era la sera del 5 giugno

In evidenza

Era la sera del 5 giugno, un sabato. Ero in Sardegna, nel Gennargentu. Da ore trattavo con i sindacati per definire le modalità di riduzione del personale senza che ci fossero problemi per i lavoratori interessati. Un prepensionamento allo stesso importo stipendiale, restando in organico, e il passaggio graduale alla pensione. Se il lavoro fosse aumentato qualcuno avrebbe potuto essere richiamato al lavoro, ma era una possibilità remota. I migliori, gli specialisti che servivano per ristrutturare davvero, se n’erano già andati e bisognava riqualificare chi era rimasto. La trattativa durava da due giorni, sempre nel pomeriggio tardi fino a notte, tutto era chiaro, ma non si chiudeva. Come gestore responsabile del progetto ne sentivo il peso, ristrutturando c’era un futuro, tirando avanti a contributi regionali ci sarebbe stata la chiusura, magari un anno dopo, ma lavoro stabile in quell’azienda non ce ne sarebbe più stato. Ci sono rituali nelle trattative. Di qualunque tipo siano. In fondo è un giocare a rimpiattino con la coscienza che ci saranno prezzi da pagare. Una buona trattativa si conclude con una moderata insoddisfazione di entrambe le parti, si deve sentire che si è un po’ perso ma che il buono e il giusto è stato preservato. Le sospensioni, i rinvii, le consultazioni servono a questo, ad affinare il punto dove ci si incontrerà.
Alle 21 fu chiesta una sospensione, un’ora, penso avessero fame.

Nei giorni precedenti, avevo fatto un lungo viaggio solitario tra i monti, in mezzo a macchie di sughere rosso fuoco ormai prive di corteccia. Erano nudità affascinanti, eppure sollevavano la pena di chi era stato derubato di sé. Forse rallentavo troppo per guardarle, così, dopo un controllo dei carabinieri, mi ero fermato sotto una quercia enorme ancora integra. Attorno c’era un verde a balze, il silenzio, un rapace che cercava preda e le macchie scure dei boschetti pieni di uccelli. Più lontano il riflesso di un lago e la mia meta di lavoro. Non ci pensavo e fino a sera ero libero, fuori dal tempo. Restai finché arrivò un gregge con la sua festa di cani, asini e agnelli. Due parole con il pastore, un pecorino tolto dalla bisaccia e l’affetto dell’ospitalità di uno sconosciuto. Aveva le mani forti e abili, annodava e costruiva recinti per la notte. Quando ci salutammo non volle essere pagato e prese il mio posto sotto la quercia, lanciando fischi ai cani, poi estrasse una specie di flauto e cominciò a suonare. Lo sentii dall’auto, lui era in compagnia, io ero con i miei pensieri. I giorni seguenti erano trascorsi tra impianti chimici e incontri e poi la trattativa. Così eravamo giunti a sabato notte. Nell’ora di pausa avevo fatto a tempo a telefonare a casa, a mia Mamma. L’avevo ringraziata ripetendo il bene che sempre ci ha unito.

Quando riprendemmo, il porceddu e il vino di Oliena, avevano alzato i toni, c’era forza nella stanza, persone abituate a resistere un minuto di più dell’avversario, ma io non ero un avversario e neppure chi era con me lo era: se non si trovava una soluzione non vinceva nessuno e l’azienda avrebbe chiuso.
Continuammo fino alle 23.30, poi fu chiesto un rinvio, io avevo mostrato e discusso i lucidi per almeno tre volte, cifra per cifra. Si era corretto assieme lo schema, rifatti i conti, mutato qualche turno, chiusa una porta inutile, recuperati 4 posti di lavoro, ma non era tempo di chiudere.
Ci salutammo e presi la strada dell’albergo, rifiutando la cena.

