigenza assoluta. La marginalità toglie la percezione della legalità e chi è stato oggetto di illegalità quando gli viene tolto il minimo, derubato, cacciato, precipita nel livello della sopravvivenza, lì dove la necessità è vivere, non arricchirsi o prosperare nel delinquere, solo vivere.  Non giustifico nulla, ma se non si previene e non si affronta, le regole comuni diventano a rischio.

Questo è il mio modo, un modo, per ricordare che chi non muore nel canale di Sicilia, non ha un grande destino in Italia, che quasi tutti accetteranno uno sfruttamento che arricchirà qualcuno che appartiene a questo Paese, che i numeri delle tragedie devono farci riflettere sulla loro origine e conseguenze, che i morti non sono solo notizia.

puzza

La povertà puzza, la vecchiaia puzza, i giovani da tempo puzzano, nella puzza intellettuale che distoglie il pensiero dalla realtà, si rifiuta l’immagine di ciò che potremmo diventare. Così viene accantonato, segregato, tolto potere e possibilità di parola alla stragrande parte della società.

I ricchi si trovano tra loro, si frequentano, sono introdotti, hanno amicizie, si scambiano favori. Lo fanno nei circoli esclusivi, nelle barche, nei salotti, nelle feste e nelle loro associazioni. I poveri sono soli, i giovani sono soli, i vecchi sono soli. Non sono forza ma debolezza, non hanno gruppi di pressione, lobby, non contano nei parlamenti, sono divisi persino nella povertà, nell’indigenza. Questo è il dramma di questa società, i deboli hanno accettato di essere ricondotti alla solitudine. Gli hanno mentito, gli hanno detto che bastava l’ingegno, la volontà per progredire nella scala sociale, l’arrichissez vous ha sprofondato tutti nella solitudine illudendo che fosse possibile arrampicarsi in una scala sociale a cui sono stati tolti i gradini intermedi. O poveri o ricchi. Un lavoratore ogni 4 è sotto la soglia di povertà, se guardiamo i giovani non arriviamo a uno su due. E’ tollerabile tutto questo? Può essere che si accetti indefinitamente di aver perso la capacità di vedere il proprio presente e il proprio futuro?

E’ stata compiuta una gigantesca operazione di trasferimento dei fallimenti: dagli stati, dalle banche, dalle imprese, dalla finanza si è trasferito sugli individui più deboli il fallimento dello stato e delle imprese mantenendo i privilegi per chi ha causato quel fallimento. E tutto sembra senza rimedio, senza possibilità di cambiamento se non per un intervento magico che ristabilisca un’età dell’oro in cui c’è lavoro, protezione sociale, rispetto dei diritti. Così si racconta la favola che nel mercato globale la ricchezza possa essere a portata di mano, che basti un’idea vincente, un prodotto che diventa di massa, dicono : non è stato forse così con il cellulare, con la tv, con i computer? In realtà nel mondo globale il successo e la ricchezza si polarizzano ancora di più perché l’asticella si alza indefinitamente e scavalcarla diventa impossibile. Competono sistemi che si basano su intelligenze collettive e asservite alla produzione di denaro, che orientano interessi e abitudini, che condizionano stili di vita privi di etica. Non ci sono intelligenze sociali in competizione, sistemi di benessere, ma individualità e ricchezze in competizione. Quindi senza capire cosa accade gli sforzi diventano palliativi  e vani, distolgono l’attenzione dalla realtà che diventa sempre più misera.

Il capitalismo finanziario genera l’incapacità di essere liberi dai vincoli che stanno strozzando i popoli degli stati attraverso i debiti sovrani e questo non mollerà la presa finché il debito non sarà pagato, indovinate da chi. Senza una reazione il futuro sarà fatto di schiavitù reali e libertà apparenti. Ma se si attacca il virus che è stato instillato, ovvero la solitudine, le cose possono mutare. Abbiamo necessità di parlarci, di usare il reale, quello che vediamo e l’intelligenza per capire profondamente che le cose non si risolvono da sole. Uscire dalla solitudine significa ridiventare società, essere forti e agire come pressione per il mutamento. Non ci sono soluzioni magiche, dipende dalla nostra capacità di essere solidali, avere obbiettivi comuni. Questa è l’unica strada.

