aria d’autunno

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La città si riempie di giovani attese:

riaprono le scuole

e son finiti i giorni delle strade vuote

nell’ indifferente calura.

C’è un tempo in cui si smarriscono le fragili virtù:

che s’allontanano da noi,

lasciando il suono delle foglie

nell’aria d’autunno.

Così tra folate di traffico improvvise,

il ricordo diviene passatempo,

e il futuro, un’attesa, senz’ ansia di risposte,

allora penso, incauto e allegro,

a mettere il tempo al posto suo giusto.

l’assoluto è adesso

Si andava al mare. Su questa sponda dell’Adriatico. Per anni si erano frequentate le rocce e il mare cristallino dell’Istria e Croazia, poi era scoppiata una guerra e si era tornati alle solite spiagge. Sembrava una cosa dappoco, in fondo eravamo tutti civilizzati dall’ultimo conflitto, no? Eravamo europei, anche più di adesso, e in Europa non ci sarebbero state più guerre. Era un patto chiaro e semplice, tra Stati moderni e civili.

Così quanto accadeva si vedeva da distante, dal mare, che poi era lo stesso, a Barcola, a Costa dei Barbari, come a Lignano o Jesolo, si continuava a fare il bagno, a prendere il sole. Nessuno pensava che arrivasse una barca dall’altra parte, che ci fossero profughi, eppure con un buon motoscafo erano distanti un paio d’ore di mare. Però arrivavano le notizie degli scontri, gli eccidi, le bombe. Sarajevo e il suo ponte che saltava, Ragusa bombardata, Spalato, Zagabria, ma ancor più Tuzla, Skopje, Pristina, fino all’orrore di Srebrenica. Come un corpo che si risvegliasse impazzito, quella che per noi era ancora la Jugoslavia, si scrollava pezzi di carne viva e pezzi si staccavano, ritrovavano ragioni e assetti che risalivano a conflitti antichi di luoghi, religioni, di guerre tra turchi e cristiani.

Arrivavano notizie e durante l’anno s’aiutavano i profughi che s’ ammassavano in Istria e in Dalmazia, ma sembrava fosse lì lì per finire senza orrore. In fondo si relativizza anche se nei telegiornali, nelle fotografie degli inviati di guerra, l’orrore cresceva. Però la Bosnia, il Kossovo, sembravano così distanti… Come l’Africa adesso. Alcuni dicevano: sono fatti così, sono slavi. Come ci fosse un’abitudine all’atroce che riguarda alcuni e che periodicamente risale dal profondo e noi ne fossimo immuni. E così si andava al mare e non ci si pensava più di tanto. Era vicino, ma per le nostre teste tarate sui percorsi delle auto che ci portavano a quelle spiagge, sembrava tutto distante.

Anche oggi andiamo al mare e non capiamo cosa avviene sull’altra sponda, non diamo importanza, sembra non ci riguardi. Anche perché in Libia mica ci andavamo al mare, magari in Marocco o in Tunisia sì, ma quando mai in Libia. Basta restare da questa parte e poi passerà.

Noi andavamo al mare vent’anni fa o giù di lì, e si pensava finisse presto. Eravamo distanti dalla realtà più che dai luoghi, perché quella realtà non ci piaceva, come adesso, non era quella che avremmo voluto, non è quella che vorremmo. E allora bastava metterla distante e non pensarci più.

In ricordo di un uomo grande: Alexander Langer. Perché per essere uomini bisogna vedere e capire e lui non si rifiutò mai di farlo.

volo di notte

Resistere al sonno della ragione, alla tentazione di far diventare passato il presente.

Devo.

Togliere consistenza alla lettura dei fatti, usare l’ironia che è senso della misura, relativizzare, svuotare ciò che si vede dal suo carico predittivo.

Devo.

Limitare l’acuzia dello scorgere e deldell’intuire, 0trattare cio che emoziona come un indistinto ondeggisre di realta che si elidono, che non hanno attracchi, che si rifugiano nel luogo comune per dare un significato.

Devo.

