capitolo primo: l’attesa che qui non continua

Ogni decadere comincia per tempo. È sempre una frattura che non si ricompone appieno, che introduce un nuovo difficile da accettare e così viene rifiutata come tutto ciò che sembra togliere un’integra normalità. Avevano ragione gli artigiani zen che aggiustavano le cose preziose mettendo oro a saldare le fratture. Kintsugi, una pratica che chissà se ancora viene fatta oppure è solo perduta come il tempo di Mishima, travolto da un eterno correre che cammina su malintese progressività verso qualcosa che non prevede di aggiustare nulla. Un tempo era normale tenere assieme le cose, i corpi, ciò che si univa con una proiezione del tempo. Non si viveva meglio, mancava sempre qualcosa ma mi chiedo ora cosa significa essere normali. Non volevo essere normale. Nessuno di noi lo voleva. Certamente non quelli che se ne sono andati in cerca di una armonia che gli pareva di aver dentro. Ad esempio PieroPeter, imbarcato in una carboniera verso l’America, sceso in Argentina e poi ricomparso nel Texas con una moglie americana. Laureato tardi a Dallas, ma lì non ci badavano, con borsa di studio e alloggio per sposati, e poi insegnante. Adesso, sarà in pensione, in una di quelle case con l’erba da falciare il sabato per preparare il prato al barbecue della domenica.

Lui di erba ne ha fumata tanta e mi spiegava che solo con quella, l’armonia si ricomponeva dentro in qualcosa di nuovo e lui aveva bisogno di quella musica. Ha imparato giusto a tempo, in zona “Cesarini” quello che serviva. Molto di quello che s’impara si risolve presto, nel senso che sbiadisce, è connessione, un lento confondere, ricordare, scordare a pezzi, il resto non s’impara più oppure diventa passione e allora è altra cosa. ha bisogno di far largo, di mettere da parte il resto che neppure vede. Piero così aveva fatto. Via tutto quello che non serviva per seguire un sogno che poi si era trasformato in una vita come tutte, ma era un sogno, accidenti, non una rimasticatura imposta dalle volontà altrui. Aveva un talento particolare nel voler vivere alla grande. Non in campeggio e neppure dormire in macchina durante le vacanze nate per caso durante un discorso e portate avanti per sfida. In albergo, si deve dormire, in albergo e fare colazione seduti a un tavolo la mattina dopo. Fiutava il limite di ciò che avevamo in tasca e poi trovava luoghi improbabili, persi in paesetti dove non andava nessuno, pensioni che venivano occupate l’estate da 5 famiglie che ci soggiornavano ogni anno da generazioni. Entrava come fossimo al grand hotel e mi diceva: guarda la moquette. Io la guardavo la moquette, la guardavano anche gli altri e sarebbe stato meglio non averla vista perché era piena di macchie, lisa davanti al banco del portiere e in ogni camminamento interno. Era una mappa consunta da cento piedi in trent’anni che si dirigevano verso la sala da pranzo, le scale, l’ascensore, la scala verso la cantina. Scommettiamo che nelle camere la moquette ha il pelo folto. Aveva ragione ed era sempre piena di polvere e altro pelo che nessun aspirapolvere avrebbe mai aspirato. Moquette verdi con disegni marrone, moquette arancio, tinta unita. Persino sulla testiera del letto la mettevano. Moquette da asmatici in cerca di asfissia, paradiso di acari che neppure un detersivo radioattivo avrebbe distrutto e lui ci camminava a piedi nudi, così alla fine lo facevamo tutti. Insomma in questi alberghi locande c’era la gran vita e un’insegna che alle 23 spegnevano per non consumare corrente, così se andavamo in giro fino a notte tardi, c’era il rischio di non trovare neppure più la casa e la porta giusta. E accadde e finì a secchiate d’acqua o altro. Speriamo fosse acqua. Dopo due giorni era ora di cambiare aria, ormai ci conoscevano tutti e non c’era più nulla da vedere oltre l’osteria. I ritorni, sempre notturni, erano la parte migliore del viaggio, i grill con il banconiere assonnato che faceva anche da cassiera, erano il luogo dei risvegli e delle colazioni alle 2 di notte. PieroPeter riusciva a stritolare due Brioches e fonderle nell’unica che pagava, aveva talento ma si bevevano cose pessime. Miscugli. Fernet perché scaldava e risvegliava, piano da sorseggiare fino all’uscita, con il barista che ci guardava con attenzione che non rubassimo salamelle o cioccolata nel tragitto tra il bancone e la porta. Entravamo in città a giorno fatto, dopo aver visto tutta la sequenza della luce e parlato dell’alba con cognizione di causa. Avevamo un sonno che ci avrebbe portato al pranzo. La bocca impastata dal fumo, dai cappuccini e dall’ultimo Underberg, preso per pulire la bocca prima di entrare in casa, con una risposta per quel dove siete stati a cui era impossibile dire la verità. Alla fine arrivò la politica, non quella sognata che animava le nostre passeggiate, quella letta su “Quindici”, ma quella nelle piazze, PieroPeter se ne andò dopo non molto, aveva dato l’esame di maturità come tutti noi che ora eravamo all’univertà. Lui no, partì, chissà se quel diploma gli è servito.

