elogio della perfezione imperfetta

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A tutti, l’insegnamento della perfezione, e del perfettibile, viene inoculato con la crescita. Ci si misura tra ignoranza e fare, tra modelli e realtà, così l’ansia da perfezione si trasforma in ansia da prestazione. Con un ottimo curriculum di pressapochista, di fancazzista di talento, di inesperto nelle arti maggiori e minori si può aspirare a scalare i più alti gradi della scala sociale, di collocarsi in quella sfera prevista dal principio di Peter, dove il dubbio sulla capacità e l’incompetenza si fondono, ma sono già collocati così in alto da essere poco scalfibili. Credo dipenda tutto dallo scarso uso del riso e della serietà della satira sostituiti dal dileggio e dal gossip, entrambi non solo inefficaci nel far vedere i veri limiti del soggetto, ma soprattutto laudativi del potere di esso e quindi rafforzativi di un potere che se si merita l’attenzione e il sussurro dovrà pur essere importante. Conoscendo bene le qualità dell’incompetente per personale esperienza, posso affermare che solo l’ego può mettere argine alla patacca reiterata e che solo la brutta figura diventa un deterrente credibile a chi ha una fiducia illimitata nel farla franca. Allora raccontiamola bene: esistono due tipi di umanità, gli inadatti consapevoli e quelli inconsci, ma la differenza vera è che entrambi si distinguono in realtà nella speranza di farla franca. Per questo le università si riempiono di esperti, di sapienti, di competenze che producono inesperti, tuttologi, incompetenti rispetto allo studio effettuato e in piccola misura, invece, nascono inventori, professionisti capaci, specialisti che saranno coordinati spesso dalla prima categoria di incompetenti. Da ciò, se le premesse sono giuste, se l’esperienza non ci inganna, se ne dovrebbe dedurre che una società sostanzialmente pressapochista e un po’ cialtrona, ha al proprio interno un oscuro collante che la tiene assieme e la fa evolvere. Solo che raramente il collante viene riconosciuto e osannato mentre l’onesta mediocrità ha il potere, guida, governa, legifera, promuove, giudica, affonda e innalza secondo suoi criteri e convenienze. Quindi sembra che il mondo abbia una serie di falsi obbiettivi: un’ansia da prestazione su cose che produrranno ben poco, un focalizzarsi sul gesto, sul particolare e non sulla somma delle cose fatte. Mentre se si parla di prestazione si dovrebbe considerare lo specifico e l’insieme, la riproducibilità e l’inventiva, l’errore che genera il nuovo ma questo esige che chi governa queste cose sia fattore di unione, abbia visione ampia, veda l’errore e lo sani, governi essendo un capo, cioè colui che anche l’ultimo dei suoi riconosce come tale. Così la prestazione non bara, ha un valore economico, è competenza e non è patacca.

Ma che conta tutto questo se invece di inoculare l’idea della prestazione si passa all’idea della perfezione, cosa ben più dinamica e misericordiosa della prima? L’idea della perfezione si può misurare con qualsiasi cosa, è un rapporto con sé prima d’ogni altro, accantona gli insuccessi, non li mostra e soprattutto tratta bene chi ha gli stessi problemi. La perfezione, sapendo di non poterla raggiungere, porta con sé la pazienza, spesso l’ironia che porta a ritentare. Si sa sin dall’inizio che è un processo asintotico, che quanto più bravi ed esperti si diventa, tanto più si vorrebbe trasmettere la piccola competenza raggiunta perché l’opera venga continuata da altri. In questa continuità c’è la dimensione della ricerca della perfezione, ma questo non ha grandi riflessi sulla società perché la perfezione non è di serie e quindi non ha un valore economico di massa. È un procedere per cultori, per iniziati e se lo sono davvero, non hanno l’ansia da prestazione ma l’ironia del far bene, dello stare assieme, del condividere ciò che si può. In fondo chi cerca la perfezione sa di essere ignorante, poco intelligente, scarsamente preparato, chi invece ha la sensazione del ruolo, del potere, della mansione riconosciuta pensa di essere adeguato e di poter aspirare a più di quello che ha. Il fatto è  che la perfezione è un dialogo con se stessi, mentre la prestazione è un dire ad altri cosa devono fare non sapendolo fare.

aria d’autunno

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La città si riempie di giovani attese:

riaprono le scuole

e son finiti i giorni delle strade vuote

nell’ indifferente calura.