Avevo voglia di star da solo, di immergermi in quella casa di allora, vicino al canale. Ho sempre immaginato che fosse caldo e le finestre aperte sulla strada, la notte era piena ma alle 3 del mattino si sentivano già cantare le allodole. Mia Madre aveva la camicia candida, c’era mio Padre, mio fratello che dormiva, mia Nonna, la levatrice. Mi hanno detto che non c’ho impiegato molto ad uscire, che ero rosso in viso e che ci volle uno sculaccione per farmi piangere. Mi furono unte le labbra col vino e succhiai il dito, poi mi accoccolai tra le braccia di mia Madre. Ricevetti baci da tutti, mio fratello si svegliò e chiese chi ero, così ebbi anche un nome. Poi mi addormentai, la stanza pian piano si vuotò e arrivò il primo mattino.
A questo pensavo in mezzo ai monti e bevendo il vino rosso con l’albergatore, che mi aveva atteso, mi augurai buon compleanno. Gli auguri di chi mi amava erano già arrivati, adesso toccava a me volermi bene.
Il giorno dopo era domenica, trattammo fino a lunedì notte, ma non si concluse, perché la vita a volte va così ed è comunque buona.

sono le sei

In evidenza

Sono le sei. La luce filtra dalla finestra posta nella stanza alla fine del corridoio, lo percorre allegramente e illumina, appena più intensamente la porta aperta della stanza in cui dormo. Un tempo avrei aperto gli occhi per la variazione di buio e mi sarei fermato, indeciso tra l’ultimo frammento di sogno e la coscienza che riaffiorava. Mi sarei alzato dopo poco, avrei riempito la stanza di luce e mentre il caffè saliva lento nella Bialetti, cinque gocce d’acqua sul fondo perché non bruci il primo affiorare, mi sarei goduto i tetti e il primo affaccendarsi di rondini tra le case.

Mi sono immaginato spesso il giorno prima. Il giorno o l’ora che precede qualsiasi cosa. Oggi è il 24 maggio e nel 1915 il forte del Verena, alle 4 del mattino, apriva il fuoco contro i forti austriaci dello Spitz e del Verle sul Vezzena. Più o meno alla stessa ora, la flotta imperiale austriaca bombardava Ancona, Iesi, e la costa adriatica. Cosa pensavano le persone che erano nei paesi vicini ai forti, oppure nelle città che sarebbero state bombardate? Proseguivano la vita di tutti i giorni, avevano bambini che andavano a scuola, vecchi in casa da curare, lavori che assicuravano il necessario e lo proseguivano. Tutto era normale, prima e attorno all’evento, poi le cose gradualmente mutavano. Ho cercato di immaginare cosa facesse mio Papà, nato da poco, in una città tedesca e arrivato in Italia, cosa pensasse mio Nonno e la Nonna e credo che nessuno di loro fosse distante dalle cose di tutti i giorni. Questo è il futuro, quello che può accadere per l’addensarsi dei presagi e delle condizioni che li rendono reali, ma anche ciò che rende gli uomini dipendenti da altro da sé. Così guardo ciò che sta attorno e penso che il suo fulgore, il suo nascondere i particolari al disattento, il vivere in quell’universo parallelo dove ciascuno di noi colloca la sua personale vita fatta di attenzioni e di affetti importanti, sià qualcosa che ci appartiene e insieme ci determina.

Cogliere i segni, leggerli, interpretarli a priori, non a posteriori ché a quelli son buoni tutti, come a dolersi di non aver capito o trascurato, è proprio questo immergersi in sé e godere dell’attimo, vedere ciò che può essere e insieme vivere profondamente. Sono le sei e la giornata si apre oppure ancora sonnecchia cercando un altro sogno da mettere in cantiere per tirare a lungo. Alzarsi e prendere possesso di sé nel giorno, essere nelle cose che non solo si ripetono, ma sono parte dell’abitudine che si è naturalmente costruita per leggere la propria giornata oltre i segni e dentro i segni, oltre l’umore che muterà se sarà preceduto da un meditare sul bello che abbiamo creato attorno. Alzarsi e dire la propria libertà dal tempo, da ciò che altri creeranno per noi, perché la vita è uno sguardo che apprende, che fa proprio il tempo, che rende importante ciò che non lo è e che derubrica dalle scalette della nostra concezione del mondo ciò a cui non possiamo arrivare.