Sono così tristi i raduni fatti per forza, non sai mai chi e cosa troverai. Cerchi scuse per settimane, ma c’è sempre qualcuno che fa da collante entusiasta. Qualcuno che è il kintsugi di un capolavoro che eravamo tutti assieme. Non è vero che lo eravamo, ma ci pareva di esserlo e le fratture di allora si sono tutte sanate, quello che rimane è la voglia di tirare fuori un passato immaginario che ciascuno ha vissuto per suo conto. Lo so che il nostro kintsugi ha cercato anche Peter e che forse l’ha trovato, ma non ne era sicuro. Il nostro inglese non è quello dei ragazzi di adesso e al più serviva per parlare con una tedesca, chi gli ha risposto al telefono, così mi ha detto, masticava ogni parola e non ha neppure capito chi era lui, così è rimasto lo spelling di un nome da trasmettere al padre, marito, amante, boh, con un numero di telefono. Ne abbiamo riso parecchio su quello che deve aver detto al padremaritoamante e abbiamo concluso che forse era solo una badante o una cameriera. Una mamies, magari PieroPeter ha fatto soldi, speculato in borsa, si è risposato tre volte o magari il numero era sbagliato e non era neppure casa sua. Quello giusto, magari, viveva in Florida in un resort per anziani. Giocava a golf e aveva una sider rossa, italiana. Con il foulard e l’abito di lino, circondato da esuli cubani a cui non poteva raccontare la sua gioventù e la passione che avevamo per Castro e il “Che”. Ridevamo ma non riuscivo a scriverla questa parola: anziani. È così che siamo adesso? E allora che senso ha mettere assieme un gruppo di vecchi che si sono tenuti distanti per una vita, che ricordano cose diverse dello stesso fatto , che ridono per piccole avventure vissute assieme, per banalità che allora erano eccezionali e poi sono diventate normalità. Eravamo nell’800 e non lo sapevamo. I Beatles e i gruppi di casa nostra, il tornare a casa a mattina, il sacco a pelo e la tendina a due posti, gli alberghetti sporchi a poco prezzo. Erano pezzi di vita allegra allora, ma diventano tristezze misurate con gli occhi di adesso. Come andare in quattro in giro per l’Italia in ‘500 e guidare di notte perché si fa più strada. Ma che sciocchezze dovrebbe tenere assieme il kintsugi, sarebbe oro sprecato, anche se è vita vera dove i silenzi contavano quanto e più delle parole e le scelte erano sempre tagli di passato. Non è meglio tacere, conservare ciascuno il ricordo di ciò che è stato, sentire le piccole enormi vergogne di allora, le timidezze, il non voler crescere come ci era stato chiesto di fare. Tutto ha un senso ma nel tempo in cui avviene, poi diventa aneddoto, storia, curiosità che si disperde con le parole appena pronunciate perché le vite sono andate ciascuna per loro conto e nessuna delle ragazze che ci piacevano ci ha sposato e tutte hanno sbagliato e fatto giusto. Ciascuno ha vissuto vicino o lontano, ma intorno a quel baricentro che era la nostra città e ora non ci sono neanche le case che conoscevamo, tutto è talmente mutato da essere irriconoscibile per chi torna dopo tanti anni. In attesa di Peter, la cosa sta rallentando, meglio. Lui era il coraggioso, quello che vivendo con madre e sorella, il padre era sparito e lui non ne parlava, si poteva permettere cose per noi inconcepibili, come prendere e andarsene durante l’anno scolastico e poi tornare e raccontare un sacco di balle ai professori e magari riuscire a farsi rimandare e poi promuovere.

Noi restavamo, a parte qualche trasgressione contrattata, camminavamo assieme per ore, prima in centro a salutare ragazze e gli altri che si fermavano con noi, poi un gelato per cena e un saltare da un posto all’altro fino a una panchina in quella piazza che non è mai stata tale ma un viale largo con tanta ghiaia e erba ai lati. Erano già evidenti in tutti noi le insofferenze che sarebbero arrivate l’anno dopo. Era quella la rottura riconosciuta e l’alternativa era stare o andare. E lui se n’è andato, con i jeans larghi, la camicia a quadri, due magliette e il sacco a pelo. Su una carboniera come operaio in sala macchine. E adesso dovrebbe tornare, ma a vedere chi? Un gruppo di anziani che bevono, mangiano e raccontano di un tempo che neppure è esistito, perché è così, quel tempo non è esistito, c’è la musica, l’arte, i libri, le passioni, i cortei, le occupazioni, gli amori, le notti insonni, le avventure, quelli che si sono persi per strada, a ricordarlo ma non è esistito. Accade lo stesso a ogni cosa che diventa oggetto e poi si va a vedere, si immagina, ma non c’è più nulla che ne certifichi l’esistenza, è tutta un’ipotesi perché esiste il presente e il futuro ma il passato è un insieme di strati di vissuti, di scorie, di bellezze incomunicabili, di ideali, di errori, soprattutto errori e la costruzione di un’identità che è quella di adesso, ma che allora non era così. E perché dovrebbe tornare Peter e diventare Piero, adesso è altro, anzi è diventato altro quando è partito e non c’è nessun kintsugi che lo possa saldare a noi che siamo rimasti.

Ci si arrampica nel terreno che ci è dato, come si può. Magari senza curvare la schiena e così che l’eterno dualismo tra un presente fugace e interpretabile e un futuro che da solo si costruisce a suo modo diventa un modo di sentire che c’è una scissione. Da qualche parte accade. È accaduto. E sappiamo che mai tutto si consuma davvero. Continuiamo a scinderci, alla fine diventeremo atomi di pensiero, e si dimostrerà che era una favola l’idea che i profluvi di parole, le cose che sono avvenute, tutto quello che si è svolto nel tempo, nell’aria o in contenitori grandi o piccoli non è rimasto attaccato agli intonaci, alle pietre e se io sento di notte gli scricchiolii delle travi, o un vento improvviso che mi accarezza il corpo, non sono gli echi di chi c’era prima, i pensieri che non si sono svolti, le parole pronunciate, i tabù abbattuti che ritornano con altre vesti e che continuano la fatica di ricostruire un cielo fatto di nuove costellazioni. È bello pensarlo che nulla si crea e nulla sparisce, ma in realtà ci scindiamo e tendiamo a ripetere, perché è più semplice, come accade per i modi di dire che non attendono una verifica e in fondo ci rendono accettabile tutto ciò che non vediamo ma che sta attorno a noi e non ha sempre bisogno di domande.

Ci sono miei tratti del carattere in questo diventare solitario. C’erano anche allora, con i modi di esprimere sentimenti, i silenzi che facevano tornare dentro parole che forse stavano meglio all’aria e questo lo avverto anche nelle mie “terapie”. Lo scrivere, l’osservare, l’ascoltare sono state terapie importanti. Fondamentali. La mia carboniera verso l’America, ma non era la stessa cosa e ora non bastano. Come non sono bastate in altri momenti della vita, quando capivo il mio limite e ciò che non riuscivo a fare, mi superavo. Partivo verso l’ignoto. E quel riuscire era compensativo di un desiderio, di un quasi amore che voleva sbocciare, oppure di un premere eccessivo del lavoro, delle scelte che avrei dovuto prendere. Le cose in fondo sono semplici e tutto si chiude tra un si e un no, con lo spazio infinito di punti che collega questo segmento del decidere. Tutto ciò che sta in mezzo, lenisce ma non risponde e alla fine si capisce che se lì, alla radice di una risposta netta, una possibilità si è spenta. Allora tutto ciò che la sostituisce è in fondo insufficiente. A meno di non essere dei geni e nasce un’opera d’arte, ma non è il mio caso.