ai grandi elettori del capo dello stato di pd e di sel

oggi avete fatto fuori prima Prodi, e non se lo meritava, poi Bersani, e neppure lui se lo meritava. Certo in politica la pietà non esiste, forse neppure il giusto esiste, ma ciò che abbiamo visto in questi giorni non fa sperare bene, per noi e neppure per voi. Eppure abbiamo bisogno di sperare bene, ne abbiamo bisogno, perché molti di noi sono in difficoltà, hanno un presente incerto e un futuro che non si vede, non vorremmo che subentrasse in noi la sensazione di aspettare inerti qualsiasi cosa, perché qualsiasi cosa è meglio di ciò che state facendo accadere, ma è anche peggio di ciò che siamo ora. Dimenticavo di dire chi parla: siamo il senso comune, o almeno un pezzo del senso comune, insomma quella parte del Paese snobbettina e adesso molto  demodé che crede nel pd e in sel. Siamo un po’ fuori, è vero, pensate che prediligiamo il lavoro come strumento di sostentamento e promozione sociale, crediamo nelle istituzioni e, siccome abbiamo tempo libero da perdere in cose futili, ci interessiamo pure ai problemi di tutti i comuni mortali. Con molta supponenza arriviamo a pensare che problemi come la carenza di lavoro, di eguaglianza, di legalità, di diritti individuali e collettivi, siano anche i problemi del Paese e se prima di dormire non siamo troppo stanchi, ancora ci ostiniamo a sperare che le cose cambino risolvendoli quei problemi. Molti di voi hanno tradito questa speranza, magari questo non vi dirà nulla, ci prenderete per sentimentali e illusi, ma qualsiasi cosa farete adesso, a noi non servirà per cancellare le ore pessime che ci avete fatto vivere. Voi non avete fatto fuori Prodi e Bersani, ma anche l’idea politica che vi ha messo dove siete. Eppure bastava poco, bastava dire che non eravate d’accordo, gli uomini fanno così, sono fedeli alla propria coscienza, prima quando dicono una cosa e poi quando la fanno. Che esempio state dando al paese, che modo avete di rappresentare il nuovo? Io credo che uno su quattro di voi si debba vergognare non per quello che ha votato, ma per quello che aveva detto di fare. Magari non vi interessa nulla di tutto ciò, solo che abbiamo capito che il scilipotismo non è una eccezione che appartiene ad altri, ma anche a noi e ce l’avete fatto capire. Anzi Scilipoti è stato più coerente di voi, che tristezza…

Forse penserete che passa, che tutto si scorda presto in Italia, se è stato votato Berlusconi da nove milioni di italiani, perché dovremmo ricordarci di voi? E invece vi sbagliate, esistono gli immemori e i furbi di professione, poi ci sono gli altri e se pensate che siamo una minoranza aliena significa che stiamo parlando con le persone giuste, che queste parole sono proprio dirette a voi. Noi non vi abbiamo scelto, qualcuno ha scritto i vostri nomi sulla scheda elettorale e con euforia vi abbiamo votati, ma potendo scegliervi, molti di voi non sarebbero lì dove siete, allora capiamo che in fondo siamo reciprocamente sconosciuti. Avevamo una possibilità usando le stesse parole, ad esempio: cambiamento. Cosa significa per voi cambiamento? Per noi significa che il nuovo è diverso dal vecchio, nei contenuti e nel metodo.  Ma per noi ciò che è avvenuto in questi giorni non ha niente di nuovo, forse la vostra paura era nuova, l’insicurezza che avete, la capacità di sbagliare così tanto, che fa pensare che improvvisamente abbiate perso il senso della realtà e la testa, è nuova. Ma comunque siete inadatti a rappresentarci e non vi giustifichiamo. Bersani è una persona per bene, ora non serve a nulla, Prodi è una persona per bene, ora non è più utile. Qualcuno di voi avrà pensato che era l’ora di regolare qualche conto, ma le vostre non sono faccende personali, siamo noi che vi abbiamo votato che avete usato come stracci. Molti di noi si aspettano una parola di scusa da parte vostra e un comportamento degno, non vi perdoneremo, ma la dignità almeno ve la riprenderete. Non avete distrutto un sogno, sappiamo di cosa parliamo perché la nostra vita è concreta, avete distrutto una realtà, ecco di questo a molti di voi resterà la colpa.

domande inopportune

Si può chiedere ad un ragazzino di undici anni cosa farà da grande, anche credergli, ma poi seguirne la volontà è altra cosa.