Sono le sei, penso ai tantissimi uomini che ciascuno nel loro mondo fanno, dormono, pensano cose così diverse che solo il pianeta può tenere assieme e il cielo interpretare, sono i mondi paralleli, ciascuno con storie vita e bellezza proprie e mentre penso alle loro, guardo ciò che mi viene dato e sono grato.

maggio quasi giugno

In evidenza

Mettiamo che in una qualsiasi sera di maggio, con un caldo anomalo, quasi da giugno, il verde con la luce radente diventi sontuoso, che le siepi comincino a profumare e che gli alberi siano carichi di foglie pulite. Una serata che attrae fuori di casa e mentre cammina, un po’ per consapevolezza e un po’ per intuizione, il nostro protagonista si accorga, che molto di quanto ha fatto, pensato e vissuto come occupazione principale in una infinita sequenza di giorni, non era poi così importante. Pensa che fare programmi non è il massimo dell’intelligenza, che le persone, anche quelle care, sono libere di muoversi come meglio credono e secondo le loro vite e che i pensieri per incontrarsi, hanno bisogno di essere comunicati con verità e innocenza.

Cammina tra il verde splendente che gli ricorda altre sere ormai passate così tanto da non essere ben collocabili, allora, giustamente, il nostro protagonista respira a fondo. Come se così facendo i pensieri ritrovassero almeno l’ordine cronologico, se non quello dei sentimenti e delle delusioni. Anzi, pensa, che avere più tavole che mettano in ordine, il quando, il come e l’intensità del sentimento consentirebbe di avere una visione della propria vita, delle connessioni, forse anche degli errori naturali, della misura del tutto e del trascurato.

Perso nel fascino di questa molteplice tavola del vivere e del sentire, si siede vicino al fiume che ha visto in ogni età della sua vita e si accorge che non riconosce la città in cui è cresciuto, ovvero, riconosce i monumenti, le pietre, i percorsi, ma non conosce nessuno di chi gli si muove attorno. Questa sensazione si fa più forte e gli sembra che una immane commedia sia in corso, che i partecipanti/attori ne siano consapevoli, ma che gli spettatori non lo sappiano.

Passa un volto noto. Saluta e parole senza sostanza si scambiano tra i volti. Da un sorriso riceve un sorriso e gli pare di vedere le parole, trasformate in lettere, che escono e si sciolgono prima di arrivare: un mucchietto di impalpabile cenere di conversazione che li unisce. Il mestiere lo aiuta per troncare con le frasi fatte usate all’uopo la conversazione che vorrebbe prolungarsi, l’interlocutore non ha fretta, lui ha necessità di silenzio e di guardar meglio ciò che accade. Ragazzi si raggruppano, scoppi di voci, si formano e si sciolgono brigate. La sera avanza, sanno dove andare, lui si chiede se tornare perché la rappresentazione non solo non è finita ma non ne ha ben compreso la trama e il senso.

Ora è la notte che fa paura. La notte dei sentimenti, delle prospettive. Ricorda che basta ripetere gesti semplici per tenersi assieme, ma tenersi assieme non è vivere. E lo sa. Si guarda attorno e la piazza si sta vuotando, lungo il fiume si sono accese le luci e tanti piccoli chioschi mescolano alcolici, tolgono la schiuma alle birre. Montagne di patatine arrosto, profumo di salsicce, sembra una città tedesca però priva delle tavolate bagnate di birra, delle canzoni ritmate con i bicchieri. Il profumo è quello dell’acqua morta, il verde, quello delle erbe che marciscono nell’acqua bassa. Dovrà camminare per immergersi nei giardini, per sentire il profumo dei tigli, delle siepi di gelsomino, qui vivevano altre vite che non ci sono più. E’ la sua città che non lo riconosce, adesso capisce il senso di qualche scena a cui ha assistito e allora ricorda NIetsche: non guardare troppo l’abisso, altrimenti, l’abisso guarderà te.

Se qualcuno sa davvero cos’è la solitudine può parlare con il nostro protagonista, mentre medita camminando. La solitudine è il vuoto che aspira i pensieri e le speranze, le certezze e le illusioni. Riconosce le pietre e i portoni, le scritte antiche che nessuno è riuscito a cancellare, si è formata nella sua testa una mappa che gli dice dov’è senza l’ausilio delle vie, come ogni luogo fosse un appuntamento e un ricordo. Gli torna in mente l’idea delle tavole da sovrapporre con il tempo, il luogo e ciò che è accaduto in lui, a questo dovrebbe aggiungere ciò che non è accaduto fuori di lui, i fatti mancati, le occasioni perdute, le delusioni date e ricevute.