Un mediocre scrittore e un banale fotografo, affidarsi all’istinto è una bussola per sé ma non per altri. Non aver più voglia di stupire e usare l’arte del contraddirsi come carta per ogni scrittura, non basta. Non basta  per fugare il dubbio se ci fosse stata stoffa, se il talento sia stato tradito oppure sia stata tutta fuffa, incommensurabile fuffa come quella che, dissimulata, tra righe di lirica competenza, di stupore attonito, alla fine lascia una doppia sensazione: che avrà detto, ma se è pur bella l’accozzaglia, decrittarla è fatica inutile. Non c’è nulla se non nel talento vero, ma quello è altra cosa. Altra sofferenza per estrarre qualcosa che davvero sia superiore al momento, all’accadere, alla stessa percezione del vivere. L’universale e il banale hanno più punti di congiunzione di quanto si pensi, ma così annoiano. Annoiano e si passa ad altro. E dovremmo riunire tutti, dirci cose che non facciano male. Peter dovrebbe tornare dal Texas o dalla Florida. Gli altri arriverebbero dai posti in cui hanno fatto famiglie e carriere per un pranzo, due giorni assieme e poi salutarci con gli occhi umidi perché i vecchi sono facili a commuoversi, dicendosi che il prossimo anno, alla stessa ora, nello stesso posto, mentre tutti pensano ad altro, a cosa accadrà, a cosa racconteranno a casa di questo riunirsi e dell’essere di nuovo un insieme, un gruppo coeso, un ‘opera. Intanto si aspetta la telefonata di Piero Peter, ho detto con forza che senza di lui sarebbe poca cosa, meglio non fare. Si aspetta e se chiama in americano il nostro kintsugi allora sarà da ridere.

 

da Wikipedia : Il kintsugi (金継ぎ AFI: [kʲĩnt͡sɨᵝɡʲi]), o kintsukuroi (金繕い), letteralmente “riparare con l’oro”, è una pratica giapponese che consiste nell’utilizzo di oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro per la riparazione di oggetti in ceramica (in genere vasellame), usando il prezioso metallo per saldare assieme i frammenti. La tecnica permette di ottenere degli oggetti preziosi sia dal punto di vista economico (per via della presenza di metalli preziosi) sia da quello artistico: ogni ceramica riparata presenta un diverso intreccio di linee dorate unico ed irripetibile per via della casualità con cui la ceramica può frantumarsi. La pratica nasce dall’idea che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore.[1]

L’arte del kintsugi viene spesso utilizzata come simbolo e metafora di resilienza.[2][3]

 

a sera tornare, ma verso cosa ?

Lui scriveva cose minuscole. Perdeva accenti sullo smartphone, metteva apostrofi alle maiuscole, coagulava serie di piccoli punti. Diceva: c’è il sole con quel punto esclamativo che voleva forse dire ti penso. A che volte sembrava un tiamo, d’un fiato non abbastanza coraggioso. Lei leggeva, sorrideva, non rispondeva. Più per paura di lasciar correre un sentimento che per pudore. Si vedevano spesso, facevano cose assieme, andavano in vacanza, oppure si mescolavano nelle serate tra amici tenendo le tenerezze per la successiva notte. Separati da diversi ex amori, conducevano il tempo senza progetti, con molte silenti aspettative e altrettante paure. La notte non mancava mai un messaggio che pareggiasse il conto breve della solitudine, una lucina intermittente per quel poco che lenisce un cisonoetucisei? 

A lungo possono andare avanti le vite a questo modo: senza certezze grammaticali, senza amori che si gettano nel fuoco senza un progetto che superi il giorno, la settimana. Possono procedere senza muoversi, sedute in una eterna panchina nello spogliatoio della vita. Possono vivere di abitudini e di gesti indecisi che non sembrano neppure esserci stati. Chissà cosa resta poi di quel sole che c’era, di quel facciamo assieme la marmellata di ciliegie o dell’andare al mare. Un asciugamano steso accanto, il sole che arroventa la pelle, le parole intinte di ricordo e i calamari ai ferri, la sera.  E al ritorno, la luce del cruscotto che illumina appena il volto, liscia l’espressione intenta, getta verso un domani senza data una domanda: tornare sì, ma verso cosa?

la parte del lupo

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Questa notte i lupi, un piccolo branco, hanno ucciso e divorato un asinello. I cavalli sono scappati lontano nel pascolo alto. Gli allevatori ne parlavano preoccupati. L’anno scorso l’orso, quest’anno i lupi. Avrei voluto dirgli che abbiamo i cinghiali in città e che nessuno se ne preoccupa se non ci sbatte contro con l’auto, ma si continua a pensare che sia colpa di altri e non delle nostre abitudini. Ma erano davvero preoccupati e sono stato zitto. In fondo sono loro le sentinelle di un mutamento che si fa evidente, continuano a produrre formaggio, a falciare i prati ma sentono che le cose mutano e che lasciano traccia nelle persone prima che nell’economia.

In questo primo aprile la temperatura più alta, inquieta tutti, anche se è bello star fuori. È stato un inverno molto mite e breve, le piogge mancano da tempo e la neve, salvo le cime più alte, è già sparita. Il clima sta cambiando.

Lontano, ma qui tutto è connesso, Trump, il presidente degli Stati Uniti, ha dato via libera all’uso delle centrali a carbone, all’estrazione di combustibili fossili per energia e ha disconosciuto gli accordi, già blandi e insufficienti, sul clima. Un paio di mesi fa, un grande quotidiano statunitense si chiedeva come mai senatori e deputati repubblicani, in grado di interpretare i dati sul riscaldamento climatico, poi sostenessero la sua inesistenza o marginalità. Eppure erano laureati nelle università da cui provenivano gli stessi studi, sono le fucine dei premi Nobel, a cui magari contribuivano come ex allievi. La risposta era il prevalere dell’interesse immediato su quello collettivo e futuro. Ci sono state grandi e continue scoperte scientifiche, ma hanno riguardato campi che poco c’entrano con l’ambiente, però si è generato un clima positivistico che ha portato a sopravvalutare le possibilità che ha la scienza di metterci una toppa a qualsiasi comportamento reiterato e dissennato. E sono gli stessi inascoltati scienziati a dirlo. Il pianeta non ha mai avuto così tanti abitanti umani e soprattutto non ha mai sopportato così tante alterazioni prodotte scientemente per solo interesse economico. È come se la specie perseguisse un fine di inversione della propria conservazione, magari non l’autodistruzione ma un riassestamento in negativo del suo rapporto col mondo. Siamo in tanti e mai stati così fragili. Dipendiamo in misura così pervasiva dalle tecnologie basate sull’energia che mezza giornata di black out scatena il panico, la violenza, l’incapacità di avere regole comuni di solidarietà. È accaduto qualche anno fa a New York quando le centrali per 6 ore non hanno fornito energia. Quindi basta poco e i telefonini non funzionano più, mancano le comunicazioni e improvvisamente siamo di fronte alla nostra inermità, incapaci di calcolo, di usare un attrezzo più complicato di un martello.