Questo è il dramma del pensare a sinistra, della mente e dell’azione che vuole mutare e non s’accontenta, del vedere secondo i canoni di un’ umanesimo che non è piu tale nel pensiero politico, perché la sinistra ė l’unica ideologia negletta, gettata nel fango dai suoi stessi epigoni che non osano, non sono, non vogliono rivendicare una storia che nel sangue non ė meno fulgida delle altre ideologie rimaste. Eh si perché le altre ideologie ci sono tutte, vive e vegete: il liberismo, il capitalismo, la destra nelle sue infinite varianti tra il nazi fascismo e la reazionaria quiete del conservatorismo. Nei giorni scorsi si è arrivati a chiamare un nuovo partito: conservatori e riformisti. Meglio non vedere, non sentire, non capire se ciò che si dovrebbe opporre a tutto questo con la nitidezza delle analisi, con la convinzioni dei principi, con quel piccolo inesauribile breviario di umanità e lotta politica che si riassume in libertà, eguaglianza e solidarietà, sono poi i socialisti europei che si vergognano d’ogni pensiero che non sia conforme ad un liberismo che neppure vede l’uomo.

Così il presente lo sorvolo e aspetto passi. E penso che solo l’ umanesimo ci possa salvare, diventare luce, pensiero positivo del fare, insomma dare appartenenza al presente e relegare quella pletora di segni di piccolezza a quello che sono: infingardaggine, furbizia, pusillanimita.

Ritrovare, finalmente un senso alla fine della notte, al futuro.

Devo.

tempo 2.

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Frammento sulla fine della giovinezza … 

Non era coinciso nulla. Maturità, attese, posizione, amore, situazioni. Nulla che avesse un posto predefinito, che potesse far dire: c’è un prima e quindi un dopo. Così nel flusso tutto, semplicemente, continuava mutando. Anche i fatti avevano una loro singolarità, ma erano fatti. E non era un giudizio di valore, certo che l’importanza veniva sentita, ma erano accadimenti, con una loro meccanica che includeva il mutamente. E non poteva essere diversamente proprio perché erano importanti ma umani. Forse che prima d’essi, non c’erano stati altrettanti, e magari più profondi, mutamenti? E allora se non si quietava il confluire dell’accadere, nello scorrere tranquillo (pareva che l’idea di flusso fosse quanto di più vicino al tempo che viene vissuto, indossato a pelle, e acconciato a sé), se questo non s’allargava e rallentava, allora non si capiva dove fosse un prima se non per cronologia, oppure per quella localizzazione che era più una mappa dell’anima che di luoghi.

Si poteva dire: allora, in quel giorno, ero qui, sentivo questo. E la geografia di sentimenti avrebbe avuto un suo perché assoluto, com’ essa fosse il vero portolano che descriveva la rotta d’ una vita. Però di molti anni non restava traccia, come se essi si fossero consunti in un grigiore di candele senza presenza. Neppure delle infinite sequele di piccoli piaceri, di incontri, di discussioni accese, di mondi ardui, di sentenze scavate a fatica, feroci, apparentemente definitive, restava traccia, come se quel lasso di tempo lungo, e in sé ben vissuto, fosse infine privo d’un colore definito, e per questo utile a sé solo. Guardando il passato, esso era una sconfinata serie di piccoli avanzamenti, un pullulare di fatti, di cose, di eccezioni uniche, poste su un turbolento orizzonte avanzante e non una sequenza lineare per cui ciò che era stato nuovo, ora fosse in uno scaffale. Semplicemente era stato prima. Non era definitivo in sé, era accaduto e non aveva chiuso nulla davvero. Quindi la vita poteva essere una infinita serie di aperture o di chiusure e stava in noi scegliere l’una o l’altra condizione e quindi il definitivo prima e l’assoluto dopo.