C’è un tempo in cui si smarriscono le fragili virtù:

che s’allontanano da noi,

lasciando il suono delle foglie

nell’aria d’autunno.

Così tra folate di traffico improvvise,

il ricordo diviene passatempo,

e il futuro, un’attesa, senz’ ansia di risposte,

allora penso, incauto e allegro,

a mettere il tempo al posto suo giusto.

tre minuti

Chiamato a raccontare in tre minuti cos’è per me la vita, per uno e mezzo stetti in silenzio: bisognava dar tempo alla vita di nascere.

Poi aggiunsi un sospiro, che non era indecisione e neppure stanchezza, ma soffio. Come fa la vita bambina che scherza col sonno del bimbo che dorme ed è comunicazione, aggregazione, dolcezza dell’amor vicino.

Così mezzo minuto lo usai per dire che per costruire qualcosa, vita compresa, bisognava mettere assieme, stabilire una relazione tra diversità apparenti, usare la tenerezza del congiungere con legami forti e deboli.

Lasciai mezzo minuto di silenzio per pensare. Sono lunghi trenta secondi, ma servivano a capire.

Mi restava mezzo minuto, sorrisi prima di concludere, perché era difficile mostrare che viver bene è più che vivere.

E allora dssi che per farlo serviva tentare di realizzare la vita aggregandola con armonia.

E che quando accadeva era un ordine o un disordine comune che faceva scorrere mentre rasserenava.

Forse avevo usato più parole del necessario e il tempo s’era concluso.

La vita perdonerà, perché in realtà non c’era molto da dire, bastava vivere.

il richiamo della foresta

Su Internazionale, Goffredo Fofi, parla de il richiamo della foresta di Jack London. Mi ha leggermente emozionato questa sintonia su un autore che per me è stato importante. E lo è ancora. Forse sono discorsi che con l’età vengono più facili, ma è come si fosse ricordata, tra amici, una ragazza amata da entrambi e che mai è stata dell’uno o dell’altro, per cui è rimasta la bellezza e il piacere di averla conosciuta.

Per me, Jack London era l’altra faccia di Pavese, di Melville, di Fenoglio. Quello che precedeva Hemingway senza la dolce vita e il mito maledetto dello scrittore. Era il Salgari che viveva davvero le sue storie. Era il rosso, il socialista, senza teoria. Colui che aderiva al cuore della rivoluzione perché questa era la vita realizzata per un momento, per un anno, per quel tanto che ancora restava ideale in realizzazione. Era il John Reed che correva in Messico e poi a Mosca. Era la somma di tutto questo e insieme ciò che è bello essere in quell’idea di uomo e d’avventura che spinge di una forza incontrollabile uomo e popolo verso un destino più alto e bello, verso un buono e un giusto da condividere. Poi si sa come è andata, ma vivere all’interno di questa spinta era l’idea di vita che da giovani si coltivava. E c’era amore, molto amore, e scoperta, natura, confronto, solitudine e l’essere forti e bastevoli con i piedi posati su solidi principi.

Leggetelo nuovamente London, e non solo il richiamo della foresta, è l’invito a restare giovani per sempre vivendo cio in cui si crede. Ma è anche il racconto eroico della solitudine dell’uomo che si misura con se stesso e ne esce forte, tentando di darsi una risposta, anche se le domande non si esauriscono mai.

frammenti

(Ci) Sono sempre frammenti da ricomporre anche se pare tutto intero.
E tutto quello che non scegli mica si dilegua.
Ma ogni tanto torna. E queste storie che sembrano compiute non si compiono per davvero.
Capisci che c’è un principio e un’apparente fine.
Ma qualcosa torna sempre. Resta ed è un fantasma piccolino che sorride e poi scompare. E tu mica hai capisci cos’è rimasto ancora.
A volte mi par d’essere la stazione degli autobus. Sono tutti così uguali.
E magari chi parte ti pare di conoscerlo perché sembra quello che da poco è arrivato.
Invece è diverso com’è per ogni storia nuova. O almeno così sembra.
E allora penso all’Africa, ai suoi pulmini colmi di persone, di fagotti di cui non è possibile far senza, però se lo perdono mica ci pensano poi troppo.
Forse è nostalgia di colori e di precarietà che si respira assieme, di profumo di persone che sperano così forte che si sente, e ti contagia come un’allegria.
Oppure è quel viaggiare che va in ogni posto e non si ripete mai, che riapre storie.
È che ognuno raggiunge qualcosa di suo, quando deve, ma quando si può chissà se mai finisce.                                           E forse loro non han frammenti da riattaccare. E neppure gran motivi per restare in quel posto che sembra non bastare.
E forse neppur hanno i fantasmi piccolini che gli fanno compagnia di tanto in tanto.
Forse.
Ma magari è differente e non si capisce bene.
E allora penso che non ci sia una regola.
Non una che vale poi per tutti.