Ci penserà, intanto con un sorriso ricorda una cronaca ciclistica di tanti anni or sono:” un uomo solo al comando, è Fausto Coppi”. Coppi non era solo, quella volta: aveva una meta e l’Italia che gli facevano compagnia. E’ stato molto più solo quando per seguire il cuore, l’hanno messo sui giornali, processato, isolato. Il nostro protagonista, che non è un campionissimo, pensa alle sue vittorie e alle sue sconfitte, pensa a Coppi e a Pantani, così grandi, così diversi eppure simili, troppo simili alle parole scambiate prima nel ricordo di troppe persone.

Pensa a cosa si concederà stanotte. Il ripasso di Puer Eternus di Hillmann, un film, una visita ad una persona gradita che lo riconosca davvero, una lettura a casa, una pizza?

la furia

In evidenza

Alle volte mi prende una furia silente. Fuori non si vede nulla, forse si scuri e il volto è s’accorciano le parole ma i gesti hanno la gentilezza automatica di chi li ha appresi per tempo. Scomporre la furia non è facile, la furia è un blocco unico che si alimenta di innumeri rivoli, fatti, circostanze, che vede la realtà come i modificabile e priva di giustezza e ragione. Per questo rischia di diventare rabbia e di non confluire nell’azione tranquilla che scaturisce dal ragionamento, eppure basterebbe pensarci guardando in modo diverso, uscendo dagli stereotipi che vedono noi e ciò che facciamo come determinanti della vita per capire che ciò che ci scuote sta scuotendo la realtà e che essa troverà azioni e modi per sorprenderci, per porci dinanzi ad un nuovo che non pensavamo. Le strade che abbiamo di fronte sono il lasciar accadere e capire intanto cosa non va del nostro vivere, oppure il tentare di modificare le cose partendo da uno dei rivoli che hanno generato la furia. Spesso si scopre che ciò che ci indigna è distante e accadrebbe comunque ma che è anche il prodotto di un mondo imperfetto, ineguale, ingiusto, prevaricatore. Questo mondo è così, lontano dalla perfezione o anche solo da un moderato danno nei confronti della maggioranza delle persone e ciò che per noi è giusto per molti altri è indifferente. Allora con chi dovremmo prendercela, chi dovremmo modificare se è proprio la somma delle furbizia, arroganze e l’esercizio del potere che rende i eguali le persone, causa sofferenze, piega le vite in ambiti così angusti da far desiderare sempre la libertà. La furia è la mia impotenza, l’indignazione è il mio giudizio anche se non voglio giudicare ma capire, l’inazione è l’impotenza dello spirito che si arrende di fronte alla violenza della diseguaglianza perseguita come valore e dimostrazione che non siamo eguali. E invece penso che siamo eguali e differenti, eguali per nascita e opportunità che devono essere date e differenti perché la somma delle visioni penetrarlo la comprensione profonda del rapporto tea noi stessi, il mondo, la società che viene costruita. Nulla è dato per sempre e ognuno può ricevere e dare, se la mia furia si quieta, potrò capire, procedere, sentire che la strada è giusta, almeno per me. E nel sentire tutto quello che non va aggiungo me stesso perché solo la calma e il credere in ciò che si fa sgretola l’ingiustizia.

se non è complicato non riesce bene

In evidenza

Se non è complicato, non riesce bene, eppure la semplicità è a un passo, chiara come un navigatore appena tarato. Invece scartafascio portolani, cerco mappe
rosicchiate, rifiuto per indole e saturazione e non appartengo, non più, mi dico. Davanti ci sono passi e strada, pensieri, sensazioni, colori, frasi sottolineate, linee diritte e sghembe, architettura interiore che diventa segno e tempo.

Dichiarato l’ambito e la direzione, il necessario preventivamente va detto, perchè ci fu molto tempo diversamente confuso, le ferite sanguinavano e s’infettavano. Per quanto vale a sanificare ho solo seguito la passione, il
desiderio, la necessità d’essere amato. Può bastare?