E la giovinezza finiva davvero assieme alla sua follia? E se la follia non terminava sarebbe sfociata nella pateticità? Chiedersi quando finiva la giovinezza era dare una data alla follia del corpo, all’eccesso portato sorridente oltre il suo limite, ma il pensiero che lo guidava, che attingeva goloso al nuovo e lo gettava in quel flusso, ed era ricco d’ansia costante d’incompiuto, di lasciato in disparte, e di nuovo che sorgeva, poteva esso generare, combinando tutto, una condizione d’essere non connotata. Libera da collocazione e ruolo, rispondente a sé e alla propria percezione del mondo. Pensava di sì, perché non poteva fare altro se la vita apriva. E solo il patetico, e il suo farsi ridicolo, era da evitare con accuratezza, per non essere caricatura di se stessi. Insomma corrispondere a ciò che era ed evitare, l’insania suprema del ridicolo. Assomigliarsi per vivere bene il tempo proprio, non un’età.

attenta al rilucere dei tuoi occhi

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dono e rubo:

attenta al rilucere dei tuoi occhi,

l’ho bevuto per bisogno,

chi mi condannerà?

ma altro ci potrebbe essere

che ti potrei donare.

Ricordi qualcosa che non vuoi perdere ?

Cerca tra i tuoi giochi, quello più caro,

era te,

dove l’avevi nascosto?

Quello era prezioso e mai l’avresti prestato,

avevi ragione, era te,

chissà dove l’avrai messo…

Se vuoi trovarlo ribalta i tuoi pensieri,

cerca nell’attrazione,

in fondo è un po’ lo stesso, 

scoprirai ciò che non trovi.

E non parlarmi di malinconie,

di pomeriggi appiccicosi,

cerca e trova, 

nessuno m’ha insegnato ad assolvermi davvero.

E a te?

piccole compulsività

Ci sono reazioni esagerate, lo spazzare il tavolo e a volte rovesciarlo, che sembra pure meglio in quel momento. Magari per sfogarsi e non pensarci troppo o per dimostrare qualcosa a qualcuno. Così c’è chi ti chiede l’amicizia in questi luoghi e poi ti cancella senza neppure dirlo. Come se il mondo virtuale non avesse una sua creanza e sincerità se siamo tra persone e non solo tra alias. Invece sembra che per qualcuno o molti, tutto appartenga al fare e disfare, quindi semplicemente si preme un tasto e non ci sei più. Ma anche se è così, basta pensare che c’è pure di peggio, quindi bisogna farsene una ragione. E posso assicurare che, contrariamente a quanto si pensi, non è difficile, non si sta male che poco e la ragione arriva subito. Accettare ciò che non si capisce non e’ poi così difficile se si scrollano le spalle da inutili pesi.

Già faccio fatica a comprendere chi ha la costante tentazione di cancellare tutto, come ci fosse qualcosa che davvero si cancella, che essere messo dentro o fuori d’una porta, lo riservo, per il dolermene, a chi conta davvero, al più la considero come l’ennesima conferma che se questo mezzo e’ vacuo, solo noi possiamo dargli consistenza, restando ciò che siamo davvero.

Restando, per l’appunto.

contro l’utile

Mi piacciono quelli che dilapidano i talenti ricevuti, gli intelligenti inutili, i flaneur, i perditempo di talento.

Mi piace chi esercita ciò che ha senza vederne il valore, solo per il gusto d’essere.

Mi piace l’intelligenza che si applica nelle piccole cose, che acquisisce abilità, che fa compagnia a sé ed ha bisogno degli altri.

Mi piacciono quelli che non si vantano mai, e sono i primi a meravigliarsi se un loro ragionamento fila davvero, che sono contenti di una scoperta, che hanno marinato la scuola e continuano a marinarla nella vita. Mi piacciono quelli che durante le lezioni ascoltavano con un orecchio, quelli che erano curiosi e facevano altro che non serviva per l’esame, quelli che se hanno un dubbio controllano e gli pare di star meglio.

Mi piacciono quelli che coltivano il dubbio come fosse valeriana, che lo tagliano e lo mangiano e poi passano ad altro con il sorriso sulle labbra.

Mi piacciono quelli che stanno zitti e scuotono la testa, quando gli dicono: ho ragione io, e quelli che controbattono, e si appassionano solo per il gusto di far emergere la ragione, non di averla.

