Apparentemente è qualcosa di non fatto, un non essere come tu mi vuoi, oppure semplicemente l’ assentire forzato che considero obbligato. Mi adatto a fatica, non sono molto adattabile. Non è una qualità, l’uomo dovrebbe adattarsi all’ambiente in cui vive o adattare l’ambiente a sé. Io al più convivo con esso.
Eppoi sono geloso del mio tempo, mi creo un ordine in testa che mette alcune cose prima e altre poi. Dirai: lo fanno tutti, ma il mio è solo mio. Credo che anche questo accada a tutti, però così gli ordini non sono sovrapponibili. E non è solo importanza è un equilibrio faticosamente raggiunto.
A volte emerge, nel bene, un sottile ricatto: la paura d’essere lasciati soli si trasforma in una priorità di attenzioni. Non credo di funzionare così, la mia attenzione c’è e si esprime secondo le modalità che conosco. È qui forse nasce quel mi spiace che si nutre di sensazioni, quella tra tutte di non corrispondere come mi verrebbe richiesto.
Assomiglio più a un rivolo, a una vena d’acqua che a un onda, il molteplice sono io non ciò che m’investe. E per capire mi chiuderei in un silenzio profondo, per rimettere il mio ordine dentro. Con un silenzio che è una pausa alle risposte. A tutte le risposte che si devono dare pro bono pacis.
Siccome non do ragione dei miei malumori in parole, poi mi spiace. E cerco d’aggiustare l’incrinatura, di spiegare l’inspiegabile, il parziale, l’imperfetto, cioè me. Fatica aggiuntiva e improba, giustificata e poco utile, perché la sensazione tornerà.
Ma vorrei rassicurarti: non sei tu la fonte del dispiacere.
Dov’ero il primo settembre 2004? E nei due giorni successivi che facevo? Ho risposte a entrambe le domande e una piccola vergogna: ascoltavo le notizie con il distacco che provoca, anche in chi è attento, il sovrapporsi della cronaca nera al vivere comune. Non per espungere ciò che potrebbe toccare il nostro idilliaco mondo, ma l’eccessiva presenza di disgrazie ci fa abituare alla violenza che non riguarda il mondo vicino, ci si assuefa e si delimita il mondo tra un dentro e un fuori, come se la violenza fosse il rumore di fondo del mondo, il cigolio del ruotare, ma riguardasse altri.
Le scuole iniziavano ad ottobre, quand’ero bambino. Nel mese precedente si era nostalgicamente liquidata la vacanza e iniziava qualcosa che aveva odore d’inchiostro nero e di carta. Da solo o con la mamma, andavo in quella cartoleria vicino a casa, chiedevo i libri, i quaderni, le matite, colorate e non, l’album da disegno. Mi piaceva tantissimo il profumo di quella botteguccia, la signorilità della proprietaria che concedeva la possibilità di comprare qualcosa che si sarebbe trasformato in altro. Era un profumo che restava dentro, come l’imparare. Ho imparato un profumo prima di compitare, di far di conto. Poi c’era la scuola: qualunque cosa si facesse era un nobile inizio, magari fatto di spintoni, cartelle gettate, graffi e urla, ma era un inizio intinto di sacralità sociale. Non sapevo nessuna di queste parole, però avevo capito tutto quello che c’era da capire.