La terra provvederà da sola ad aggiustare i guai, magari a favore di altre specie, però nel frattempo la domanda che mi faccio è perché non cresca la consapevolezza che ciò che accade appartiene alle politiche e ai comportamenti. Questo impero del presente che distrugge pezzi di futuro non riguarda forse i nostri figli, i nipoti, ma anche noi stessi visto che tutto accelera? Si accumula una colpa immane fatta di tante piccole viltà e grandi egoismi ma se noi non vogliamo salvarci perché impedirlo agli altri.

I lupi uccidono per fame, non i propri simili, percorrono il territorio in cerca di un equilibrio che li mantenga in vita. E loro sarebbero il pericolo? Mentre guardavo la polizia provinciale che percorreva la capezzagna e si fermava a parlare con i piccoli crocchi di persone preoccupate, pensavo che mi dispiaceva per l’asinello ma stavo dalla parte del lupo.

Ma questo non l’ho detto stamattina.

chi è quell’uomo che m’assomiglia?

È giusto si sappia che trattenere la rabbia costa fatica, che restare calmi consuma quantità immani d’energia.

È giusto si sappia che nessuna rinuncia è a basso costo, che la notte o il primo mattino ci sarà un risveglio che porterà il pensiero lì, proprio su quella rinuncia, e farà star male.

È giusto si sappia che per costruire una vita come la vorremmo serve non meno energia che per accendere una stella, ma anche per quello straccio di vita che abbiamo realizzato con fatica serve altrettanta energia e se questa ha un sentimento, è meglio ricordare che è stata irrorata di un amore inverosimile. Senza misura, proprio come gli dei. Quelli del nostro olimpo, perché gli altri dei hanno tutti misura e limite.

Se qualcuno l’avesse raccontato, magari insegnato, quando ancora capivo a malapena, non c’ avrei creduto. Non mi sarebbe parsa una grande impresa vivere, ne avrei visto l’eroicità, non la consuetudine, non le incrostazioni, gli obblighi. Avrei protestato la mia libertà facile, la limpidezza di poche idee che non avevano contrasto apparente, non mi sarei fermato sulle contraddizioni, anzi le avrei sciolte con la lieta spensieratezza e coscienza d’ Alessandro: con un colpo netto. E invece poi quelle contraddizioni si sono rivelate la vera essenza di ciò che stava dentro, quello che protestava la sua umanità vilipesa dalle costrizioni, da idee ricevute e stantie, dalle consuetudini.

Allora è giusto si sappia che non nel distruggere se stessi ma nell’assomigliarsi è la fatica. Che il comporre equilibri esige un’infinita dolce pazienza, un’energia che ordina ad una stella d’accendersi nel cuore e nel cervello. Che questo è tutto quello che a volte si potrà offrire e quasi mai verrà compreso.  

quale forza vorrei

non vorrei la forza del guerriero,

quella no,

piuttosto quella del poeta,

che solleva stanco, il passo nella neve,

eppur procede.

Vorrei la costanza indomabile dell’immaginazione,

il tempo ritmato delle pendole, 

la tristezza del non fatto che si scioglie.

Vorrei tenere la forza dell’ abbraccio, 

il parlar muto

liberato dal condiviso sogno. 

Vorrei tener cara la morbidezza della neve

che prima si schiaccia in orme

e poi si scioglie

e cola in rivoli nei tombini arrugginiti,

scivolando verso la campagna, 

dissetando piante e terra

finché il mare poi l’accoglie e fonde.

Vorrei la memoria d’acqua,

l’essere stata altro e l’essersi mutata,

fiduciosa in sé dell’ accaduto.

Ecco la forza che vorrei,

gentile e inarrestabile, 

zeppa d’ afrore e vita,

come quella del poeta che

accarezza e fa l’amore con ciò che vede

tenendo cara la vita che l’accoglie.

il veneto non è venezia

Le parole che corrono di più, tra battute e sarcasmo, sono : pagliacciata, imbecilli, figuraccia. Bevono l’aperitivo e ridacchiano, questo è un bar frequentato da poliziotti e si sentono le valutazioni tecniche della retata di indipendentisti veneti, il reato, l’efficacia della minaccia. Sembrano rimpiangere, come han fatto non pochi giornali, gli altri terrorismi, quelli seri che da queste parti non hanno scherzato, le brigate rosse e nere, l’autonomia. E poi ridono sul fatto, la gravità penale che rende tragica una farsa, la futilità dell’agire che diventa segno di inadeguatezza, eppure… Eppure credo si stia sottovalutando un sentire che cresce e si espande in aree sinora immuni. Pensate cosa sarebbe accaduto a Torino se invece di avere una marcia dei 40.000, i quadri si fossero alleati con gli operai.

Provo a ragionare: Venezia è stata repubblica per almeno 900 anni, non c’è stato europeo che possa dire altrettanto, e al mondo non c’è mai stata una così lunga identità sociale tra governanti e governati. Cero è finito tutto nel 1797, ma è davvero finito tutto? Parlo del sentirsi una cosa a parte, conquistati ma non inclusi. Era già accaduto con gli austriaci, il 1848 a Venezia fu diverso rispetto a qualsiasi altra rivoluzione europea dello stesso anno, perché tornava su una bandiera già usata, non su una nuova, le idee erano nuove, non il vessillo. Comunque non molti anni fa, parlo del dopoguerra sino a metà degli anni ’50, le spinte alla specialità del Veneto erano forti ed erano interne alla D.C. che riuscì ad assorbirle. Ma come? Con una modernizzazione delle opere pubbliche e con una disattenzione alle regole che permisero lo scempio urbanistico spacciato per progresso. In realtà chi aveva inventiva e forza per lavorare, faceva quello che gli passava per la testa. Altrove è stato uguale, ma qui incontrava l’idea del far da sé, di uno stato lontano che facilitava una autonomia del fare. Questo trasformò un territorio agricolo in una serie infinita di aree produttive manifatturiere e industriali basate sull’autoimprenditoria. Quella piccola e familiare, anche quando cresceva. Qui si è praticata una autonomia di fatto e un individualismo corretto solo dalla Chiesa.