Ora molto è più chiaro, non ho più alibi di
peso da sciorinare e sono un pessimo individuo, anche se non basta dirlo per tenere a bada i danni allegri che si compiono leggendo e camminando. E neppure ad evitare gli scroscio di chi scuote il capo comparendo. No, non basta, perchè posso essere redento, cambiato, fatto innamorare: si pensa mai che chi cambiamo forse poi non ci piacerà ancora e che era la differenza, tenue o forte, la ragione dell’attrarre che interrogava e si trasformava in similitudine tra eguali?

Ho vissuto dentro romanzi scritti malamente, non credevo ai miei occhi, ai miei pensieri, mi affidava alla volontà vana che non piega il corso delle cose, , tutto sembrava ricondursi a pochi fatti semplici. E tali erano, come ciò che sorprende ed è accanto, quello che ad occhi chiusi persiste, l’infinita varietà del vivere che non chiede consenso, che non è al nostro servizio, ma dona bellezza e intuizione fino a diventare altro e anche noi.

E’ vero, ma quanto male fa la semplicità che riduce tutto a un’equazione, in fondo complico ancora le cose per fuggire dal dolore. Almeno un poco. E dar spazio alla vita, che vorrà pur darsi da fare nella sua evoluzione positiva, per indicare la strada.
Voler bene e prendersi cura, bastare solo agli amici: hai idee chiare amico mio, hai capito molto della vita, a me non è accaduto e ogni volta mi sono detto che non bastava rispondere alle domande, dare ciò che si può, si doveva mettere in conto che ci verrà chiesto ciò che non è possibile dare. E li inizierà la sofferenza. Sono appartenuto, mi sono sostituito, ora non più e lascio entrare solo chi voglio, dico le regole della casa, indico con cortesia, la porta agli intrusi. Sono regole larghe, ma rispettose e non è da poco accogliere e stare al proprio posto, ma che dire oltre la verità?
In questi giorni d’incertezza, si scomplicheranno le cose, tutto diverrà semplice.

Lo spero e vorrei. Molto.

my way

In evidenza

Mi ricordo bene quando l’ansia di provare era forte, quando tutto era a disposizione e tutto meritava d’essere assaggiato. Allora il tempo non bastava mai e mi sembrava che essere coincidesse con esserci. E sentire fosse qualcosa di fugace come la felicità, anzi che sentire spesso coincidesse con l’essere felice. È durata molto a lungo questa sensazione e motivava un correre senza fine, tanto che, a volte, mi trovavo stremato da continue sensazioni. Il tempo era una creatura che vivera libera in me e non trovava soddisfazione, suggeriva che ciò che non provavo sarebbe stato definitivamente perduto.

Qui ci si può aspettare una conclusione che arriva a una nuova consapevolezza, svolta e continua in altro modo la vita cambiando tutto ciò. In realtà questo sentire è mutato per suo conto e quando non lo so dire perché non mi sento di essere diverso, ossia lo sono ma non per qualche motivo che non sia la naturale evoluzione del mio percorso. Non sono particolarmente stanco di una vita che desidera e neppure ho smesso di sentire, anzi direi che ho raffinato questa capacità. Quello che è mutato è il rapporto con il tempo. Ho sempre pensato che c’era tempo e non poteva essere diversamente nella spinta a fare che non esauriva i desideri ed era incapace di escludere ciò che non era possibile in quel momento, però era un aver tempo ansioso mentre ora c’è calma e il tempo è cosa mia. Se mi guardo attorno, la mia vita è così, con le persone che hanno sempre da dirmi molto più di quanto dicano, con l’interesse per il profondo che fa coincidere quello che provo con quello che mi porto dietro. Non è una collezione di sensazioni, ma un cammino dell’essere a cui regalano molto alcune persone, altre in misura minore, con una graduatoria, non del sentire, ma del condividere. E condivido senza mettere limiti di tempo. Non uso volentieri gli avverbi di tempo assoluti, i mai, i sempre, forse perché so che, molto spesso, questi rassicurano chi li pronuncia. Rinuncio a questa sicurezza perché ho fiducia in ciò che accadrà, ormai mi conosco un po’ e so che il mio essere fedele a ciò che sento è una costante della mia vita. Anche nel mutare, nel pensare diversamente, ciò che conta non viene scartato e resta ben radicato per tenere solida la mia casa.