In Russia la scuola inizia il primo settembre. In Ossezia, repubblica autonoma della federazione Russa, il primo giorno dell’anno scolastico, era una festa. I bambini più grandi, quelli che finivano il ciclo, accompagnavano i piccoli nelle classi e questi davano un fiore a quelli che avrebbero fatto un’altra scuola. Un accogliere e un lasciare che aveva un grande significato simbolico di trasmissione tra età. La festa a Beslan, nell’istituto n.1, era stata preparata con cura, come in ogni altra scuola. Bambini, mamme, insegnanti, nonne, papà, bidelli, più di mille persone. E i bambini avevano il profumo della scuola, del nuovo che iniziava. Mentre ciò accadeva, da un posto imprecisato, si stavano avvicinando su auto e camion, 32 persone, tra essi, due donne. Erano armati, avevano grandi quantità di esplosivo. I ceceni non amano gli ossezi, questioni antiche, ma non c’era un odio quale quello che i primi avevano per i russi. Chissà perché scelsero una scuola e osseta, non russa. I primi spari sembravano palloncini che scoppiano, nessuno capiva cosa accadeva, poi i primi morti, una ventina. Tra essi molti bambini. Il resto della cronaca, compreso l’eccidio finale, potete leggerlo sulle molte fonti in rete, che mettono in luce, anche le contraddizioni e i misteri di quella strage. Alla fine i bambini uccisi furono 186 e 148 gli adulti ostaggi, poi altri morti furono tra i terroristi, le forze speciali, i soccorritori.
Furono tre giorni e due notti: noi dove eravamo, cosa facevamo finché tutto accadeva? Non sarebbe cambiato nulla nell’esito, ma se avessimo davvero partecipato saremmo cambiati noi. Ed ora cosa resta di tutto quell’orrore?
Oggi pensavo alla mia scuola, anche allora c’erano feste d’inizio, oggi forse non ci sono più. E allora ho desiderato che in tutto il mondo si ricordassero i bambini di Beslan, che se ne parlasse nelle classi, senza paura, senza sfumare l’orrore. Che qualcuno si assumesse il compito di mostrare che tutto quello che accade è vicino e che tutto ci riguarda. E che non dobbiamo cancellarlo per non essere soverchiati dal male ma combatterlo, capendone le ragioni. Eradicarlo insieme ai pali di confine per l’umanità. Non c’è un dentro il recinto e un fuori di esso. Bisognerebbe che questa persona facesse capire che non ci dev’essere neppure il recinto e che esso ci limita, non ci difende. E che il cuore dell’uomo non muta se non viene educato a capire.
Questo sarebbe un maestro che accompagna all’apprendere il mondo. E questa sarebbe la festa della scuola e il suo significato.
Non era coinciso nulla. Maturità, attese, posizione, amore, situazioni. Nulla che avesse un posto predefinito, che potesse far dire: c’è un prima e quindi un dopo. Così nel flusso tutto, semplicemente, continuava mutando. Anche i fatti avevano una loro singolarità, ma erano fatti. E non era un giudizio di valore, certo che l’importanza veniva sentita, ma erano accadimenti, con una loro meccanica che includeva il mutamente. E non poteva essere diversamente proprio perché erano importanti ma umani. Forse che prima d’essi, non c’erano stati altrettanti, e magari più profondi, mutamenti? E allora se non si quietava il confluire dell’accadere, nello scorrere tranquillo (pareva che l’idea di flusso fosse quanto di più vicino al tempo che viene vissuto, indossato a pelle, e acconciato a sé), se questo non s’allargava e rallentava, allora non si capiva dove fosse un prima se non per cronologia, oppure per quella localizzazione che era più una mappa dell’anima che di luoghi.
Si poteva dire: allora, in quel giorno, ero qui, sentivo questo. E la geografia di sentimenti avrebbe avuto un suo perché assoluto, com’ essa fosse il vero portolano che descriveva la rotta d’ una vita. Però di molti anni non restava traccia, come se essi si fossero consunti in un grigiore di candele senza presenza. Neppure delle infinite sequele di piccoli piaceri, di incontri, di discussioni accese, di mondi ardui, di sentenze scavate a fatica, feroci, apparentemente definitive, restava traccia, come se quel lasso di tempo lungo, e in sé ben vissuto, fosse infine privo d’un colore definito, e per questo utile a sé solo. Guardando il passato, esso era una sconfinata serie di piccoli avanzamenti, un pullulare di fatti, di cose, di eccezioni uniche, poste su un turbolento orizzonte avanzante e non una sequenza lineare per cui ciò che era stato nuovo, ora fosse in uno scaffale. Semplicemente era stato prima. Non era definitivo in sé, era accaduto e non aveva chiuso nulla davvero. Quindi la vita poteva essere una infinita serie di aperture o di chiusure e stava in noi scegliere l’una o l’altra condizione e quindi il definitivo prima e l’assoluto dopo.