Senza aziende di stato, con una auto imprenditoria di metal mezzadri che trasformavano le stalle in aziende, per crescere economicamente, lo stato doveva esistere poco, imporre poche regole, consentire una evasione controllata. I consensi plebiscitari della balena bianca in Veneto, hanno occultato lo scarso legame ideale che esisteva tra questi territori e l’idea di Italia, anche perché questa idea non è stata molto esplorata neppure altrove, erano il conformismo e la convenienza i veri leganti tra politica e cittadini e siccome lo sapevano tutti, la politica nazionale ci ha sguazzato alla grande. Anche la lega di Bossi ha adoperato questo sentire, prima eliminando la liga di Rocchetta, uno degli arrestati, e poi spostando il baricentro in Lombardia, evocando al contempo quella bizzarria della Padania che non aveva né cultura né identità possibile. Sembrava al più un nome di formaggio di serie b, oppure una grande pianura alluvionale, ma qui i contadini tengono alla loro terra, è loro e non si confonde con quella lombarda o piemontese, come poteva essere sentita come una comune piccola patria? Diciamo che non aver avuto politici di rango che interpretassero il Veneto è nociuto alla causa della specialità della regione. Perché di questo si trattava e si tratta. Lo stato centrale non è in discussione, se non per le sue perversioni, a cui la Lega e il PdL governando il Veneto e anche il Paese, per 20 anni, non hanno messo alcun freno, anzi attribuendo secondo convenienza le colpe e scaricando le responsabilità. Quindi non si è risolto nulla. Le alluvioni degli ultimi anni, la crisi economica gravissima, hanno fatto risaltare la sproporzione tra ciò che si è promesso e ciò che si è fatto, lasciando le imprese e i cittadini privi della tutela precedente e soli davanti alla crisi. Si dirà che accade ovunque, che da altre parti va anche peggio, ma qui il tessuto sociale era fortemente permeato di un rapporto tra positività: il lavoro senza limiti, la crescita, lo scambio, la banca, la parrocchia. Tutto tenuto assieme da una idea di autosufficienza, ora questa idea è in crisi e l’insofferenza verso uno stato patrigno cresce.

Si confonde il Veneto con Venezia, che è una eccezionalità e un punto ideale con problemi propri e risorse ben diverse dal resto del Veneto. Ma il resto del territorio regionale è attorniato da due regioni, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia, che trattengono rispettivamente il 90% e il 60% della tassazione nel territorio, e gli effetti si vedono. Decine di comuni di confine chiedono di passare, secondo vicinanza, dall’una o dall’altra parte. Per convenienza, naturalmente, ma anche per equità perché non è possibile competere con chi a pochi km ha benefici importanti. E’ un fenomeno che non ha eguali in Italia, eppure nel riformismo urgente anche del governo Renzi, non c’è traccia del palese divario che esiste e che è fonte di diseguaglianza (e di innumeri sprechi)  tra regioni a statuto speciale e quelle a statuto ordinario. E’ evidente che dove la vicinanza è più forte, l’ineguaglianza emerge con maggiore evidenza e anch’essa provoca insofferenza. E il fatto che ci sia una ineguaglianza tra cittadini già alla nascita, e indipendentemente dal censo, è sotto gli occhi di tutti, ma non viene considerata un problema nazionale.

Quindi ci sono una serie di fattori che mettono insieme un mix pericoloso: una identità forte con una lingua ancora molto parlata, una crisi economica, una differenziazione inconcepibile tra territori contigui, uno Stato che non aggrega ed è lontano. Diamanti, Bettin e altri analisti, certamente di scuola non leghista, rilevano da tempo, il sentimento di insofferenza che si diffonde e cresce. E che non è di per se stesso secessionista, ma chiede almeno in parte un autogoverno delle risorse prodotte nel territorio. E proprio in questi giorni c’è un fiorire di altre sensibilità che parlano di questa insofferenza: Cartongesso, ad esempio, recente premio Calvino, oppure il film, Piccola patria. Ma Mazzacurati, Segre, Carlotto e molti altri ne hanno parlato e questi si aggiungono ai saggi, noir, testimonianze letterarie, poetiche e filmiche, che raccontano che si è superata la sociologia di Schei e di Signore e signori. La letteratura, la poesia, il cinema sono sensori importanti perché escono dalla cronaca e interpretano un sentire. Il fatto che tutto questo venga sottovalutato, che emerga solo la farsa di un gesto pateticamente eversivo, ha almeno due pericoli: l’ignoranza del sentire comune e quindi l’assenza di risposte con il conseguente radicamento del problema, la spinta verso atti più perniciosi e meno carnevaleschi. Concludo su quest’ultimo punto. Se da un lato si sottovaluta, dall’altro non si considera che esiste comunque un terreno fertile per teste calde e per radicalismi. Per queste cose serve una risposta legale che metta assieme l’attenzione con il rispetto della legge, che faccia capire che lo Stato esiste e agisce. Insomma fare quello che dovrebbe fare la politica: risolvere i problemi e non ignorarli.

voglia di Barbagia

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Magari resterei due giorni per paese, ma ho un’improvvisa voglia di Sardegna, e di Barbagia in particolare. Di fermarmi a Tonara o a Teti, in quell’agriturismo dove la sera devi mettere un limite ai colungiones, al porceddu, al cinghiale. Alle ondate di sapori che arrivano dopo un antipasto, che a casa ti avrebbe saziato per un giorno. E siccome sembra non ci sia fine alla bontà, è difficile smettere, perché la gentilezza di chi cucina ti travolge, così vorresti che il tempo fosse lunghissimo davanti al camino acceso, spezzettare il pane guttiau, parlare ancora un poco, sorseggiando cannonau di Oliena, perché andare a letto sembra uno spreco di tempo e poi mica dormiresti. E fuori c’è un cielo di una limpidezza incredibile, dove hai avuto un’esperienza del buio, incredibile e mai più ripetuta. Poi il mattino proseguire per Austis, andare a trovare un’amica, che è in campagna elettorale, e che stimi oltre ogni amicizia, salire verso il convento restaurato, camminare sino a sa Grabanissa e guardare tutt’attorno, Verso il lago Omodeo e oltre verso il mare, finché lo sguardo si perda e senti di essere non al centro della Sardegna, ma al centro del mondo. Fermarsi nei bar a bere un vermentino o una Ichnusa, ascoltando il barbaricino. Senza capire. Solo per il suono. E guardare i gesti ora lenti, ora veloci. Lasciando che il pensiero trattenga l’impressione di una enorme pila di vite sovrapposte e incastrate, come le pietre a secco dei nuraghe, che ora si depositano attraverso le parole che ascolti.  E pensi che c’è un filo grosso che cuce tutto, che ritrovi nelle case in cui il fuoco è abitudine dall’autunno sino a Pasqua, come lo sgabello in sughero vicino al camino; pensi che è un refe fatto di tradizioni senza apparente motivo, di gentilezze mute, di abitudini che scendono giù, giù, attraverso le parole, i nomi, i gesti, il tagliare un pane, l’offrire un dolce o una fetta di formaggio, verso la luce delle giornate, i lavori, e le pietre, i luoghi che hanno spirito e significato, gli ovili, le sughere rosse di vergogna per aver perso il loro mantello prezioso. Giù in un’arcadia fatta di luce e di regole ancestrali. E questo ti rassicura, come scendere dentro il tuo calore interno, com’essere nel mondo e dentro il suo significato.