era la festa del santo patrono

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Era la festa del santo patrono. Per tutti. I credenti, gli atei, gli innocenti, gli ignavi, i benpensanti, i delinquenti. Per i passanti meno, però si adeguavano. Dalla periferia verso il centro, era un crescendo di esteriorità, di frasi ribadite, di tappeti rossi per la processione, di persone che attendevano. Chi una grazia, chi di farsi vedere, chi di pregare in modo appropriato ed eccezionale. Vicino al portone della chiesa, aperto come mai durante l’anno, sostava la banda. Ottoni, legni e tamburi, colletti slacciati, cappelli per traverso, qualcuno addirittura senza, era il capannello dei bandisti che nell’attesa, parlavano d’altro. Di cose frammischiate, spesso oscene. Le ragazze dei flauti e dei clarinetti erano per loro conto, ogni tanto qualcuno dei giovani s’intrometteva e allora i discorsi deviavano in sfottò. Appena oltre il sagrato, l’aere sacrum dove i ragazzi la sera giocavano a pallone o amoreggiavano sugli scalini bevendo birra, c’erano bar e tavolini pieni di persone. C’erano gelati che gocciolavano troppo presto, scollature interessate, gambe accavallate, bibite e aperitivi che coloravano bicchieri di rosso, verde menta, giallo, arancio. E tra i tavolini, all’ombra di ombrelloni giganteschi, era tutto un chiacchierare senza comunicazione, un ascoltare e dire distratto, poco interessante, ma indispensabile ai vestiti da mostrare, al ruolo da mantenere, ai saluti da ricevere e da dare. Arrivarono per tempo i fabbricieri, con mantelli bianchi e cappelli di velluto cremisi. Poi le confraternite con gli stendardi ricamati. Infine le faglie dei portatori della statua. Gente di commercio, colli taurini di fabbri e macellai, sottili figure di sarti e tabaccai, venditori di spezie e coloniali, vinai, commercianti di tessuti, calzolai. Insomma taglie umane diversissime, dai sottili ai grossi. Alcuni, i portatori, rivestiti di mantelli blu oltremare fino alle caviglie, con calzini bianche che spuntavano dall’orlo per finire dentro a scarpe a punta con la fibbia dorata. Gli altri con mantelli di vario colore che definivano estrazioni e devozioni di cui pochi ricordavano il motivo e la nascita nel tempo.