Cosa significa ascoltare i figli, attribuire loro una capacità di giudizio indipendente dall’età? A mio avviso è una falsa libertà. Ci sono ruoli non abdicabili, la responsabilità del sentire, capire, non solleva dalla responsabilità di decidere per altri. Ecco un effetto dell’interpretazione sessantottina dei rapporti familiari: non decidere per altri, ma lasciare che la decisione si formi per suo conto, come se le forze interne ed esterne avessero un senso positivo nel loro comporsi. Una sorta di provvidenza per laici in grado di togliere il peso del decidere. E di sbagliare. Lasciando da parte le tentazioni di veder realizzate nei figli le proprie aspirazioni frustrate, ascoltare significa accompagnare, anche contro volontà immediata. Una sorta di libertà in itinere che si fa assieme per strada dove, forse, la parte più importante è riconoscere non il merito, ma l’eventuale errore.

Certo oggi alcune scelte vengono posticipate, la scuola ad esempio, tiene lontani dal lavoro. Quand’ero ragazzo non era così, si decideva presto se studiare oppure lavorare. E non erano i ragazzi a decidere, casomai le necessità economiche, oppure la visione del futuro della famiglia.  Allo studio corrispondeva un altro tipo di lavoro. Per le differenze sociali che ciò produceva, non era giusto. Il primato di chi studiava non aveva un senso pratico, riduceva i diritti apparentemente uguali a seconda della classe di appartenenza, e segmentava la società tra culture differenti producendo la perdita di quelle considerate inferiori. Era il contrario della lezione illuministica dell’ Encyclopédie, del riconoscimento della sapienza dei mestieri, ma questo era stato il risultato della rivoluzione della merce, ovvero della rivoluzione della fabbrica. Adesso le scelte possibili nell’immaginario di un bambino si sono ridotte, e si ridurranno sempre più nel senso dell’imitazione familiare: difficile imitare positivamente un genitore precario. Ricondotte piuttosto, agli esempi esterni della società dell’immagine e dell’effimero. Per questo, oggi, forse più che allora, se si escludono i talenti innati, la scelta del lavoro non è cosa da giovani e nei padri e madri cade la necessità di capire cosa indicare, rafforzare, scegliere.

Credo che essere genitori aperti oggi, sia ascoltare, insegnare come produrre idee, come conservare ed accrescere la speranza di un mondo differente e più giusto, come lottare per quello che davvero si vuole, a partire dalla propria vita. E tutto questo costa fatica, sia per i genitori che per i figli, significa capire e poi decidere secondo la propria responsabilità. invece troppo spesso i ruoli tra genitori e figli si invertono e la volontà dei secondi prevale sulla ragione dei primi, per stanchezza ed incapacità, forse, oppure per malintesa libertà.

C’è stanchezza in giro, la fatica di vivere in un mondo precario fa cambiare i ruoli, ci si affida a ciò che accadrà sperando in un’eterna altra possibilità e questo non produce felicità.

lavorare a casa

Il lavoro è anche un luogo dove si vive, dove andare, con abitudini e regole. Tutto questo lo sa bene chi il lavoro lo perde, oppure ne esce. Allora la casa, l’assenza di orari prefissati, il non avere un fine definito al fare diventa straniamento, fallimento del sé.

Anche l’uscita da un lavoro, la rideterminazione di uno nuovo o ancor più la pensione generano sensazioni sono simili, eppure differenti, ad esempio nel caso della pensione in parte la questione economica legata al lavoro è risolta, e in comune con gli altri casi restano i nuovi impegni da costruire, il tempo da usare convenientemente. Comunque anche la pensione è un ritorno a casa.  Ben lo sanno le donne che si vedono ritornare quest’uomo, che non conoscono durante il giorno, della cui presenza non sono abituate e di cui non sanno ben che fare.