Ho la strada in mente, l’ho percorsa tante volte da solo, scandendo i nomi: Mamoiada, Fonni, Ovodda, Tiana, Teti, Austis, Sorgono, Tonara e poi indietro. Due volte, Aritzo e poi il Gennargentu. Oppure da Ottana verso Sarule, Ollolai, Gavoi, Lodine, aspettando apparisse il lago Gusana. E ricordo le svolte in cui mi sono perso e i punti di riferimento che mi dicevano che ero sulla strada giusta, la sensazione di solitudine e di natura che avvolgeva totalmente, la voglia di guardare e di andare assieme, perché la natura alla fine ti fa desiderare un riparo, una casa dove riconoscerti.

Ho voglia di quella pace che ti accoglie, quando non hai più il tempo che ti sta attorno, ma solo il tuo, quando condividere è importante più della meta, quando le cose ti parlano per metafore, di te. E la notte ti addormenti sentendo gli ultimi belati, qualche uccello che non conosci, il maestrale che scuote le sughere e le lamiere dei ricoveri e la mattina ti svegli con gli stessi suoni. Ma il giorno dopo non c’è una meta vera, solo da ascoltare, vedere, sentire, per capire dove sei. Non qui, ma altrove. Un punto nave, insomma, senza alcuna utilità che non sia tu stesso.

il senso nei luoghi

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Arrivano le feste, metto in un piccolo mantra le necessità:

-raccogliere i piccoli grandi disturbi delle abitudini,

-farne legna per il camino che riscalda la testa prima del corpo, come accade per le passioni nuove,

-non fare bilanci, guardare dentro con spirito nuovo. 

C’è un luogo dietro piazza dell’Unità a Trieste, che ora sarà freddo. Scuro della collina che lo sovrasta, scuro della bora che s’infila tra le stradine, passando sotto il volto del municipio, scuro del vento che taglia i visi e che si butta in Cavana, o su per via commerciale verso Opcina, ma non si disperde. Sembra infinito il vento, la bora in particolare. Però in quel pezzetto di strada c’è una libreria antiquaria. La vedi dalle vetrine che semplicemente mostrano il dentro stracolmo di oggetti, e libri, e lampadari, e boccette bicchieri vasi, e tovaglie, e tessuti, e giocattoli, e persone, tutto stipato in stanze che si infilano l’una nell’altra, come una bestia grossa che s’è accoccolata. E dorme. Le persone s’aggirano curiose al calduccio, prendono in mano, stropicciano, guardano in trasparenza, vanno altrove con la testa, annusano la polvere, il sentore di tempo. Lo vedono sulle cartoline, sui libri, sui bicchierini da rosolio, sui pizzi che li hanno accompagnati. Svevo, Slataper, Joyce, Saba e via andare in questi angoli incrostati sono oggetti preziosi caduti in acqua, visti in controluce rilucono di ciò che è stato immaginato e vissuto.

Ma non m’interessa la libreria, non questa notte. Appena dopo le sue vetrine, c’è un ristorante che ho sempre visto troppo tardi. O s’era appena mangiato, o non c’era tempo, oppure era chiuso ed io, ogni volta, mi ripromettevo di andarci a pranzo. In un giorno di bora. Sedermi, passare le mani sulla bella tovaglia bianca, un po’ inamidata come adesso non s’usa, e attendere che il vecchio cameriere, con la giacca nera e la camicia bianca, arrivasse. Mi sono visto prendere il menù dalle sue mani, guardare, alzare gli occhi mentre aspettava che decidessi, parlare quel tanto che superava un nome sconosciuto, evocare un ingrediente, trascinare un giudizio (qui si va sul pesante), con un sorriso. Poi scegliere e attendere il cibo caldo e lento, sperando che la bora, nel frattempo, dimenticasse dove siamo. Ché quando s’uscirà, il pensiero non sia il che fare fino a sera,  sennò si passa da un caffè all’altro, da un piccolo desiderio di vetrina al successivo, così senza meta né luogo vero. E invece il protagonista di questo andare, che poi è essere e raccontarsi, è la solitudine che sta meglio se ha un luogo.

Difficile parlarne davvero, chi la conosce non ne ha bisogno, gli altri ti sollecitano a metterci buona volontà. E invece la solitudine è quella sensazione che ti impedisce di lasciarti andare completamente, di dire una sciocchezza in più, di pensare così leggero che neppure pare, di fermarsi su una sedia lasciando scorrere le parole, o i silenzi, che tanto fa lo stesso, di frequentare il limite della veglia come un vedere senza guardare. E’ tutto questo e altro, insomma le sensazioni che ciascuno porta dietro come sa, e che nel mio pensiero erano il protagonista di una strada, di un luogo preciso, di un andare che essere lì perché non si sa come rapprendersi altrove. Perché la solitudine rende solidi come blocchi di ferro e insieme gassosi. Se guardi un parallelepipedo di ferro ti sembra leggero, ti chini per provarlo e il suo peso ti sorprende, fai fatica a prenderlo con le mani, alla fine, con fatica, lo sollevi e ti sembra già inutile averlo fatto. Non è quel che sembra, ma è ciò che è, eppure tu non sei quel blocco di ferro, però ora ne senti il peso. Anche se ti pare di essere un gas rappreso in una nuvola, qualcosa che sta in aria, che non afferra e non è afferrata. Questa è la solitudine. E quella stradina di Trieste con la sua libreria e il ristorante e il cameriere, è il racconto di tutte le domeniche pomeriggio senza amici, di tutte le letture senza comunicazione, di tutto il cibo mangiato per abitudine, di tutte le ore che hanno atteso qualcosa che si compisse e quel qualcosa non si è poi compiuto. Potrebbe essere una sala d’aspetto di piccola stazione il luogo, ma ormai non ci sono più, potrebbe essere un vicolo che conosci bene a Mantova, o un piccolo angolo di Roma, potrebbe essere ovunque. Ieri sera mi veniva in mente Kiev e la tristezza che vi ho visto. La tristezza è oltre la solitudine, si conoscono, ma non sempre vanno assieme, a Kiev c’erano entrambe. Perché Trieste? Forse per il suo essere sempre passato, altro che è avvenuto, eppure presente. O forse solo perché mi piace, è una città in cui vivrei perché  c’è il mare e i triestini sono allegri per combattere la solitudine che hanno dentro.