fragilità nuove

In evidenza

Penso che la fragilità interiore, ed esteriore, aumenti. Che si copra, a volte, di aggressività, mentre in altre occasioni sia infermità che piega l’anima in sé e le impedisce di volare, di sorridere, anzi le fa sentire il peso di un mondo che s’abbuia.
Penso che tutto questo avvenga senza comunicare e che a cresca la solitudine, la difficoltà di avere una comunicazione profonda. Forse non è così ma è la sensazione che leggo nella violenza insita nelle immagini, apparentemente innocenti, nelle parole che vengono ritrattate o relativizzate e poi ripetute sino a non distinguere più la realtà. Non la verità che è un processo che si svela ma la realtà, ossia ciò che percepiscono i nostri sensi e la nostra mente interpreta. Nel digerire ogni cosa aumenta la fragilità e la violenza e non c’è bisogno di repressione ma di condivisione etica, di sentirsi nella stessa condizione precaria, di lottare per lo stesso cambiamento sociale. Leggevo oggi la percentuale di anidride carbonica in atmosfera, siamo a valori che superano di molto le 400 ppm, questo indica una irreversibilità progressiva del degrado ambientale che per noi sarà un dato statistico, per i nostri figli e nipoti, una realtà che renderà più fragili le esistenze.
A questo si somma una tensione crescente tra i popoli indotta dalle volontà di potenza, dalla mancanza della percezione che proprio le armi rendono più necessaria la tolleranza e la comprensione della differenza. Un mondo di eguali parte dalla giustizia e dall’equita per stabilire rapporti profondi tra modi diversi di sentire. Tutto questo evidenzia l’umano prima delle idee e rende compatibili le diversità, così si può stare assieme, meno fragili, diversi, sicuri che saremo orientati ad affrontare assieme i problemi di sussistenza della specie. Il contrario di questo è violenza, sull’ambiente, sugli uomini, sulla bellezza, sui deboli, sulla crescita comune interiore ed esteriore. Siamo diventati vecchia plastica, apparenza che si decompone e si disfa alla luce, questa è la fragilità che percepisco e siamo ancora a tempo per mutare, ma non è possibile farlo senza pagare un prezzo che non tocca le esistenze, anzi le rende migliori, è la volontà di dominio che deve pagare il prezzo, l’economia di rapina, la glorificazione della diseguaglianza. In cambio c’è vita e bellezza, rispetto, futuro, questa è l’alternativa che vedo dinanzi.

silenzi per fare la differenza

In evidenza

Avremmo bisogno di una giornata di silenzio della cultura, della musica, del teatro, delle analisi e delle discussioni sulla realtà,. Privati dalla lettura, dal racconto, dalla filosofia, dei commenti su quanto è spirito, bellezza, occasione di pensiero. Tutto questo per un giorno intero, per far capire quanto conta la cultura nelle nostre vite. Sarebbe un silenzio terribile, infarcito di notiziari, di commenti su una realtà priva di analisi che non sia il proprio evolvere, un listino di borsa che non finisce ed è privo di sogni, di aspirazioni, di difficoltà. L’uomo sarebbe solo nella sua condizione di non poter comunicare il pensiero che devia, la bellezza che solo lui nota, il sentimento che cerca conferma in altro sentire. Una condizione di solitudine assoluta, perché anche chi non legge, non ascolta musica, non va a teatro o a vedere un museo è protetto dalla cultura che lo circonda e gli parla e il suo silenzio lo lascerebbe privo di ogni protezione da questo mondo che egli stesso ha reso muto. Una proposta difficile ma necessaria e rivoluzionaria per far capire quanto davvero conti la cultura per vivere, per far emergere la verità e la libertà, per sconfiggere il nero del relativo che toglie la luce e costruire una società più giusta.