E la giovinezza finiva davvero assieme alla sua follia? E se la follia non terminava sarebbe sfociata nella pateticità? Chiedersi quando finiva la giovinezza era dare una data alla follia del corpo, all’eccesso portato sorridente oltre il suo limite, ma il pensiero che lo guidava, che attingeva goloso al nuovo e lo gettava in quel flusso, ed era ricco d’ansia costante d’incompiuto, di lasciato in disparte, e di nuovo che sorgeva, poteva esso generare, combinando tutto, una condizione d’essere non connotata. Libera da collocazione e ruolo, rispondente a sé e alla propria percezione del mondo. Pensava di sì, perché non poteva fare altro se la vita apriva. E solo il patetico, e il suo farsi ridicolo, era da evitare con accuratezza, per non essere caricatura di se stessi. Insomma corrispondere a ciò che era ed evitare, l’insania suprema del ridicolo. Assomigliarsi per vivere bene il tempo proprio, non un’età.
Leggendo tra le parole, gli spazi, scrivono dall’alto verso il basso, scie che colano tra significati, la traccia dei silenzi.
Mi piace pensare che esista una cultura del silenzio che si trasmette e spostando una lettera, una virgola, un punto anche il silenzio si sposti e racconti d’altro. A chi? All’anima che ascolta, forse, e ha bisogno di sentire che altri odono lo stesso silenzio. C’è uno scrivere perfetto privo di significato per l’emozione. Genera un silenzio sgomento, da assenza. Se ci pensiamo, molto attorno, e anche in noi, mira a questa perfezione. Una sorta di libertà dalla tirannia del sentire. Dove riluce la razionalità, il coltello compie il suo dovere, seziona e guarda, finché alla fine si accorge che ciò che osserva gli sta morendo tra le mani.
Forse per questo ho bisogno degli spazi, di anfratti in cui riposare ciò che vuole parlare, convincerlo che sentire è meglio e suggerirgli che il silenzio è la forma somma del sentire. Le parole hanno simmetrie strane, toccano appena quello che sentiamo e come appunti evocano. Il sogno di chi scrive è emozionare, trasferire un contenuto attraverso un mezzo incerto e approssimato, ma terribilmente evocatore. Quello che io sento e trasmetto è diverso da ciò che prova chi mi legge, questa qualità è riservata ai grandi, ma se supero la paura del sentirmi solo in una stanza vuota, la vera paura di tutti gli umani, posso tentare di condividere un silenzio. Ascoltare prima di dire.
Qualche giorno fa mi veniva raccontata una storia, dolorosa e vera. Mi sembrava di capire, tutti abbiamo cose che possiamo sovrapporre e che abbiamo sentito come uniche salvo poi sentirsele raccontare da altri. E quella storia, come tante, era zeppa di parole, prima buone e poi irate, sentimenti scarnificati e portati allo scoperto, mostrati come ferite. Le parole riempivano la paura che tutto si frantumasse davvero e a me sembrava, invece, servisse silenzio. Poi mi è tornata a mente una canzone, che descrive qualcosa a cui ci si aggrappa quando finisce un sentimento e per resistere si ribalta sull’altro il ricordo come un’arma lenta e sicura. E si dice, si racconta, si minaccia perché ci si sente vilipesi e c’è il bisogno di attribuire una tale definitività a ciò che si è vissuto che possa far impallidire tutto quello che verrà dopo. Si sa che la passione riprenderà, che l’esperienza nuova sembrerà sommergere tutto ciò che c’è stato prima, ma come una maledizione si vorrebbe tornare a mente quando c’è ricordo e silenzio. E il silenzio che non si è stati capaci di usare come lenimento reciproco, di condividere come dolore, poi dovrebbe diventare l’estrema arma di chi si è sentito lasciato. Si pensa che nel silenzio ci sia la nostalgia e il rimpianto.