La solitudine è una turista provetta, una buona compagnia che ti segue ovunque, se a volte parla più forte è per attirare la tua attenzione. Come quella sera in una latteria di Alfama, a Lisbona, a mangiare baccalà tra mattonelle bianche e due signore anziane che canticchiavano il fado e alla fine s’è parlato in due lingue e si sorrideva. Oppure potrebbe essere quella strada di Buenos Aires, dove ti avevano detto di non andare, vicino a La Boca, e finché parlavi con il tassista hai scoperto che erano tutti genovesi e veneti rimasti poveri. Mi ha regalato un coltello, il tassista, e non ha voluto che gli pagassi la corsa, però l’ho ascoltato che cantava un tango di Carlos Gardel e alla fine ci siamo abbracciati.

Potrebbe essere ovunque, basta che la porti con te, l’importante è parlarle, stabilire i desideri reciproci, strapparle una sensazione positiva o almeno la promessa che qualcosa si proverà assieme e che da questa condizione per un poco, oppure per sempre, si uscirà. Chissà che significa non provare più solitudine, chissà come si vive semplicemente vivendo. Chissà. Non riesco ad immaginare una vita senza questa presenza, non so neppure se mi piacerebbe sempre. Quello che capisco è che questa vita potrebbe esistere, che altri la vivono, ma io non so che  cosa sia. E così convivo, mi tengo l’ironia per sorridere, uno scuotere del capo per non dare troppa importanza e capisco che questa presenza spinge a trovare qualcosa che manca, che è un motore, allora mi pare che non ci sia un’età dell’innocenza in cui essa non c’era, ma che ci sia sempre stata e che l’importante è viverci bene assieme. Ecco perché una jota bella calda stasera spazzerebbe via la bora, allungherebbe le gambe sotto il tavolo, alzerebbe un bicchiere di refosco in più, fino al sonno. Poi domani si comincia.

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Prima di venire a questo colloquio, pensavo a quanto diverse sono le nostre giornate e le vite che conduciamo da qualche parte, e a quanto servano le sensibilità comuni, il modo di vedere le cose e ciò che siamo per comunicare, mettere assieme l’umanità, il bene, l’amore. Poi ho pensato che non era questo il motivo per cui ci vedevamo e ho cercato di darmi un tono. 

Se devo dire le competenze che ho, posso iniziare dicendo che so fare il pane e cucinare. E che mi piace il cibo. Non troppo perché mi sazio presto, e questo magari indica qualcosa, però mi piace mangiare. Ma se devo parlare di ciò che faccio, è meglio si sappia che i miei giorni sono fatti di gioie immotivate, di problemi, di stanchezze, di abitudini a cui tengo, di scrittura. E in più mi piace guardare le persone. Non tutto il tempo, ma quando mi viene.

Se devo quantificare l’abilità linguistica, mi piacciono le parole, parlo il necessario, eppure mi sembra troppo. Mi faccio domande, coltivo dubbi e mi aspetto che i frutti diano certezze, così non faccio quello che dovrei per star bene. Quindi ho un linguaggio impreciso e questo credo dipenda perché usiamo troppo le parole senza attribuire loro il significato che hanno, come ne avessimo paura. Io non ho paura delle parole, temo che spiegare troppo serva a cambiare i significati.

Mi capita spesso di essere stanco e mi nego per stanchezza troppe cose: il cinema, il riposo, la semplicità. Credo che la cifra di questi anni sia la stanchezza, non solo la mia, ma che una gigantesca stanchezza avvolga il mondo e da cosa questa derivi e’ oggetto della mia ricerca. Forse deriva dalla complicazione, dalla necessità di capire anche quando si è stanchi e non si ha voglia. Però le cose comunque si fanno, il mondo procede, i negozi si aprono, gli uffici e gli ospedali funzionano. In fondo della stanchezza che genera abbandono abbiamo cognizione e visione, nelle persone che escono dalle case e pian piano dormono per strada, negli edifici che prima perdono i vetri a sassate e poi le porte e poi tutto si confonde e cade. Quelle sono stanchezze senza uscita, le nostre si fermano alla soglia del sonno e si raccontano che con una buona notte tutto diventa più piacevole. Anche la fatica. Ecco, mi interessa questa stanchezza, che è pure la mia, capirla per risolverla.

Ho accumulato anni. Anche vita ho messo assieme. Ad un cero punto mi sono accorto che il tempo fuggiva in fretta, che natale era appena passato e già finiva l’estate. E’ stato allora che ho rallentato. No, non voglio dire che mi sono fermato, ma ho cominciato a guardarmi attorno e mi sono visto come un colapasta che mette esperienze liquide e non trattiene nulla, così ho cominciato a discutere gli obbiettivi vedendone l’inconsistenza: che obbiettivi erano se non lasciavano traccia. Volevo che da un lavoro, da un sentimento, da una passeggiata restasse qualcosa che mi cambiava. Però lo facevo tra me perché provando a dirlo agli altri mi dicevano: il mondo è così che ci vuoi fare. Ho capito che era un problema mio, perché per me era importante e discutendo la fatica e il suo senso, ho discusso il piacere. Che non era la soddisfazione o la sospensione della mia vita usuale, no, era quella pienezza che durava perché le cose fatte erano quello che mi assomigliavano. Era il piacere altro, quello della psicanalisi, che mi sembrava una costruzione, qualcosa che faceva comodo a qualcuno, che nascondeva qualcosa, come se il piacere si portasse dietro un qualcosa di cui vergognarsi. Ma questo qualcuno mica sapevo chi era, solo che con questo si dovevano fare i conti. Ecco questo è un work in progress, ho detto bene? Qualcosa su cui sto lavorando. 

Insomma vivere, lo si deve scrivere in un curriculum, è equilibrio difficile, come è difficile tenere la schiena ritta se si è alti. Anche se si è meno alti, è difficile, non c’è differenza, ma io sono alto e conosco il mal di schiena per cui so di cosa parlo. E tenere la schiena dritta è necessario, sempre. Anche se si lavora o si fa all’amore, la schiena dritta è la condizione per vedere le cose che accadono, sentirle nostre, non avere paura. Insomma è meglio che si sappia, io alla schiena dritta tengo molto. 