il poco, quasi niente, che per me è molto

In evidenza


Sai, volevo fare altro, usare il mio tempo per costruirmi piano. Divagare. Stendermi sulla spiaggia nel tardo pomeriggio, quando la sabbia non è più così calda e la sera viene in fretta. Dopo l’acqua genera una luce fioca e ancora si vedono i pesciolini guizzare. Se entri nell’acqua ti girano attorno alle gambe, fiduciosi. Mi sarebbe piaciuto scalare più montagne, leggere molti libri che erano utili solo a me. Perdere tempo senza sentir colpa e amare di più le persone che m’hanno riempito d’amore. Mi sarebbe piaciuta l’inutilità operosa, quella che porta fuori la stranezza e la fa restare al passo come i cani addestrati bene. A Caccioppoli venne l’idea di portare a spasso un gallo e lo fece, perché il regime fascista considerava poco virili gli uomini che uscivano con un cane. Ma lui, il grande matematico, la stranezza l’aveva sempre con sé, solo che era come una ferita che non rimarginava e gli toglieva qualcosa che forse nemmeno lui sapeva.

A me fa aggio la memoria, le sensazioni, gli errori che hanno più evidenza delle cose buone fatte, la stessa melancholia che s’acquieta nel ricordo dei luoghi, nei sentimenti suscitati, negli amori.
Può essere strano chi è silente anche quando parla, chi ha familiarità con i luoghi che per lui riacquistano evidenza, per i sensi che rammentano, per chi ricorda e il passato torna ad essere il preparatore del futuro, una caldaia che ribolle molecole alla ricerca della loro combinazione e quindi del senso delle cose, dell’attenzione, dell’attrarre le proprie passioni a riva come in una pesca fortunata.


Da molto scrivo, ancora da più tempo leggo e cammino. Mi piacerebbe, ma solo un poco, esser letto fino alla comprensione però è più importante guardarsi attorno, attuare, toccare ciò che è scabroso e con pazienza diventa liscio. È più importante trovare ciò che è migliore di quello che si pensato e scritto, esercitare i sensi per dar forma alle cose, ai fatti che accadono. Tener nel giusto conto l’esperienza sino al limite del nuovo e come negli origami dar forma a ciò che pare altro e che per molti è solo carta.

Così si sono accumulate miriadi di rappresentazioni in forma di parola, sulla carta, in questi metaluoghi, su ciò che s’è poi disperso allegramente in onde elettromagnetiche e quanti di luce. Ma era solo voce e ogni parola, col tempo, cercava di precisare significato. C’è da esser contenti se con fatica ci si assomiglia. Almeno in parte, a volte piccola, a volte grande, perché ogni raccontare porta con sé un approssimarsi e un’attesa e trova un gemello, solo se si è oltremodo fortunati . Ma in fondo basta e avanza il comprendere e l’interlocuzione che prosegue un discorso.

Alcuni animali parlano alla luna oppure borbottano alle cose, per loro, i fatti sono narrati nel compiersi. Un delfino non racconta il nuoto e mentre vive l’esperienza la muta in emozione, nel timore del predatore oppure nel piacere di sentire l’acqua che gli scivola sul corpo e accelera la velocità sino a un balzo di gioia nell’aria. Quel balzo è la sua gioia e la nostra meraviglia, per noi resta un’emozione della singolarità, per lui un piacere senza tempo che si ripeterà secondo voglia. È più immerso il delfino nell’universo e nel suo scorrere, di noi che mettiamo un tempo alle cose. Cose che nulla sono se non un insieme probabilistico che si può scegliere se vivere e nutrire di sentimento oppure far solo accadere.


Uno degli scrittori di rete che sempre leggo volentieri, narra l’esperienza mescolando volontà, ricordo e presente, con un linguaggio che dà vita alle cose e mette in scena scogli, reti, vino e ciò che a tutti accade, ma filtrato nella sua sensibilità che aggiunge senso mutando i tempi e i significati comuni. La sua poesia è fatta di ricordo e di presente che premono sulla porta del futuro. E non è una semplice porta ma una barriera di legno spesso, scavato dalle intemperie che hanno scritto le loro storie da decifrare. Una porta rafforzata da borchie di ferro rugginoso, chiusa da grosse serrature, inventate da fabbri sapienti, allora aprire il varco significa scivolare nel nuovo che ha il sapore dell’antico vissuto e del pesce fresco appena cotto.
E il pesce e il vino portano a barche tirate a secco, dove la prua ha un antico colore che non si vergogna di mostrare a quello nuovo, così com’è, scrostato dal vento, dalle piogge, dal mare solcato, e tutto diviene protagonista e conosce la battuta e il tempo, allora la rappresentazione e il ricordo possono compiersi.