Io credo che ci siano questi momenti nella vita, ma che siano davvero propri e che ogni silenzio, se non c’è qualcuno con cui condividerlo e scambiarlo, diventi un tratto personale, una ricostruzione infedele del proprio passato che sola ci appartiene. Ma nel vivere quotidiano il silenzio ha altre funzioni, toglie il rumore che sta attorno come primo effetto e ci riporta a noi. Sembra banale, ma per non sentirci soli abbiamo bisogno di rumore, così si confonde il silenzio con la solitudine. Il silenzio invece supera la parola, riporta nel profondo, ci mette davanti non al passato, o almeno non così di frequente, ma a ciò che siamo e potremmo essere, quindi contiene il futuro. Per questo nel condividere un silenzio di parole si può scambiare molto d’altro e le parole sembrano disturbare con la loro imprecisione. Questo dicevo, non creduto a chi mi raccontava la storia, che c’era bisogno di condividere una fine con il silenzio. Ma non ero io il ferito, potevo discettare sul silenzio, mentre le parole scagliate erano ben più lenitive, forse anche aiutavano ad elaborare.
Ciascuno ha una sua via e una sua paura per il silenzio, e dal poco che capisco, mi pare che esso contenga molto di me e dell’altro con cui condivido. Per questo cerco gli spazi nel discorso e vorrei capire ciò che davvero mi si vorrebbe dire, cosa si agita e cosa spinge verso di me.
Ho sempre creduto nella forza salvifica e lenitiva della parola. Prima della musica. Prima del gesto. La parola che porta all’altro il senso profondo di sé, o la leggerezza, o il riso. Ma la parola è anche dileggio, menzogna, travisamento del vero, offesa, distrazione, inutilità. Può veicolare tutto quello che sta tra l’amore e l’odio, due sentimenti che s’assomigliano molto nell’intensità, e qui è ancora significato anche se negativa, ma può scivolare da essi e farsi distratta, inutile.
La parola si rivolge ad altri e a sé. M’interessa la seconda specie di ascolto, ovvero il parlare tra sé. In questo parlare è contemplata anche l’assenza di parola, un modo alto di parlare che utilizza l’indicibile. E a questo si torna quando la confusione è somma, la stanchezza per il troppo rumore/decidere che impedisce di vivere ciò che si sente. La confusione è una caratteristica del nostro tempo così ricco di rumori/stimoli. Ha una connotazione appena negativa, come fosse un problema veniale e invece la confusione non permette di capire/rci, fa compiere scelte senza profondità, porta a confondere i valori.
Con fondere, con fusione, mettere assieme in una unione forte, fondere assieme. C’è bisogno di discernere, di pulire le parole perché ritrovino il significato che esse portano. Non è una questione estetica, si tratta di capirsi prima di capire. E questo ha applicazioni pratiche continue, basti pensare alla politica dove la parola perde significato, ha bisogno di precisazioni continue, di ritrattazioni, di nuove parole e soprattutto non esprime la speranza, ma la distruzione. Non il progetto, ma l’interdizione di esso. Non da tutti è così, naturalmente, ma troppo spesso si ascolta il vuoto anziché il silenzio. Anche nella vita quotidiana, nel lavoro, la parola ha significati di rumore. E si ripete e si svuota come se la comunicazione fosse fatta di ordini e di modi di dire, privi di sentimento sia i primi che i secondi. D’altronde se la parola è importante per noi, se ci ascoltiamo, se riusciamo a ridere di noi stessi e contemporaneamente a prenderci sul serio, quando parleremo con gli altri ci sembrerà di dare, più che di dire. Per questo un’offesa diretta alla persona è non ascoltarla, lasciare che la parola le si spenga sulle labbra perché non c’è attenzione. Meglio imparare il silenzio allora, esercitarsi su di sé, sentire che la parola come ci salva, ci perde, ci condanna alla solitudine. Che non è il silenzio dell’ascolto, ma il silenzio della disattenzione.