Eppure queste note non sono sincere perché non dico che sogno assai, e non di rado mi chiedo quale sia il confine tra l’immaginazione e la realtà. Mi rendo conto che la realtà è ciò che viviamo, ma la viviamo noi e quindi è un po’ diversa da quella di chi mi sta accanto. Così dobbiamo cercare le cose che ci accomunano per parlarne. Vogliamo comunicare, non essere soli. Odiamo essere soli. Anch’io faccio davvero fatica trattare la solitudine, anche se non lo odio, non ritengo sia colpa di qualcuno, credo dipenda da me, da come cerco di farmi assumere. In fondo se scrivo questo curriculum è perché questa è una domanda di assunzione, e un po’ tutti chiediamo di essere assunti, di essere importanti per qualcuno, di mettere insieme le nostre vite in un progetto. E vorremmo interloquire con quel progetto, dire la nostra, motivare la fatica. Anche quando amiamo succede questo, vorremmo avere un motivo per condividere di più, per oltrepassare qualche limite, ma questa è un’altro capitolo del curriculum, se vuoi ne parleremo a parte.

Certo è che i giorni passano e il curriculum si allunga e così lo accorcio, metto dentro quel che mi pare importante. Lo sai che cerco la leggerezza nel tratto del vivere? Che poi dire tratto del vivere è una cosa da esteti e invece io penso sia il togliere quello ce c’è in più, un lavoro per precisare, mettere nitidezza, vedersi meglio. E’ una questione personale, per questo non l’ho evidenziata subito, se ci si presenta per essere assunti non si può dire che si cerca la leggerezza, pare contino altre qualità nell’assunzione: l’intelligenza, l’affidabilità, la precisione, le lingue. E’ un po’ azzardato dire che vorrei avere le virtù di un palloncino rosso. Ecco non si può dire, per cui non tener conto di questa parte del curriculum, pensa che ho fantasia e a volte la fantasia non guasta anche nelle organizzazioni grigie. La vita se non la si controlla si presta a diventare organizzazione.

Poi mi piace l’aria e il sole, camminare. Chissà se conta qualcosa. 

Per me conta, e magari lo capirai anche tu, perché adesso pensi che lavoro, vita, sentimenti siano separati e invece fanno parte della stessa domanda di assunzione. Sai io credo, che in fondo non si vada mai in pensione. Finché ragioniamo almeno e che una assunzione la cerchiamo sempre, magari tra eguali. Proprio eguali no, facciamo simili. Facciamo una cooperativa, che dici?

nero e bianco

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Porti il farfallino come gli architetti e i giocatori di biliardo professionisti, lo sguardo interroga e ragiona. Guardo i tuoi occhi nocciola: hai le mie stesse rughe e anche gli anni si somigliano. Quand’è stato che ci siamo conosciuti? Ricordo che bevevi thé e lo correggevi con ruhm e noi caffè e grappa o stock 84. Già questo ti faceva strano. Poi eri ambidestro e questo aumentava la confusione perché la penna passava da una mano all’altra continuando a scrivere.

E parlavi di luoghi, lo fai anche adesso, e il paesaggio prendeva forma. Parlavi di persone, non di fatti. Sembrava non accadesse mai nulla, e magari c’era una guerra, una carestia, ma come in tutte le cose, quando si è dentro non si vede ciò che accade davvero. Abbiamo bisogno dei giornali, della televisione perché ci spieghino le cose viste dall’alto, magari a casa, perché quando sei lì, semplicemente accade. Come quella volta che sparavano a 150 metri e guardavamo passandoci a fianco, e anche chi ci abitava, guardava, oppure anche no perché dietro l’angolo non correva nessuno e la vita sembrava continuare indifferente. Le tue erano cartoline con persone, spesso in bianco e nero, e ti seguivo giocando sui grigi. Sono espressivi i grigi, peccato che ci sia tutto questo colore adesso, le rughe con i grigi vengono benissimo.

Mi hai insegnato a cercare i visi, le persone, non la gente. Senza dirlo, solo descrivendoli nei tuoi racconti. Da allora non ho più smesso. Ossia i visi li guardavo anche prima solo che non era educato fissare le persone. Così mi avevano insegnato ed era tutto un guardare di sguincio, un osservare rapido che faceva perdere l’interesse vero: ciò che ci stava dietro a quel volto. Le persone pensano che chi guarda il volto stia giudicando, beh, è solo una piccola parte del guardare, certamente la meno importante, l’interesse vero è cercare di capire cosa ci racconta chi è guardato, anche se non ha voglia di raccontare, perché in fondo fa bene a tutti comunicare, dirsi qualcosa anche se non si sa la lingua. Certo serve discrezione, pudore, ma questo si avverte subito se c’è e se ti accettano.

Di questo parlavi allora, adesso molto meno, troppi visi accumulati forse. In fondo ci siamo imparati per caso, giocando, più che con la serietà. Da quello che sai, ho capito che di quello che conosco, quasi nulla è utile in senso economico. Tu almeno tracciavi mappe, anche se non ho mai ben capito che lavoro facessi davvero. Di certo andavi in giro, e qualche scopo ci sarà pur stato. Io so cose inutili e preziose solo per me, accumulo nozioni e fatti che non servono, mi perdo in particolari, e in sogni che fabbrico da solo, non ho bisogno che qualcuno me li presti, e con questo bagaglio viaggio. Però non mi spiace di continuare a sommare inutilità. Ho imparato che l’inutile ha un valore immenso per noi e niente per gli altri, e che per quell’inutile saremmo disposti a fare a botte.

Però bisogna viaggiare leggeri, un farfallino o una polo, non importa, ciò che conta è la stranezza che ci porta a non sovrapporre ciò che si vede. Nulla è eguale, nessuna persona s’assomiglia in fondo e tutti abbiamo le stesse regole per muoverci, per pensare. Ecco pensavo che andare e guardare i visi delle persone fosse un modo per rompere le regole, immaginare la ricchezza della diversità. Ne abbiamo discusso a lungo, la diversità si moltiplica nonostante noi, è inarrestabile e l’uomo cerca di catalogare, trovare somiglianze, addirittura punta sulla fisiognomica. E’ la diversità che ci riempie, che si racconta, come le cartoline che ci mostravi, impalpabili e vive di un solo particolare, tutto il resto fermo. Come portare con noi da un luogo chi ci vive e lasciarlo lì. E ciò che si estrae è il nero e il bianco, ciò che si sente e diventa noi.

Noi, non ricordo.