Credo che per l’uomo la casa abbia una funzione diversa che per la donna, naturalmente fatte le debite eccezioni, è un luogo da cui uscire più che un luogo in cui stare. Per non pochi uomini sembra che la casa sia un limite, un luogo essenzialmente di riposo notturno e di lavoro manutentivo, che con difficoltà viene vissuto come il proprio “luogo”, magari per ozi piacevoli. Una fantasia che apparteneva molto alla generazione del posto fisso, attribuiva all’età della pensione la funzione del riposo e della saggezza per aver molto vissuto e visto e lasciava a quel tempo il compito del fare ciò che si era a lungo rimandato, adesso la riforma Fornero toglie la fantasia spostandola troppo in avanti in una realtà fatta più di stanchezza che di nuova età del vivere. Comunque Fornero o meno, non è così, ciò che non si è fatto era in realtà il sogno di una vita altra, un universo possibile che ha vissuto senza di noi quando si sono fatte altre scelte. E la pensione non è una vita altra o almeno, non è quel rovesciamento di opportunità che si pensava perché la testa fatica a mutare e il tempo è la prosecuzione di quello precedente da ricomporre e a cui dare un nuovo senso.

 

la dimensione della voce

Piccolo di statura, con muscoli in crescita, un po’ sovrappeso, pancetta su canottiera e calzoncini neri, ha tatuaggi grandi, sguaiati, con un sole da tarocchi su una spalla e la luna e le stelle sull’altra. Molto bardato con ginocchiere, contabattiti, mette la cintura addominale e si guarda sullo specchio, mentre fa esercizi con pesi e macchine.

Chissà che pensa, di certo a sé, è concentrato sul suo corpo, sul suo rapporto con l’esterno. Forse vorrebbe fare outing, dire cos’è davvero, ma nessuno lo baderebbe, il suo problema e’ che e’ invisibile tra le ragazze in canottiera, le anoressiche muscolose, i giovani avvocati che parlano della loro movida ad alta voce mentre alzano pesi. E’ solitario in un mondo di solitudini, la palestra è questo, essenzialmente, un perfetto specchio delle contraddizioni e desideri esterni: la salute, l’apparire, l’incontinenza alimentare, la rincorsa dei miti, il benessere, la giovinezza perenne.

Lui s’accanisce, controlla i battiti, ha l’espressione corrugata di chi non è contento del risultato: ci sarà molto da lavorare. Ecco in palestra si dice lavorare per intendere la fatica, lavorare sul corpo, sulla volontà e la costanza, lavorare assume una connotazione strana, incongrua. Per me il lavoro è altro, cambia l’ambiente, la società, questo è un gioco, serio come tutti i giochi, formante e ricco di regole, ma resta un tempo che produce per chi lo pratica, non per altri. La dimensione sociale del lavoro è assente, se non si vuole considerare la bellezza e la forma fisica come una funzione sociale. Di certo lo era nella Grecia classica, magari anche all’epoca dell’impero a Roma, ma il praticare l’equilibrio del corpo e della mente era un processo in cui le cose andavano, almeno nelle intenzioni, assieme. Qui si può disgiungere ed infatti il silenzio dei molti lo testimonia, si parla al più dell’accadere della vita, ma poco anche di questo. Si fatica, non si parla.

Mi ricapita davanti il nostro protagonista, ha la sua scheda in mano, si avvia verso la conclusione del ciclo di esercizi. Gli sto occupando la macchina che gli serve, mi chiede: sta finendo? Rispondo, lo faccio parlare, gli chiedo dell’allenamento. Racconta di sé, con una voce piccola, fatta di toni alti. Penso che anche la voce dovrebbe irrobustire, farle acquisire muscoli e volume, altrimenti come farà ad imporsi. Perché è qui per questo, per non essere invisibile, per imporsi. Non sarà facile, non qui almeno, qui è più facile lo sfottò, la battuta, si dovrà esercitare all’esterno.

Cedo la macchina con un sorriso: nessuno bada a noi, di quelle parole non resterà traccia: questo è un mondo di singoli, al più ci sarà un saluto le prossime volte.