La comune difficoltà che accomuna credenti e non credenti in questo nodo di festività che si concentrano intorno al natale, non di rado sfocia nella tristezza e nel desiderio che il periodo passi al più presto. Il peso delle ritualità, anche quelle che nascono per rifiuto o differenza rispetto agli altri, accompagna un senso di privazione di qualcosa non ben identificato. E questo riceve molte risposte, ma il come uscirne, se non attraverso l’attesa che si esaurisca il periodo, molto spesso si arresta alle ragioni razionali.
Questa convergenza di disagio, che quindi non dipende solo dal fatto di credere o meno, dovrebbe far riflettere su quanto, non l’oggetto e la sua immagine, ma piuttosto sull’essenza, ovvero ciò che si vuol rappresentare: la spiritualità, e quanto questa si sia allontanata dall’uomo e questi non sappia bene come trattarla. Da un lato le religioni hanno espropriato la spiritualità dall’uomo e anziché liberarla, l’hanno confinata nelle regole, nei dogmi, nella mortificazione del sé umano. Dall’altro un’operazione analoga è stata creata dal rifiuto del religioso (e delle religioni) di chi non crede, ma non riesce comunque a rispondere alle domande che gli sorgono nel trattare la propria dimensione spirituale se non attraverso la negazione dell’esistenza della struttura religiosa. Questo ragionare arriva all’ateismo per impossibilità di credere e per rifiuto, a volte resta nell’agnosticismo, e tenta di avvicinare lo spirituale al pensiero, riducendolo, per quanto può, nel razionale o ancor più nello scientismo. Comunque sia il disagio e la reattività resta.
Come entri lo spirituale nelle nostre vite, è parte dell’esperienza di ciascuno, ma anche, e soprattutto, dell’accettazione di questa parte essenziale dell’uomo, che non è solo superstizione o bisogno di sicurezza, però esiste e vale almeno quanto il razionale o la parte che assegniamo ai sentimenti nel guidare le nostre vite. L’uomo, noi, siamo tutto questo insieme, nel mescolarsi di dimensioni diverse che danno una direzione, ed il prediligere l’una o l’altra dimensione orienterà le scelte che facciamo nelle relazioni, nel vivere concreto, nel rapportarci con noi stessi.
Sull’eclisse del sacro, sulla superficialità di questi giorni, chissà quanti articoli, blog, riviste manifesteranno il disagio esistente tra l’immagine luccicante delle festività e il sentire delle persone. Ed io, che nel mio essere non credente mi interrogo, cerco di trovare una via che non getti il positivo di un malessere, e oscillo tra il rifiuto del troppo che ci attornia e che sconfigge l’uomo e la ricerca di significati nei momenti che certamente non ripetono l’infanzia o il momento del meraviglioso che l’accompagna, ma piuttosto cercano l’amore che esiste attorno. Un ripasso di ciò che conta davvero, oltre le modalità, oltre il il vincolo delle giornate, ascoltando gli affetti e le domande che arrivano. Bisogni forse troppo simili per non dire che questo senso del religioso sconfina troppo spesso nel bisogno d’amore e che forse andrebbe investigato in questo senso.
p.s. come si legge, non ho soluzioni, e la riflessione continuerà, ben sapendo che non si esaurirà con il periodo: questo è uno dei temi del ben vivere, almeno per me.
Tutti son buoni a parlare della poesia della nebbia oppure a parlar male di politica.
Tutti son buoni pure a capire gli amori che finiscono, se non sono i loro.
Tutti son buoni a indicare una soluzione spiacevole, se non li riguarda.
Vi lascio procedere da soli sulla capacità di starne fuori e di dare una mano alla comprensione, ma qualche volta il guardare e il vivere si saldano, diventano partecipazione, perché accade di rado?
Perché rinunciare ad essere poeti, se serve, incazzati e fattivi, se le cose non van bene (e pure quando van bene), educati ai sentimenti (questo è difficile davvero) quel tanto che dia senso alla sofferenza propria, se capita e la renda apprendimento per capire, per uscirne e non per annegare nel dolore senza sbocchi.