Mi piacciono quelli che sanno di avere tempo, che sono generosi e non tengono per sé ciò che hanno in testa. 

Mi piace chi ha una passione inutile per chi si chiede quanto vale, mi piace il luccicare degli occhi quando viene raccontata, mi piace il sorriso di chi la tiene per sé, perché i segreti si condividono in silenzio.

Mi piace quello che risolve un problema e non se vanta, quello che cerca corrispondenze tra ciò che sente e ciò che ha attorno, mi piace chi si mette al servizio e poi, quando ha finito, se va.

Mi piace chi confina in un lavoro ciò che deve fare, chi pretende la giusta retribuzione e il giusto ruolo, ma pensa che avere un ruolo sia una fatica ed un servizio per chi dovrà guidare. Mi piace chi non capirà mai bene la forza del potere, ma ne avrà sempre un po’ paura, perché si sente inadeguato.

Mi piace tutto quello che non è costrizione, che segue un indole, che fa crescere un talento, ciò che rallegra e si ripete mai eguale. 

In fondo prima dei vestiti e dell’apparenza c’era l’uomo, no?

la prigionia del necessario

Il ragionare, la razionalizzazione serve a dar conto della propria prigionia nel necessario. L’obbligo che, per essere trangugiabile, dev’essere ricondotto alla volontà. Farsene una ragione, in fondo è questo il procedere comune, e per quanto raffinato è il ragionamento, nel dialogo tra sé, alla fine ci si convince, perché questo era il fine. Non potrebbe essere altrimenti, perché  si dovrebbe rinunciare alla vita di relazione, agli affetti, alla convenienza. Nell’epoca della libertà virtuale, la convenienza ha un cattivo nome, sembra una parte poco generosa delle persone, la si apparenta al calcolo. La generosità in questo mondo, è apparente per gran parte dei casi, dei momenti, delle persone e quasi sempre soddisfa un bisogno. E’ una virtù domestica, la generosità, da associare all’amore, all’affetto, al bene e quando esce dalle mura domestiche, assume una dimensione sociale, supera l’individuo e la sua sfera, diviene eroica. Abbiamo bisogno d’eroi oppure queste modalità d’essere, queste sovrastrutture, poco ci riguardano, quando la vita di tutti i giorni è la gestione della libertà che ci è stata data ed è difficile da esercitare? E’ l’era delle libertà virtuali, che ci consegna al malessere del compromesso tra la possibilità e la realtà, ed è di questo che ogni giorno bisogna farsene una ragione. Ma andando alla radice del luciferino che conteniamo, anche la libertà è un bisogno di perfezione ed invece, noi viviamo nell’universo del relativo, poggiamo i piedi nella perfezione dei teoremi, delle leggi fisiche e dobbiamo muoverci con la forza del pressapoco. Bisogna farsene una ragione, sentire la limitatezza come possibilità, alterare le regole del gioco e pensare che se il mondo è solido noi fluttiamo su esso, che se la società, i vincoli economici, i modi di vivere sono gabbie possiamo uscirne e rientrarne per convenienza. Esplorare il profondo vuol dire essere adeguati a sé e non al mondo mutato, farsi affascinare dalla profondità del mare che conteniamo, è una cosa irragionevole e difficile, non c’è forse, una parte di noi che ci è stata insegnata con cura che ci dice che è meglio governare la ragione, perché la ragione aiuta a procedere? E se ad una ragione ne segue un’altra, poi un’altra e ancora, in una sequela infinita di ragioni e compromessi, non è poco male se esploriamo meno il mare e riusciamo a gestire desideri, irragionevolezze, pulsioni, stanchezze, gioie e disperazioni?

In questa funzione, il prete della ragione, la società, rassicura ed assolve, mentre lo strascico del difficile equilibrio della convenienza lo segue. 

A noi che come pesci ci immergiamo, saltiamo, ci ri immergiamo, perché la vita, lo sappiamo, è lì nel profondo, non nel guizzare d’acquario, resta l’irrequietezza e la necessità del farsene una ragione.

Quasi sempre, a volte si deroga e si respira.