Fuori dalla piazza, il traffico man mano si spegneva. Ai limiti del tragitto della processione i vigili in grande uniforme, deviavano auto, pullman e motociclette. Lasciavano passare, a piedi i ciclisti, rispondevano alle domande degli ignari, facevano finta di non sentire i moccoli e le bestemmie di chi si vedeva stravolti i piani, le consegne, gli impegni. Era festa, anche per chi non lo sapeva o voleva. E festa doveva essere, mica ci si poteva sottrarre alla festa del patrono. Era la festa della città, dei suoi appartenenti, di chi aveva fatto la fatica di proteggere quel posto e i suoi abitanti. Così, più distante, verso la periferia, le case inghiottivano un traffico nuovo. Auto e camion ingolfavano le strade che portavano alle circonvallazioni. Non quella vecchia, quella delle mura, ma i nuovi limiti che dividevano la città dalla campagna. Il dentro e il fuori. C’era un silenzio rumoroso, da primo pomeriggio estivo. Le case erano piene di persone. Bambini svegli, vecchi e operai che dormivano approfittando del dopo pranzo abbondante, donne che rassettavano. Non pochi facevano all’amore nel pomeriggio, con i balconi semichiusi, con i rumori che filtravano dall’esterno inondando le case di novità sonore. Impiegati, artigiani, operai, stanze per studenti fuori sede, il tutto in case pastello, con pochissimo verde e alberi spaesati. Una umanità che pure c’era, ed era maggioranza, ma non appariva. Era isolata nelle idee, nelle preferenze, nelle attese. Si trovavano per le scale, nei cortili. Si parlavano per omologhe necessità. Si salutavano, ma la cosa finiva col saluto. C’era un’ attesa differenziata di futuro tra loro e partecipavano in misura diversa alla vita della città, come vi fosse una stratificazione che, se anche era in movimento, aveva velocità e vischiosità diverse e una possibilità di scambio difficile tra strati. In una di quelle stanze uguali e differenti assieme, su un tavolo posto a fianco della finestra piena di luce, c’erano carte. Alcune sparse, altre allineate in pile, a sinistra quelle scritte e a destra quelle bianche. Alcuni fogli erano finiti sul pavimento e rilucevano in una lama di luce, con i caratteri che potevano essere qualsiasi cosa: una lingua antica, disegnini di una mente distratta, frasi sconclusionate oppure ragionamenti affilati e rari. Nella stanza non c’era nessuno. Oltre si sentiva il respiro di una, forse due persone, un parlare fatto di sospiri. L’aria era calda e densa degli odori del pranzo. Un sugo, della carne, un sentore di vino rosso vecchio. Ma ciò che si sarebbe potuto fare, se ci fosse stata una lama gigante e affilatissima, era sezionare quella casa in verticale e scoprire che tra ciò che poteva essere scritto su quelle carte sparse e ciò che accadeva non c’era differenza, ma anzi le carte erano più ricche di racconto, mentre le vite si svolgevano simili, con desideri e voglie sovrapponibili, con stanchezze analoghe, con soluzioni uguali. E allora non si sapeva più bene quale fosse il racconto del passato, addirittura del presente, se c’era così tanta potenza in quei piccoli segni che rilucevano da tracciare finali più ricchi e diversi. Bastava saperli leggere bene e si sarebbe capito il futuro. Mentre questi pensieri si formavano, da fuori si sentiva il rumore del traffico diminuire, e la musica della banda avvicinarsi. Non sarebbe passata sotto quelle finestre, lì eravamo oltre la città vecchia, ma il suono non ci badava e allegramente superava i confini tracciati dal potere degli uomini. Il patrono avrebbe fatto una svolta stretta vicino al fiume e per strade piene di palazzi si sarebbe orientato verso l’altra parte della città che conta, avrebbe ricevuto l’omaggio dai balconi aperti, sarebbero caduti petali di fiori e piccoli coriandoli di carta, anche delle striscioline su cui qualcuno avrebbe scritto innumerevoli volte la grazia da ricevere e l’avrebbe fatta volteggiare nell’aria. Poi sul calpestato, avrebbero agito gli spazzini, ma per un poco la città vecchia sarebbe apparsa colorata più del solito grigiore che la teneva stretta, dai palazzi sarebbe uscito qualcosa che di solito ci si guardava bene uscisse, ovvero una trasgressione all’ordine. Il vecchio ci teneva acché le cose avessero un loro posto, come gli uomini. Il nuovo invece, oltre il fiume e la circonvallazione, non aveva queste tradizioni, erano persone che la città aveva collocato a distanza, forse per questo c’era un’aria di incredulità che serpeggiava. Anche nei confronti delle reali possibilità di avere un santo in comune. Però il suono della banda si spandeva nell’aria e superava i confini del censo e dell’appartenenza e forse faceva piacere a chi era incredulo perché metteva allegria con quei suoni pieni e sempre un po’ stonati generati da prove discontinue, da altri mestieri fatti di giorno e da una passione serale e festiva che faceva tirar fuori musica e armonia da uno strumento. In fondo suonare annullava le distanze, bastava non sbagliare troppo e si aveva la coscienza di aver fatto qualcosa che faceva piacere a sé a agli altri. E se ci fosse stato un osservatore imparziale e attento si sarebbe accorto che il suono penetrava in quell’insieme di cose che accadevano nelle case. Avrebbe sentito il variare dei respiri nell’altra stanza e le cose già scritte, uguali eppure possibili nel loro travolgersi e stravolgersi, si sarebbero, forse, modificate. La vita continuava scorrendo, eppure sembrava procedesse a fiotti, ad accadimenti, solo che quello era un giorno di festa e per un giorno ciò che era scritto poteva coincidere con la vita.

 

marginalia

Sembra sempre che qualcosa manchi.

Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio.

La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa.

La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce.

Il tempo: troppo quando rimando.

Troppo poco, devo andare.

Meglio scrivere sul margine del tempo,

cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale

lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, contento delle sue conseguenze.

Dispettoso e allegro, pensoso.

Chissà dove andrà a parare?

Inseguirlo e meravigliarsi un poco.

Farò a tempo.

Arriverò in ritardo.

Ce la faccio.

Bello scrivere quando il tempo è poco,

e s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre.

La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede.

Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria.

La pioggia aspetterà.

Non aspetta. Cade.

Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo.

Aspetta ancora un poco. Per favore. 

o meglio così:

Sembra sempre che qualcosa manchi. Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio. La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa. La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce. Il tempo. Oh il tempo: troppo quando rimando.Troppo poco, devo andare. Meglio scrivere sul margine del tempo, cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale. Lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, è contento delle sue conseguenze. Lui. Dispettoso e allegro, pensoso. Chissà dove andrà a parare? Inseguirlo e meravigliarsi un poco. Farò a tempo. Arriverò in ritardo. Ce la faccio. Bello scrivere quando il tempo è poco, però s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre. La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede. Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria. La pioggia aspetterà. Non aspetta. Cade. Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo. Aspetta ancora un poco. Per favore. 

bianche e perfette

Pare un buon segno al cuore

che, tra i vasi, 

il rosmarino, la lavanda, l’elicriso,

due uova bianche, piccole, 

perfette,

siano d’una coppietta di colombi.

Lui grigio, un po’ indeciso nell’attesa,

lei tenera di bianco

e già solerte nel saper che fare.

Han fatto un letto di legnetti,

dove posare quel perfetto bianco

e attendono pazienti,

ed io con loro,

che il miracolo si ripeta

allegro.

 

prima del temporale

Mangiavo piccoli dolcetti al cacao: cocoa short bread cookie. Fernet e caffè. Nel corso passavano ragazze con vestiti estivi corti e leggeri. Parlavano fitte, ridevano spesso. Qualcuna gesticolava e si toccava il corpo: stava raccontando qualcosa di sé. Gli uomini si fermavano tra una boccata e la successiva. Anche loro ridevano spesso, ma era una risata meno leggera, pesante di sottointesi.

Il mio sigaro era di dolce Kentucky, poco invecchiato. Lasciava un fumo denso e aroma nell’aria. Lo seguivo con lo sguardo e mi pareva un bel momento.

Appena oltre le case, con i balconi pieni di gerani rossi, s’annidava il rumore di chi andava di fretta. La città era nata dal gioco di un gigante che tirando linee dritte e curve, infine, aveva tracciato una spirale ed io ero al centro di quel dipanarsi di luoghi, ma anche sulla retta del corso. E lì ho visto staccarsi le ore nell’aria che non voleva cedere al temporale. Era così limpida e piena di tanti piccoli suoni tiepidi conosciuti, che si bastava. Tutto si accordava nell’attesa di qualcosa. Ho pensato. E tutti, quelli seduti e quelli che passavano, sapevano cosa sarebbe accaduto, ma lo stesso erano attenti anche se ostentavano una distratta noncuranza. Forse per questo, o per aggrapparsi a qualcosa di ben noto, il cigolio degli ingranaggi del campanile, sollevò ironici commenti. E qui ci starebbe un eppure, ma tra il rumore secco delle chicchere nel secchiaio del bar, risuonò alto un evviva! con quel tono squillante che hanno i tenori di coro. Si brindava al momento, alla presenza, a chi pagava, forse anche ai seni della barista. Qualunque fosse il motivo si sciolse un arcano maggiore, mentre cadevano le prime gocce di tiepida pioggia.