Non credo sia solo nostra responsabilità se ciò non accade. Possibile che il mondo proceda a sussulti e che solo talvolta, tutti escono convinti nella piazza, la speranza comune viene riaccesa, si capisce di essere in tanti simili e sopratutto, la sensazione di solitudine, scompare? Possibile che la normalità sia questa lunga sonnolenza sofferente, dove la sensazione d’essere soli predomina e la dimensione personale diviene l’angusta prigione del futuro?
Certo anche quando sembra che tutto debba cambiare, le storie personali restano, i destini si svolgono con le solite gioie e sofferenze, però è diverso. L’epicità di ciò che sta attorno invade il personale, vi faccio un esempio, ricordate la storia di Lara e del dottor Zivago? fuori dalla rivoluzione sarebbe stata non meno sofferta, ma più banale, meno importante per le stesse vite, in quel contesto, invece, spinte innanzi nella storia collettiva oltreché personale.
Quindi vivere in un contesto grande, usare la comprensione di quanto ci sta attorno e partecipare porta a vivere diversamente le vite. Non importa come, ma il sentirsi parte di qualcosa di più grande ci rende poeti per le nostre storie, induce il bello ad entrare. E il bello, con la sua luce, aiuta a trovare la dimensione di ciò che accade. Di ciò che ci accade.
Un detto cinese, nato in una società immota, augurava ai nemici di vivere in tempi interessanti, di subirne la durezza del cambiamento. Oggi, rovesciando l’augurio, ci si può augurare di vivere, partecipando, ai tempi interessanti, di esserne parte attiva, di mutare con essi in positivo.
Con la distanza le ferite non fanno più male, ma non si dimentica, l’indifferenza non è possibile. Se qualcosa colpisce chi ha ferito, si generano sentimenti ambivalenti, una triste soddisfazione ed una comprensione, altrettanto triste. E’ la misura dell’imperfezione, ci hanno raccontato storie sulla perfezione, credo che solo accettando ciò si è, sia possibile cambiare. Un’altra storia a doppia faccia che è comodo credere, è che si possa cambiare sempre oppure che ormai non si cambia più. Già l’esigenza di porre il problema, in realtà pone una questione che riguarda non la necessità di cambiare, ma come affrontiamo la cosa, ovvero se si vogliono mettere le mani in ciò che ci fa male, che non ci piace, oppure se ci si rassegni a tenerci, non la parte migliore di noi, ma quella meno faticosa. Credo che questa sia la scelta e che l’una o l’altra opzione non abbia un valore morale, che visto che il dolore è una faccenda personale alla fine ognuno avrà vissuto come voleva vivere.
Nei rapporti tra persone ci si può scambiare, e fare, molto bene, ma anche ferire in profondità. Non di rado entrambe le cose. Se il rapporto è stretto, forzato o meno, una strada si trova, magari molto costretta e fatta di necessità. Se il rapporto è una scelta, allora le conseguenze delle ferite hanno un aspetto che dovrebbe essere valutato guardando dentro e fuori: ricevere una ferita è un bagno di verità, aiuta a vedere l’altro nella sua realtà, quella che abbiamo accuratamente evitato di vedere perché ci faceva comodo fosse come noi lo volevamo. Si pensa fino a prova contraria: sei come io ti voglio. Quindi una ferita aiuta a vedere, ma aiuta anche a distaccarsi, sia fisicamente che mentalmente, perciò ha una sua positività di cui faremmo volentieri a meno. Infatti l’essere feriti è comunque un tradimento di fiducia in sé, anzitutto, e questo provoca un secondo effetto, ovvero ci mette davanti alla scelta: andiamo avanti, teniamo il rapporto anche se non sarà più come prima perché il velo è caduto, oppure rompiamo il rapporto e senza vivere in ciò che non sarà, si procede, ritornando a noi? Credo che in entrambi i casi ci sia un cambiamento, il che significa che si può cambiare sempre, e che accade anche attraverso la gioia e non solo la tristezza, ma quanto profondo sia il cambiamento dipende da noi. L’errore, in chi lo riconosce, è il più potente motore dell’apprendimento.
Non c’è nessuna idea di perfezione in quanto penso, gli errori insegnano molto, ma non a non farne e neppure l’accettazione di sé, se non vogliamo diventi una mortificazione, è un fatto statico, è tutto dinamico e riportato a noi che esaminiamo, comprendiamo, viviamo anche le emozioni negative, magari cercando di non permettere che queste aggiungano male al vivere. Quello che non è utile, penso, è non capire che il dolore può cambiarci, renderci migliori a noi e che per questo è un fatto personale. Tornare sui propri passi, rifugiarsi nei porti tranquilli, pensando che sia sempre tutto come prima, è chiudere gli occhi, raccontarci una storia che testimonia tutta la nostra debolezza e la non volontà di utilizzare il dolore della ferita per vederci davvero come siamo. E cambiare.
p.s. voglio spiegare la scelta del filmato: Farinelli è un castrato, credo che poche violenze per il piacere altrui abbiano avuto, per secoli, meno riprovazione morale. Quindi ferita doppia, non sanabile e in più giustificata. Persone costrette a soffrire, accettare la sorte e cambiare. Ma lo stesso si potrebbe dire per molto d’altro che conculca l’espressione del sé, la costringe e mortifica. Fino al quotidiano più piccolo, che si vive, nelle nostre piccoli, grandi ferite.
Il web ha certamente un’azione rafforzativa per quella che, in occidente, è stata la generazione più fortunata della storia dell’umanità: niente guerre, una longevità crescente, benessere diffuso, mobilità sociale, scolarità disponibile e gratuita, ecc. ecc. Se una caratteristica di questa generazione è quella di non farsi da parte, in questo non poco favorita non solo dalla predisposizione naturale, ma anche dai provvedimenti dei governi, si può rilevare che anche questa è un’anomalia storica sia per le dimensioni, che per i modi, infatti precedentemente si facevano invecchiare precocemente i giovani (l’età della ragione e del conformismo) per sostituire la generazione precedente, piuttosto che mantenere giovani i vecchi.
In questo il web, con la sua carica di liberazione e di alterità, è specchio e rafforzativo di una tendenza. Aiutati da questa rivalutazione dello scrivere come mezzo comunicativo, non pochi riscoprono vocazioni poetiche che sembravano finite con l’esame di maturità, altri liberano lo spirito critico proprio dell’età della discussione, per molti, emergono interessi e passioni insospettate, anche una leggerezza di sentimenti diventa possibile, amori che in altre età si sarebbero scartati, prendono consistenza e si svolgono mescolando reale ed immaginario. Insomma abbiamo i sintomi caratteristici dell’età nascendi, dove tutto è possibile, e tutto si sente, si scopre, si vive.
Questa virtuale età liceale ritrovata, soffre, o ha il vantaggio, di convivere con l’età cronologica: grandi speranze, grandi sensibilità, grandi dolori rimescolati con una vita svolta. Nel riportare consistenza nelle vite, conta il discernimento, lo spirito critico, il fatto che la realtà irrompa costantemente, che l’intorno, la crisi dell’occidente tiri la camicia che spavaldamente si era lasciata fuori dei calzoni, però questa sensibilità ritrovata è un elemento del vivere, non l’unico cosicché, seppur prepotente, media, e il bagno di realtà mantiene aperta una porta di leggerezza, poesia, sentimento, speranza e malinconia. Non è poco per ora, poi le tecnologie e il cambio generazionale, comunque avverranno e la nuova generazione userà l’immateriale e il materiale, non come prosecuzione di una stagione della vita che non conosceva queste possibilità, ma piuttosto integrerà il tutto. Cosa ne verrà fuori è difficile da capire, se restasse più leggerezza, se la realtà intesa come duro confronto quotidiano che spesso esita in sopraffazione, si mitigasse, forse alla generazione più fortunata ed immemore, ne seguirebbe una consapevole della propria fortuna e perciò disponibile ad essere migliore. Potrebbe essere, speriamo.
Ogni tanto mi sogno la maturità, non ho paura dell’esame, non troppa almeno, mi pare solo una fatica immane che sembra non finire.