M’avvenne, durante l’ascolto d’un concerto, che la bravura del solista superasse la mia capacità di gioia interiore. Non sapevo come farla uscire costretto dall’immobilità del sedere, come si conviene nei concerti dove al più s’accarezza il mento o si stringono le mani. Eravamo distanti dalla conclusione del pezzo e volevo continuasse all’infinito ma anche che finisse perché la bellezza aveva bisogno di occupare tutto lo spazio sensibile. In questi casi, come nell’amore bisogna allargare l’anima, accogliere e non mettere difese e così ho lasciato entrare la musica come mai l’avevo sentita e lasciare che andasse dove voleva sino ad essere io stesso musica.
Lo stesso accade quando si vede un dipinto che ci illumina o si legge chi riesce a leggere il nostro animo senza conoscerci o, ancora, quando si mettono nel giusto ordine i significati e nasce ciò che assomiglia al sentire.
Questo fa pensare che la percezione profonda, la bellezza, siano un evento che raramente si può condividere, ma che è qualcosa che appartiene a chi la comprende e non oppone resistenza alla sua natura. O poco o tanto ci sarà ciò che viene generato e sarà dalla disponibilità ad accogliere che il tempo perderà significato e l’uno diverrà parte d’una continuità.

tra le pieghe del vero

In evidenza

Dai propri errori si impara, a volte, quelli degli altri si subiscono, sempre.
Eppure c’è la presunzione di chi ha un’ autorità, anche piccola, di non sbagliare. Mentre la moltitudine che si chiama pubblica opinione pensa che ripetendo opinioni altrui, di non causare danno con i piccoli assensi, con i silenzi che oscurano la realtà, che velano e la manipolano fino a non percepirne più il gusto, il profumo, la forma.
L’errore è la naturale ignoranza che possediamo, l’impossibilità di tenere nel giusto conto tutti gli elementi che compongono la realtà e ciò che si dovrebbe capire.
Quando studiavo chimica quantitativa, la teoria dell’errore veniva in soccorso, in qualche modo svelava il vero perché evidenziava la sistematicità insita negli strumenti e nelle procedure ma anche il compensarsi delle forze opposte che agivano sulle cose e proprio quel compensarsi, distinto e scrostato dalla superficie diveniva un indizio forte di ciò che agiva e mascherava il vero. Il risultato era lo stesso ma le dinamiche differenti e l’errore appariva.
In quel modo analitico di tener conto prima di emettere un giudizio, prima di una consapevolezza era contenuta una lentezza che metteva da parte l’azzardo ed era, nel suo essere vicina alla realtà, sostenibile in sé.
Se tutto questo lo si applicasse ai sentimenti, alla natura della comunicazione (anche amorosa) che conforma i rapporti e genera le cose si avrebbe, forse, una serie di mezzi silenzi, inframmezzati da parole pesate che esprimerebbero il dubbio e darebbero fiducia all’agire, perché se nulla nasce da nulla, il vero è fatica e comprensione profonda della realtà.
Ma il dubbio non è gradito, si vuole la certezza immediata e allora con il conforto di dati, di interpretazioni e autorevolezze costruite sugli errori occultati, sulle verità dette a mezzo, ciò che verrà detto sarà inconfutabile. Nei rapporti umani, nella politica, ma anche nell’ informazione che sceglie i fatti e li interpreta anziché mostrarli, abbiamo resuscitato il vaticinio e una pletora di pizie conformi che alla fine ci convinceranno che, non il loro affermare ma il nostro capire, è l’errore e così terranno intatta la ragione.
In fondo Guglielmo di Occam ci aveva insegnato a discernere e anche al chiedere se mi ami o no emergeva che non c’era via di mezzo, con la conseguenza che ogni spiegazione era superflua.
La risposta più semplice contiene più verità e se non ho la risposta che vorresti raccontami i tuoi dubbi, ciò che ti trattiene, ciò che è impossibile ma vero. Questo basterà e non sarà necessario che ci siano altre domande ma solo conseguenze, silenzi e rade risposte.