da est verso ovest

Stasera, tornando, avevo le Alpi Carniche alle spalle. Erano avvolte da temporali e i picchi emergevano tra nubi nere. Sono belle queste dolomiti, un po’ neglette, poco frequentate e i paesi non hanno quel kitsch che tutta la parte bolzanina e trentino veneta si sono trascinati dall’Austria. Ti sarebbe piaciuto vederle. Un pomeriggio mi fermai apposta a Ponte Rosso per guardare. Seduto a un bar di zona industriale, guardavo verso le cime che apparivano improvvise e nette tra le nubi che correvano. Credo di aver suscitato qualche commento tra gli avventori frettolosi che si chiedevano cosa quel tizio guardasse, tanto che mi chiesero, oltre all’ordinazione, se avevo bisogno di qualcosa, ma era di quiete che avevo bisogno e questa non si può ordinare al bar. Stasera invece ero solo, guidavo e guardavo. In autostrada ci sono questi ponti, che l’attraversano, semplici, tesi e dritti, con una ringhiera un po’ alta e qualcuno che guarda. Sono cinque, sei travi che poggiano su due rampe. Lì sotto, oggi, c’erano macchie di sole e sopra vedevi un grigio asfalto a pennellate larghe, che a volte sfumava in azzurro. Solo che quel grigio era il cielo, mentre l’asfalto, quello vero, marezzava di giallo. Ho avuto modo di guardare con attenzione quei ponti: rompono la vista, l’orizzonte, forse servono anche a non distrarsi e sono poco frequentati perché attorno c’è la campagna. Mi parevano dei boccascena. Solo che oltre si vedevano case, fabbriche, alberi senza confini, qualche macchia di pioppi da cartiera.

Sono arrivato al Piave e il ponte, lunghissimo, oscurava la vista laterale con transenne molto alte. Però qualcosa si vedeva comunque. E’ strano che sul ponte del fiume sacro alla Patria non ci sia un posto dove fermarsi. Non si può pensare, meditare su quello che è accaduto su quelle sponde: nel secolo scorso la guerra e il Vajont e non solo. Quest’anno, da giugno è stato quasi sempre una serie di pozze che comunicavano, immagino, carsicamente, e faceva pena quel mare di ghiaia, arido, senza una idea di fiume. Potevano chiamarlo: fiume secco alla Patria non sacro. Ma è spesso così, ormai più che un corso d’acqua è una nozione: lunghezza del ponte, nome, cartello. Però oggi, stranamente c’erano larghe vene d’acqua che attraversavano la ghiaia. Poca cosa, ma almeno aveva la parvenza d’un fiumicello.

Pensa che gli hanno cambiato nome perché la virtù mascolina del fare la guerra non sopportava che il fiume avesse un nome femminile: la Piave. Bisognava provvedere, ci pensò D’Annunzio. Anche la fronte non andava bene e la mutarono in il fronte. Le donne mica potevano assaltare, resistere al nemico, dovevano allevare i figli, dargli da mangiare non si sa come, e piangere compostamente i morti. Senza disturbare. Quei femminili nei fiumi e nelle cose di guerra davano fastidio  e così senza saperlo hanno genderizzato le cose, gli hanno cambiato sesso mantenendone la funzione.

Oggi comunque la Piave ti sarebbe piaciuta. Ho rallentato, cambiato corsia e ho visto quell’acqua limpida in mezzo ai sassi bianchi. Sarebbe stato bello sedersi con i piedi nell’acqua e guardare il grigio sui monti che contrastava con il biancore dei sassi. È tutta questione di luce, le cose diventano nette e anche i pensieri lo fanno. È durato poco ma quell’acqua mi ha fatto bene, c’era la continuità delle cose, la corrispondenza con le parole. Ho pensato che se anche era un fiumetto, uno di quelli che abbiamo a iosa tra i nostri campi e a cui nessuno penserebbe di cambiare nome, però questo era il fiume della Patria e che forse anche tutto quel bianco che rifletteva il cielo e faceva risaltare il verde dei campi era fiume e Patria. Così com’è adesso. Sulla Piave non ci sono argini, forse perché non ha mai troppa acqua. Ho pensato che quando accade che ce ne sia molta, di acqua, allora la Piave porta sfiga, quindi è meglio così: si vede che le centrali idroelettriche pensano alla nostra salute oltre che ai loro profitti.

Il cielo davanti era indeciso tra scrosci d’acqua e sole a manate, come se la stagione fosse in bilico e non sapesse più bene dove andare. Ho pensato che le facciamo correre troppo le stagioni, neppure ci accorgiamo di quello che ci dicono. Bisognerebbe fermarsi, ma un grill non è una cosa ferma, è parte della corsa. E noi dobbiamo sempre arrivare da qualche parte. Rallentare fa parte del vedere e del raccontare ciò che si vede, e oggi ti sarebbe piaciuto fermarsi assieme, scambiare il silenzio e qualcosa di quello che vedevamo.

ascoltavo:

del Kronos quartet parleremo: