il tempo, le mattonelle, un tubo e molto d’altro

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scena prima

Un tubo dell’acqua, quello principale che collega il contatore alla casa, decide che la resilienza non è una virtù e si fessura. Un ruscello invisibile si fa strada sotto al pavimento del garage, trova la sua via verso un chiusino e lì scroscia allegramente. Chissà che avranno detto gli animali del sottosuolo di fronte a questa nuova meraviglia. Una cascata, finalmente ci hanno portato l’acqua corrente, è da molto che avevo fatto domanda ma nessuno mi dava ascolto. Un brulicare di certo si è spostato mentre, vorticosa, la rotellina del contatore girava giorno e notte. Se l’acqua va altrove, la casa ne è priva, o quasi, la logica porta all’ascolto, al pensiero che qualcosa sta accadendo nel sottosuolo. Che fare? Non è una domanda politica, anche se in parte potrebbe portare a considerazioni sull’economia e sulla rispondenza alle urgenze: si cerca un idraulico. Possibilmente un musicista dotato dell’orecchio assoluto, in grado di trovare dove la perdita si è originata. Tralascio le telefonate e le segreterie telefoniche, alla fine un amico mosso a pietà accetta di venire. E qui nasce la prima domanda filosofica a cui bisogna rispondere: dove si trova il punto di attacco della condotta principale con l’impianto della casa ed esiste una chiave d’arresto che possa isolarla dal flusso che sta deliziando gli animaletti del sottosuolo?

Il tempo passa e l’acqua scorre, le indagini diventano convulse, disperate, sconsolate. Infine la pratica prevale sull’idea platonica di attacco generale. Con il mio desolato consenso, viene autorizzata la ricerca seguendo i tubi. Voi non sapete quante mattonelle si possono rompere per seguire un tubo, come si può scarnificare una parete, cosa sia l’autopsia di un impianto che di certo ha i suoi anni ma poteva vivere allegramente ancora per molto. Esistono degli attrezzi che facilitano il lavoro e pur nella responsabilità etica dell’esecutore sono efficacissimi nel seguire le tracce. Veri segugi i martelli demolitori, non hanno questo nome a caso. Incapace di sostenere questa nuova forma di scultura in negativo, il proprietario si allontana e si raccomanda al buon cuore dell’idraulico.

Dopo un giorno di ricerche l’araba fenice viene trovata e naturalmente era nel posto più impensabile che potesse essere immaginato: a mezza parete sopra un termosifone. Nel frattempo due carriole di mattonelle e detriti assortiti sono stati portati fuori casa. Il loro trattamento meriterà un discorso a parte. Trovata l’origine della vita, il resto prosegue in fretta e in meno di una giornata l’impianto è ripristinato, l’idraulico e il suo assistente, salutano, il proprietario ringrazia, immagina che si portino via i detriti accumulati nel giardinetto, ma ciò non è possibile perché bisogna consegnarli in una discarica particolare e lo farà il muratore che metterà a posto.

Scena seconda

Abbiamo l’acqua, le cascate sotterranee sono arrestate, gli animali ctoni saranno insoddisfatti ma protesteranno per loro conto al loro acquedotto oppure, indignati, cambieranno di casa. Oltre all’acqua, abbiamo due cumoli di detriti vari, Scilla e Cariddi, alcuni tubi a pezzi, manicotti vari, stoppa in notevole quantità, potrebbe uscirne una parrucca bionda, una verga di tubo da 3/4 di pollice di circa quattro metri, mezzo sacco di cemento idraulico e coperture varie per tubi in poliuretano (sulla natura del polimero mi affido alla mia vecchia scienza). Tutto questo se non assomigliasse a un deposito di detriti in una strada secondaria potrebbe essere un magnifico esempio di arte povera che ingloba parte del tronco del ciliegio. Un pezzo da collezione difficilmente riproducibile che se portato in Biennale potrebbe facilmente occupare un angolo di un padiglione come opera prima.

Questa è la mia visione, ma non quella dei coabitanti che premono perché dentro e fuori si passi dall’arte povera alla normalità delle pareti senza sculture alla Giacometti, alle mattonelle nei pavimenti e nella doccia, alla otturazione di alcuni artistici fori frastagliati che attraversano le pareti. Inizia la ricerca del muratore piastrellista. Questa specializzazione, ovvero quella del manutentore di muri, pavimenti, tetti, è diventata rara come quella dei filatelici o dei numismatici. Ognuna di queste persone, spesso non giovani, hanno una lista lunghissima di appuntamenti, minuti contati e devono trovare ciò che necessita al loro lavoro a disposizione. L’arte di chi ricostruisce è una rarità e ho avuto la fortuna di cercare la persona giusta solo per un paio di mesi. Ha fatto il sopralluogo, ha esaminato con occhio critico la vivisezione dei muri e dei pavimenti, mi ha fatto alcune domande a cui ho risposto con parole vaghe e comunque non soddisfacenti. C’erano mattonelle avanzate 20 anni prima del pavimento, e quelle per la doccia esistevano ancora? Poi altre piccole notizie su cui ero assolutamente impreparato, ovvero se e dove erano le prese d’aria del locale caldaia, anch’esso toccato dal martello demolitore, se esistevano altre linee acqua, ecc.ecc. Ha scosso la testa, chiesto una matita e su un pezzo di cartone mi ha scritto cosa dovevo procurare, la quantità e la pezzatura. Ha osservato qualcosa sulla possibilità di realizzare un mosaico con i pezzi di mattonella e sul fatto che gli idraulici dovrebbero fare gli idraulici e lasciare ai muratori il compito di demolire con il minor danno possibile. Insomma mi ha fatto capire che dovevano intervenire contestualmente e alle mie deboli considerazioni sull’urgenza, ha nuovamente scosso la testa dicendo quello che avrei risentito. Quando si fa così si può anche demolire la casa. Andandosene si è portata via l’opera di arte povera e questo mi è sembrato di buon auspicio.

Scena terza

Con il mio pezzo di cartone e alcuni campioni di mattonelle mi sono messo alla ricerca di qualcosa che assomigliasse ai desiderata del muratore piastrellista. Qui la vicenda prende un verso, nel senso di strada, imprevisto. Primo. Non sapevo che la vista di mattonelle datate e del racconto dei fatti accaduti nonché del probabile futuro, potessero suscitare sentimenti ed emozioni così diverse nei miei interlocutori. Secondo. Non avevo nozione che la logistica delle mattonelle fosse una branca della topologia e avesse a che fare con la teoria delle probabilità. Andiamo per ordine.

Il primo magazzino di mattonelle era sfavillante di luci e colori, affollato da giovani coppie che volevano cambiare bagni e pavimenti o addirittura pareti con il meglio della produzione di Sassuolo e dintorni. Naturalmente la commessa e il proprietario del negozio seguivano questi clienti avvolti dal dubbio e proponevano soluzioni diverse su campionari pesantissimi. Sistemati tutti in circa un’ora, ovvero lasciati alle difficili scelte per la vita, il proprietario è venuto da me e alla vista delle mattonelle e alle mia domanda se era possibile trovare qualcosa di simile, ha dapprima scosso la testa, poi ha chiamato dal magazzino, un paio di persone che potevano avere la mia età e ha cominciato a discutere con loro sull’età delle mattonelle, sul produttore (fallito), sullo spessore e qualità ottica del rivestimento. Mi sono sentito come un archeologo che porta un frammento del mosaico di epoca imperiale scoperto e che vorrebbe ricostruirne un pezzo. La discussione proseguiva tra loro, e sembrava interessante perché ogni tanto uno dei tre mi prendeva la mattonella dalle mani e disquisiva con gli altri. Alla fine mi hanno dato una serie di conclusioni interessanti, ovvero che almeno due delle mattonelle erano già introvabili all’epoca in cui erano state posate: un residuo di magazzino. La terza mattonella semplicemente non esisteva più nel formato, nel senso che quella misura era stata dichiarata fuori da ogni mercato possibile e nessuno, sottolineo nessuno, neppure in Cina, la faceva più. Il proprietario mi ha poi detto che il loro lotto minimo era di dieci scatole, mentre a me ne serviva meno di mezza. Sono stati gentili, i due più anziani continuavano il discorso rammentando la gioventù, il proprietario mi ha sorriso e mi ha dato la mano, come si fa adesso mettendo le nocche e non i palmi. Sono uscito contento, era ormai notte e attorno la zona industriale era piena delle luci rosse degli stop, aleggiava un vento fresco che mischiava l’odore del luppolo fermentato della birreria, con gli scarichi dei camion dell’est. Il camino dell’inceneritore fumava allegramente in fondo al viale. Però avevo un altro indirizzo, dall’altra parte della città e mi sono avviato.

Scena quarta

Trovare un magazzino in quella che era stata una zona industriale abusiva, sorta dopo un bombardamento lungo una ferrovia e ormai semi abbandonata, era un’impresa, ma alla fine il navigatore ha vinto. La porta del magazzino era semichiusa e il tutto era avvolto in un flebile chiarore che veniva da un ufficio a lato dell’ingresso. Sono entrato con le mie mattonelle e il pezzo di cartone. Forse ero al buio e non mi vedevano ma per un tempo non breve nessuno mi ha badato e un signore con il cappotto e il cappello, discuteva ad alta voce con una signora, forse l’impiegata, seduta vicino a una stufa elettrica e che ogni tanto batteva qualcosa su una bellissima Divisumma Olivetti, strappava il pezzo di carta e lo mostrava indicando le sue ragioni. La scena era appassionante, mi sembrava di essere finito in un film neorealista. Alla fine, battendo sui vetri, mi hanno visto e il signore con il cappello mi ha fatto segno di attendere. La discussione è proseguita fino a un momento in cui è sembrato che avessero trovato un accordo e mentre l’impiegata ha iniziato una lunga serie di operazioni, il signore con il cappello è uscito. L’esperienza precedente nel negozio sfavillante, mi ha fatto cambiare approccio e ho cominciato raccontando la storia del tubo.

Qui forse è meglio che riferisca il dialogo.

io. Si è rotto il tubo principale dell’acqua in casa e per trovare l’attacco hanno rotto quattro pavimenti diversi, sto cercando le mattonelle per riparare al danno.

Signore con il cappello (Scc). E non ha venduto la casa? Doveva vendere la casa, sua moglie adesso avrà il terrore che si rompano tubi da altre parti. Venda la casa.

io. Non posso vendere la casa, anche se volessi adesso assomiglia a un campo di battaglia.

Scc. Faccia uno sconto al compratore, ma venda ne guadagnerà in salute. Non dica che non l’ho avvisata. Meglio vendere.

io. Ma queste mattonelle (mostro quelle che ormai mi sembrano lacerti di una miseria antica) proprio non si trovano o almeno qualcosa che assomigli.

Scc. (prende le mattonelle) Queste hanno almeno 35 anni e almeno da 30 anni non le fabbrica più nessuno. Se io le do qualcosa che non assomiglierà mai a questi colori, sua moglie ogni volta che le vedrà si lamenterà. Venda la casa, ascolti me, la venda ed eviterà il divorzio. Il divorzio costa, sa…

io. Non posso vendere la casa (mi viene da ridere, la situazione è diventata allegra, mi sembra di vivere dentro una commedia dell’arte), non può proprio aiutarmi con qualcosa che assomigli a queste mattonelle?

Scc. (guarda con sguardo critico le mie mattonelle, ne estrae alcune dalle scatole che si sovrappongono ovunque, me le mostra) Lei di quante mattonelle ha bisogno? (sente le misure scritte sul cartone, sorride) Cerchi di seguirmi nel ragionamento, io devo ordinare a Sassuolo, quattro scatole di mattonelle diverse che assomiglino alle sue. L’ordine viene evaso in un mese. Le sue mattonelle vengono caricate su un pancale, insieme ad altre che ho ordinato io, o altri di questa città. Il pancale viene caricato su un bilico da 16 metri perché le mattonelle pesano e si deve riempire un camion per diminuire i costi. Il camion viene guidato da un camionista dell’est, perché non si trovano più autisti in Italia. Questo autista che conosce un po’ di strade, fa sempre lo stesso giro. Parte, si ferma, scarica, riparte, va nella città successiva e ricomincia. Tutto di corsa perché deve finire in giornata, non gli pagano la notte fuori. Gli ordini piccoli come il suo, una volta su due vanno a finire nel posto sbagliato. E secondo lei, io dovrei cercare dove sono finite le sue mattonelle? Ma non ci penso neppure e così le ordino di nuovo e spero arrivino dopo un altro mese. Lei le pagherà il doppio, sua moglie non sarà contenta. Venda la casa.

io. Non posso vendere la casa, non posso tornare senza mattonelle, mi aiuti con qualcosa che ha in magazzino.

Scc. Va bene (estrae alcune mattonelle che assomigliano alle mie, cinque hanno una misura enorme che giustifica dicendo che più grande è la macchia meno si vede. Il tutto lo mette in una scatola e me la infila sotto braccio) gliele regalo, mi pagherà un caffè quando vende la casa. Perché, vedrà, prima o poi la vende.

Sorrido, saluto il signore con il cappello, lo ringrazio ripetutamente. Torno a casa felice e allegro.

Conclusione.

Il muratore dopo un paio di settimane, ha rimesso a posto muri e pavimenti, ha brontolato in silenzio e la casa ora ha un fascino nuovo che mia moglie non condivide appieno. Forse ha ragione il signore con il cappello, meglio vendere la casa che aggiustare un altro tubo.

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vicino al fiume

C’era l’aria torbida vicino al fiume, con un cielo basso, che quasi toccava l’acqua. Lungo il viale, dopo i platani, i bar tenevano i tavolini all’aperto tutto l’anno, usavano quei funghi a gas che riverberavano calore verso il basso. I tavolini tondi di alluminio, le coppie spalla a spalla, sedute dalla stessa parte, dividevano tè caldo e spezzavano i biscotti, offrendoseli l’un l’altra. Spezzare i biscotti era un gesto di amore, anche se riportava a chi sapeva, il ricordo di vecchie penurie, corridoi adattati a refettorio per i doposcuola, suore che lesinavano i biscotti semplici chiedendo fioretti e piccole rinunce. Così i biscotti si spezzavano per farli durare più a lungo e si mettevano tra le labbra succhiando li prima di masticarli perché il dolce durasse a lungo. Oggi non era così e condividere era parte dell’allegria amorosa, li guardava con tenerezza, seguendo un ricordo che riscalda a il cuore.

Si mise in un tavolo d’angolo da cui vedeva sia la strada con i tavolini e i giovani visi intenti a parlare e ad ascoltare, sia il piazzale, l’acqua e la porta antica. Questa era già illuminata sotto l’arco, in un preannuncio di sera. La porta del bar, aperta, mandava l’odore dei toast e del caffè, si sentiva spesso macinare i chicchi, lo sbuffo del vapore che schiuma a il latte, sotto questi odori improvvisi e forti, c’era il profumo del legno del perlinato che avvolgeva pareti e la terrazza esterna. Il suono delle voci giovani, i richiami a chi passava, si mescolavano con le risate e il tintinnare dei bicchieri. Era un entrare giovane e allegro, nella sera che compiva lezioni e studio.

Per scacciare l’odore dolciastro delle sigarette e degli spinelli, si accese mezzo sigaro, guardando il fumo denso che usciva dalle sue boccate. Alcuni ragazzi sottovento si voltarono a guardarlo, improvvisamente zitti. Sembravano sul punto di dire qualcosa, cambiò traiettoria al fumo soffiando lungo il muro, non dissero nulla, solo spostarono di poco le sedie e ripresero a parlare.
Il pensiero si era disteso come un’ovvietà che riposa e pensare ciò che è utile a chi si ama gli sembrava inconcludente. Quasi offensivo per mancata generosità. Forse bisognava sentirne il limite, si disse, il limite di ciò che è utile e senza fatica lasciare che scorra sino a ciò che diventa difficile o privo di ragione. Fino alla felicità che nasce com’essa crede, e non ha pensiero di durata o contraccambio, ma solo, di rimando, il calore. Solo il calore di sentirsi avvolti dall’attenzione amorosa.
Fumava, pensava, ascoltava e beveva guardando la luce che diminuiva sul fiume. I tavolini si svuotavano, altri si sedevano ma in minor numero, i ragazzi andavano verso altri luoghi di incontro. Era tutto così naturale in ciò che vedeva, nelle attenzioni, nei sorrisi, nei baci, che solo l’educazione doveva aver reso arduo l’amore, difficile la sincerità e la comunicazione profonda tra persone che arzigogolavano, usavando modi di dire per lasciare che l’altro intuisse I sentimenti oltre le parole ed erano inutilmente timidi o sfacciati. Sbagliavano toni e tempi per incapacità a lasciarsi andare e pensò alla malinconia successiva degli incontri sconclusi, che era un modo per contemplare l’inadeguatezza propria e altrui nel rompere quella cattiva educazione a celare il tumulto del sentire.
Sarebbe bastato dirsi che veniva trascurato, tutto il bene creato e dato, l’amore generato, la gioia di sentire se stessi nell’altro, il desiderio, la riservatezza di ciò che solo una persona poteva davvero udire e capire. Tutto quello che avrebbe dovuto rendere fieri, non solo d’averlo vissuto, ma tenuto nella sua considerazione piena, veniva deviato e trattenuto.

Dire ad alta voce che hai amato, ami, e vivi anche le difficoltà con l’inerme forza di chi sa volare eppure sta a terra era una forza eversiva che il mondo confina a nelle età giovanili o nei poeti, mentre era patrimonio di tutti. Ma erano parole senza modestia, che avrebbero irritato o messo a disagio, che avrebbero cambiato i modi di vivere per l’intensità sovversiva che si contrappone all’usuale, al ripetuto. Un ritorno all’ordine che era perdere spontaneità e colori, essere coerciti e coercire mentre il vuoto toglieva prima senso e poi le stesse parole, per sostituirle con altre, innocue e senza suono. Per quello restavano dentro, le parole, per quello le conversazioni si interrompevano e non si sapeva che dire che fosse insieme una verità e un eufemismo dell’amore.


Neanche stasera un tramonto decente. Sorrise, il sigaro era finito, nel posacenere, un cilindro grigio, consistente e grezzo attendeva di dissolversi in polvere. Era un’immagine dei pensieri irti, dei dovrebbe che erano stati e non erano più. Annusò la sera e l’odore dell’acqua lenta che calava con l’umidità. Tornarono altri ricordi. Sotto la porta antica la luce, gialla e calda lo richiamava. Si alzò e si avviò in quella direzione. Ricordava ed era bello vivere e aver vissuto.


È bello il percorso che fai,
vola dentro e fuori di te,
non soccombere a ciò che ferisce.
Ascolta la meraviglia del vivere con passione, e ama senza ritegno, ama.

perdere i treni, gli aerei, e andar via

Dalla finestra entra una luce di lato, alla Hopper, illumina e ingentilisce i profili delle case mentre rende indistinti quelli delle persone controluce. Non dovrebbero esserci assembramenti ma ci sono frotte di famiglie e amici che usano le stesse piccole strade e allora nel distanziarmi guardo i capelli che diventano masse e le ombre che s’allungano, mentre sbiadiscono i colori. Ripenso alle domande senza risposta, quelle che si annegano nelle parole perché non si può tacere oppure il silenzio diventerebbe assenso. Ci sono domande che ne nascondono altre e che vorrebbero una risposta che vada al giusto livello di comunicazione, ma quasi mai siamo/sono disponibile a dire cosa non va davvero oppure spiegare il dubbio e la sua natura, ciò che ferma un entusiasmo mentre il desiderio s’alimenta, lo squilibrio che esiste tra ciò che verrà fatto e quello che si era pensato e voluto.

Si potrebbe pensare ad una propensione all’insoddisfazione, ma non è così, da qualche parte la pienezza esiste, come la bellezza quando viene colta. Solo che a volte si vorrebbe essere altrove, in quel luogo dove tutto questo è facile, naturale, conseguente. Per tutta la vita ho avuto fama di ritardatario e ci ho sempre riso sopra, ma non ho mai perso un aereo, un treno, un appuntamento importante, ebbene ora capisco che bisogna perderli i treni per far accadere altre cose, che gli aerei possono attendere e che il luogo in cui portano non era quello che avremmo voluto. Capisco che le persone importanti, ne ho conosciute molte che si ritenevano tali e si comportavano di conseguenza, non sono poi importanti per davvero. Comprendo che molte cose lasciate a un filo dall’essere concluse non sono state non finite per caso e che la fuga, come ci insegnava Laborit, è il primo istinto che aiuta la specie a salvarsi. Lo penso ora, e credo che sotto traccia, l’ho sempre pensato, come un disordine interiore che si ribellava alla costrizione ma pretendeva più verità. Il coraggio si costruisce su cumoli di piccoli errori, qualche viltà veniale, di verità precarie conquistate con fatica e con i gesti che rimettono tutto in ordine dentro di noi. Così ho anche pensato, mentre la luce aveva perso la sua brillantezza, al gusto per i particolari, a quanto essi rivelano e come sono capaci di andare a dormire quando nessuno più li guarda. Un particolare è un pensiero realizzato, privo di contesto nello sguardo, ma funzionale al tutto. E’ una metafora della vita quasi perfetta perché ha un posto e una funzione, ma non sgomita per apparire essenziale. E può essere non terminato per lasciare la possibilità che la mente completi ciò che manca.

Davvero dobbiamo mettere in ordine la vita esteriore, fare l’esame di maturità ogni volta che ci guardiamo indietro, completare le età? I nostri curricula fortunatamente incompleti, racchiudono la possibilità dell’incontro, del mutamento e insieme a questo c’è la possibilità di essere sereni perché si è vissuto come si è potuto, ma quell’enorme mucchio di cose fatte e rifatte non appartiene a una sola età bensì a tutte e tutte ha continuato a far vivere. In diverso modo, con intensità che che crescono oppure diventano ciò che sono: polvere che si perde.

Il passato si fonde con il presente e con le età in ciò che sono diventato e non ho un giudizio su di me, casomai il bisogno aumentato di assomigliare a qualcosa che mi porto dentro da quando ho iniziato ad articolare i pensieri, a mescolarli con gli altri sensi e farne un essere che si cercava. La vita diviene un flusso in cui si nuota e se qualcosa resta aperto non c’e bisogno di chiuderlo ma solo di vivere. Tanto si è quello che si è in ogni momento, la somma di tutto ciò che si è stati e saremo.

I nostri nonni chiudevano le fasi della vita ed erano incapaci di una carezza, la riconquista dell’affettività senza tempo è una grande consapevolezza che lascia aperte molte porte e lotta ad armi pari con il senso di morte. Avere un futuro rende positivo il presente e quasi sempre allegro il passato. Le sciocchezze sono passate, erano in maggioranza negazioni di ciò che ero davvero, solo il ridicolo interiore mi fa paura e addestrarsi a riconoscere il ridicolo e’ una grande scuola di vita. L’autoironia e una risata libererà gli uomini, questo ho capito e mi piacerebbe molto venisse insegnato non dall’esperienza ma dall’amore.

luce radente

Una striscia di luce rimbalzava sui vetri della trifora del palazzo di fronte e illuminava d’una luce ocra le bottiglie che stavano dietro al bancone del bar. Il barista era appoggiato al ripiano dei dolci e ogni pomeriggio sorrideva perché quella lama di luce gli diceva l’ora secondo la stagione. Faceva caldo ed era solo maggio. Aveva messo fuori, sotto il portico, i tavolini e le sedie di alluminio. C’era sempre qualche coppia o un gruppo di amici che si fermava a bere e l’ora della luce ocra era il tramonto sui tetti della via stretta, una sorta di richiamo per stare in compagnia.

Per evitare d’essere sommersi dalle chiacchiere e dalle risate dei vicini, si eravano messi sull’ultimo tavolino tondo. Lei mescolavi distrattamente il cappuccino, iui guardava il colore intenso dello spritz, rigorosamente al campari, come diceva con una protervia che lo infastidiva mentre si ascoltava e si chiedeva perché il poco ghiaccio era sempre eccessivo nel bicchiere. Tra i cubetti che mandavano lampi di luce stazionava la fettina d’arancia. Il suo colore più intenso lo aveva fatto voltare e aveva visto l’intero percorso della rifrazione: sole, vetri, portico, bottiglie.

Questo incontro, finto fortuito, era stato preparato con cura, come fanno i timidi, due parole di saluto, come stai, sei in centro, hai tempo per un caffè, anche adesso se puoi. In realtà entrambi sapevano che uscivano a quell’ora e che le strade in una città media sono sempre le stesse. Vengono date in dotazione alla nascita, poi c’è l’avventura di uscire dal piccolo ambito permesso, la scoperta che non c’è molto di nuovo, anche nelle strade che sembrano diverse, oltre l’abitudine e la necessità, si capisce che in quel nuovo, sono collocati i momenti del crescere, gli incontri, le trasgressioni, le sicurezze di avere un posto in cui tornare, le malinconie dell’assenza e la sorpresa del ritrovarsi.

Lei aveva cominciato a parlare, del figlio che cambiava lavoro, della noia dei colleghi che dicevano sempre le stesse cose, come ci fosse un’eterna prosecuzione del liceo. Lui la seguiva nel discorso e inframmezzava domande dirette. Sei felice? No, sono serena e mi va bene così. Così le raccontava di sé, delle cose nuove che faceva e di quelle vecchie che non finivano mai. Ridevano. E tu dove andrai in vacanza? La domanda lo colse impreparato. Un po’ rabbuiò e lei lo vide, cercò di spiegarle che si era reso conto che la vacanza era sempre la stessa anche quando era diversa, però non voleva darle l’idea dello sfigato malinconico, quindi aveva arricchito i luoghi con qualche singolarità che li rendessero un po’ invidiabili. In realtà avrebbe preferito non fare nulla e lasciare che l’estate passasse senza ricordi e fatiche. Era la fatica di fare delle cose che dovevano rappresentare la vacanza che lo impaurivano e lo mettevano in uno stato d’ansia. idealizzava altri tempi in cui si andava all’avventura, in cui c’erano molte libertà e meno impegni, meno riti, soprattutto. Gli occhi erano scivolati dal suo viso bello alle mani. Aveva abiti leggeri. Diceva, ho sempre caldo, e anche adesso precedeva la stagione con una camicetta colorata e maniche al gomito. Aveva notato sia il pallore della pelle come le arterie ben visibili, i polsi sottili e le mani. In particolare le mani, erano investite dalla luce che oltre a renderle di un colore intenso, rivelava ogni piega o taglietto attorno alle nocche delle dita. Pensò che aveva le mani giuste, piccole rispetto alle sue, naturalmente, ma della misura che sembra adatta ad essere felici in due. In fondo delle mani, da soli, si pensa all’utile, le si adopera, mentre in due le loro possibilità si accrescono indefinitamente. Come il resto del corpo, pensò.

Adesso la conversazione proseguiva nel passato, ricordavano fatti comuni, ma con molta circospezione come non volessero svegliare ricordi che invece erano ben svegli e attivi. La luce era risalita al collo, là dove si vedono gli anni e già le prendeva il volto. C’erano delle piccolissime rughe, ma erano segni gentili di una mobilità d’espressione. Aveva preso la tazza con entrambe le mani, come a farsi schermo dell’atto del sorbire piano. Prima, con il cucchiaino aveva assaporato la schiuma come fosse panna e aveva sorriso. Per entrambi il pensiero era stato lo stesso, ci si conosce dai particolari e sono questi ad essere la mappa che si precisa nelle vite. Quel gesto di bere con entrambe le mani non glielo aveva mai visto fare. Era una novità nata altrove, forse generata da altri modi di stare assieme o di consumare cibi nuovi. Era più un gesto da tazza che contenesse un sapore orientale che un banale cappuccino. Lei gli aveva parlato di yoga, di un ristorante vegano dove i sapori erano esaltati dalle preparazioni semplici. Diceva, come non fossimo più abituati al fatto che i cibi hanno un sapore proprio che invece anneghiamo nei soli sapori forti. Gli pareva gli avesse parlato anche del fatto che il contenitore non era solo un fatto estetico ma parte integrante del piacere del cibo. Avevano riso entrambi parlando dell’eroticità che il cibo e ciò che lo contiene porta con sé. Poi avevano cambiato discorso.

Il barista era ormai al buio, la luce s’era spostata nello scaffale superiore e le bottiglie illuminate dalla luce radente facevano danzare pulviscolo colorato. Era una scena così quieta che sfiorava la perfezione. Luce, polvere ed acari che ballavano, un viso e un avambraccio nell’ombra, sembravano osservare una lanterna magica.

Le chiese se voleva prendere ancora qualcosa, sapendo che ci sarebbe stata una risposta negativa, ma erano finite sia le patatine che le noccioline tostate. Non voleva disturbare il barista e lo spettacolo che stava avvenendo dentro al bar, così si alzò ed entrò nella penombra per chiedere direttamente un supplemento di piccoli veleni di cui, poi, si sarebbe certamente pentito. Siamo così prevedibili e incoerenti, pensò. La sala era vuota e se i tavoli e le sedie, il bancone, la macchina del caffè erano ben visibili, lo spettacolo della luce che illuminava i liquori colorati era incantevole: una striscia orizzontale che sembrava volesse leggere le etichette, indagava lo scaffale, mostrando le carte infilate di taglio e persino la licenza incorniciata veniva nobilitata dalla luce, ora color d’ambra. Si incantò a guardare, ma per poco e allo sguardo interrogativo del barista, si riscosse: chiese di avere altre noccioline.

Mentre usciva con una ciotola colma di semi lucidi d’olio e sale, pensò a come venivano tostate le noccioline, da dove provenivano e l’immagine dei corpi grassi, sformati, che sempre più si vedevano nei film americani, lo fece sentire a disagio. Pensò a come si diventava così, oppure come ci si distruggeva al contrario, in una lotta tra il piacere e la misura che investiva per i più svariati motivi le menti e trasformava i corpi. Guardò i ragazzi seduti nei primi tavoli, ridevano, le birre nei bicchieri, la giovinezza che non è mai cosciente per davvero di se stessa ma vive e quei corpi erano belli anche quando non lo erano, perché c’era un’attenzione, una cura, che forse non erano solo conformità a un canone, ma il prodotto di un’idea di sé. O almeno sperava fosse così. La strada, oltre il portico, era affollata di biciclette, ognuno aveva una meta, ma a parte i raider, nessuno aveva fretta. Andando verso il suo tavolo, vide la sua nuca in ombra mentre i capelli s’erano accesi controluce. Portava i capelli corti. L’aveva sempre vista con i capelli corti, ma adesso le lasciavano scoperta la nuca. L’hennè, gli pareva di ricordare l’usasse, trasformava i capelli in terminali luminosi, come sciogliesse la massa compatta in singoli fili distinti e serrati gli uni con gli altri. Era un colore che si mescolava con la gradazione di luce che smorzava i toni accesi, la rendeva particolare tra il rosso, l’ocra e il mogano. Aveva inventato un nuovo Pantone, peccato non riuscire a fissarlo su pellicola, un Pantone valeva centinaia di migliaia di dollari. Una vincita al super enalotto. Sorrise al pensiero che avevano diviso la schedina per molto tempo, con il patto che sarebbero stati ricchi entrambi, ma non avevano mai vinto nulla oltre il piacere di attendere ciò che doveva per forza accadere: non se lo meritavano forse? E poi alla fortuna cosa gli costava farli felici? Ormai era alle sue spalle, gli parve bella come sempre, anzi di più e fu colto da una nostalgia mista a gelosia che lo fece sobbalzare e fermare. Non erano cose da lui queste.

Lei lo accolse con un sorriso. Vedo che non perdi le cattive abitudini. Sei sempre uguale. Non era un rimprovero, lo prese come un riandare ad altri tempi e ad altre condivisioni. Si erano conosciuti molto e queste piccole cose facevano parte dei discorsi, degli impegni, delle risate sulla ciccia e brufoli, erano una sorta di basso continuo in un concerto che lasciava liberi gli strumenti ad arco di tracciare melodie e di sorprendere. La nostalgia prese il sopravvento, ma non poteva lasciarlo trasparire, non era nei taciti patti e poi sapeva bene quali sarebbero state le parole seguenti. Meglio tacere, come se tutto il necessario fosse stato detto e ogni aggiunta diventasse un eccesso. Peggiori la tua situazione, le aveva detto, una volta, ridendo.

Si sedette in quello scomodo alluminio e sentì il freddo del tavolo. Adesso erano quasi in ombra e la luce le illuminava gli occhi e la fronte. Mi conti le rughe? Disse lei, sorridendo. Non ne hai e sei molto bella con questa luce. Lei rise. Solo con questa luce, allora dovrò farmi delle lampade particolari. Risero entrambi e mentre le guardava la bocca piena di allegra ironia, un lampo attraversò l’aria e rimasero nella penombra. Una finestra della casa di fronte si era aperta e la luce era fuggita altrove a illuminare altri portici. L’incanto era ripiegato dentro le sensazioni, allungò la mano e coprì la sua, avvolgendola, mentre sentiva crescere la malinconia.

Ho freddo, disse lei, e devo andare. Le mani si staccarono, si alzarono. Pagò rapidamente, salutando il barista che aveva acceso le luci nella sala. Uscì. Fecero un tratto di strada assieme, cercando di trovare la luce del tramonto sotto i portici. Prima di lasciarsi lei disse, ritieniti abbracciato. Anche tu, rispose. E si sentì triste e banale mentre la guardava andarsene verso casa.

minimi pensieri 5

Ci sono pomeriggi che sarebbe meglio dedicare al sonno o alla contemplazione. Per la seconda basterebbe una fotografia e porre nella testa di ciascuno dei raffigurati, i pensieri che li animano nella nostra rappresentazione. Commedie in un solo atto per interpreti che hanno bisogno di avere se stessi come pubblico. Succedanei della meditazione, dove essa fa il vuoto, la finzione (neanche tanto visto che è ciò che si sente) fa il pieno. Antidoti all’umore un po’ così. Affermazioni apodittiche come : ho troppi ricordi e poca capacità di tagliare pezzi di passato e non dolermene. Non sono utili. E neppure emerge lo Scontento di me. Lo tratto come esso fosse un alter ego che ti accompagna silente e paziente, mai infastidito dall’altro ego, chiassoso e ilare di sé. Buona è invece la voglia di isolata quiete che aiuta a ricomporre i cocci. Punto d’arrivo: c’è moltissimo di bello, emozioni, sentimenti profondi, cose di cui ringraziare per averle vissute. Percorso accidentato, pieno di distrazioni fastidiose, ricordi modesti e molesti, fallimenti grandi e piccoli. Che poi i fallimenti bisognerebbe rivalutarli, sono il successo meno un quid, non sono come i naufragi che ti tolgono tutto e che se arrivi in un’isola nuova ci sono pure le formiche cannibali, per cui devi davvero ripartire da zero. Con un fallimento parti da tre o anche da dieci, basta che tu li veda questi numeri tramutati in amori solidi e cose tangibili, senza considerarli meriti o fortune acquisite. Riassunto: pomeriggio sulle montagne russe, (le dolomiti sono meglio) e pensieri sparsi come le trecce morbide, ma senza affannoso petto. Insomma se non si è fatti bene sul lato del perdonarsi è possibile migliorare. E domani si può fare di più.

mettere ordine al proprio mondo

Vorrei mettere ordine alle mie riflessioni. Non le penso gran cosa, ma sono mie, come i ricordi, le passioni, le speranze su cui ho costruito la mia storia. Ho iniziato più volte, mi è sempre parso non sufficiente per passare da una narrazione fatta di frames a un insieme organico. Poi ho scritto tre capitoli, rigorosamente a mano e, a parte, la voglia di iniziare da qualcosa che affonda a le radici dove tutto diventa nebuloso e possibile, ovvero un passato remoto, il resto prendeva una forma dik osservazione. Quasi fossi un entomologo e insieme l’insetto. L’ho chiamata condizione quantica perché ha a che fare con l’entanglement ma insieme prova sentimenti. Esiste una meccanica quantistica dei sentimenti? Io penso di sì e penso sia l’unica che ci consente di esplorare e partecipare.
Poi mi sono fermato, assorbito e ammirato, da saggi che leggevo e da romanzi così ben costruiti da rendere poca cosa tutto quello che potevo scrivere. Ho pensato che comunque non era una fatica inutile e che la realtà scorreva tra le dita, la bocca biascicava qualcosa e il pensiero andava lontano, come credo accada ai vecchi musulmani che appoggiati a un muro giallo ocra o di altro colore, ma invariabilmente scrostato, fanno scorrere le sfere della misbaḥah, mentre attendono la sera, il canto del muezzin e soprattutto il fresco della notte. Tutt’attorno ci sono grida di bimbi, la polvere alzata nel loro correre e la vita che si dipana nelle mansioni, nei piccoli affari, negli incontri fortuiti e cercati.
La vita cerca perenni equilibri nel suo scegliere, correre, subire, inventare, amare e poi cuce il tutto e lo colloca in un susseguirsi di scene, di immagini che non sono solo una storia ma l’insieme delle storie possibili per quella persona, in quel tempo.
Questo vorrei fare, sapendo che serve tempo e lasciarsi andare ad un flusso, senza porgli un limite che lo imprigioni in qualcosa che necessariamente abbia un senso e una morale. Il senso è lo stesso accadere che viene raccolto, filtrato e si sofferma sui particolari, sospende il procedere e nota qualcosa che non era nel quadro generale come importante, ma che invece, a ben vedere, lo è e da solo può essere un pezzo di senso. Così accade per la morale che avrebbe il compito di rassicurare, mentre avverto un’insicurezza palese o celata attorno, ne colgo i riti e il tributo di falsità che le viene corrisposto perché tutto torni ad essere abitudine. Di questa morale me ne farei poco e anche chi leggesse ciò che scrivo la sentirebbe come un contenitore a perdere, allora meglio che essa si sciolga nell’opinabile che non abbia giudizi, se non quelli necessari al vivere. E che sia come il biscotto che da ragazzini ci sembrava così buono e che ora diventa diverso, banale, perché il tempo è passato e i gusti sono mutati.

stelle d’agosto

La linea dei monti si è fatta azzurra e il cielo si è coperto. La girandola è ferma, c’è calma di vento. È san Lorenzo, le pleiadi faranno fatica a mandare messaggi, così i desideri si accucciano nel fresco della sera.

È l’ora dei marinari, del silenzio che scende con le voci che sbagliano il tono. È l’ora dei ricordi che si presentano e dicono di altre età. L’orologio scandisce il suo tempo, ma a me interessa la meccanica che lo muove non ciò che segna. Sbuffi di fumo da una vecchia pipa che m’ha seguito fedele mentre il mondo mutava. Si parla a se stessi, si enumera ciò che va per suo conto e la direzione, come per il fumo, è quella del vento che ora ristagna, pensoso. Una voce poco fa ricordava la Barbagia, un’altra ha riassunto in poche parole ciò che non c’è nelle intenzioni vere del mondo. Le notizie dicono l’insensatezza di chi non pensa, non crede all’evidenza delle precarietà. Senza il tempo siamo immortali, per questo alle scie nel cielo affidiamo la determinazione di tornare. Si torna sempre da qualche parte. Mai al passato insieme. Questa vecchia pipa significa qualcosa solo per chi l’ha vissuta e ancora, come allora c’è l’allegria di avere un pavimento per camminare e il cielo come tetto per i sogni.

piccoli barbari

Sono scesi in silenzio dalle vecchie travi con i tarli lucidati nei restauri. Sono emersi dagli interstizi della malta antica. Si sono svegliati dai piccoli ricettacoli che offrono le arelle e i soffitti che hanno una storia. Sono calati di notte e si sono cibati di sudore e sangue, lasciando tracce invisibili. All’inizio. Non lo sapevano che ero allergico, quindi li posso scusare per la loro feroce scortesia. Avevano fame e non hanno chiesto il permesso. All’inizio neppure mi sembrava volassero, ho pensato alle pulci, ma non erano pulci. Certo erano minuscoli come un testo senza pretese, ma in grado di dire e di andare in profondità, sino a diventare l’argomento principale dei pensieri. Quindi dotati di una loro logica e persistenza nel manifestare la presenza e di far convergere nel loro esistere soluzioni e pensieri ricorrenti. Qualcuno ha perso lo scontro fisico, ma intuivano la mia debolezza e non si curavano delle perdite e neppure delle armi chimiche messe in campo. Finché me ne sono andato e forse questo volevano, ovvero che lasciassi il campo: quella stanza era loro. Ora, sono passati giorni, tra antistaminici e pomate le tracce dei pasti pian piano recedono, ma con la lentezza di ciò che vuol farsi ricordare. I segni del vecchio miles non sono gloriosi, ma segno di una sconfitta che ha lasciato il campo. Un prurito basta per ricordare che ci sono altre specie, piccole e ben attrezzate che non sono disponibili a condividere l’impero dell’uomo.

è la solitudine ciò che ci avvicina e ci allontana

Tutto allora si fa per paura della solitudine?

È per questo che rinunciamo a tutte le cose di cui ci rammaricheremo alla fine della vita?

È questo il motivo per cui diciamo raramente ciò che pensiamo sino in fondo? Per timore di perdere chi ci vede e vuole diverso.

E per quale altra ragione ci abbarbichiamo alle false amicizie, ai noiosi pranzi di compleanno?

Cosa avverrebbe se rompessimo con tutto questo, ponendo fine all’abitudine della compagnia  e prendendo partito per noi stessi?

p.s. alle domande cercherò di dare risposta molto parziale con una lettera ad una immaginaria interlocutrice, ma questo sarà un lungo scrivere seguente che i miei pochi frettolosi lettori potranno saltare allegramente.

domani smetto

Tutto questo dire, parlare di sé nella prima o nella terza persona singolare, fatto di parole cercate, accumulate in pile ordinate come fossero moneta sonante. Usate per acquisire, scambiare, cedere. Oh sì cedere, nella consapevolezza che il cedere è sempre un avere l’inatteso altro che parte dal muovere all’ascolto e confluisce nel contrattare silente. E che dire delle sparizioni, che poi sono silenzi certamente pieni di contenuti sciorinati altrove, di piccoli tradimenti delle attese, di consequenzialità interrotte, scomposte, riformulate in novità: tutto serve a nascondere le evidenze e ciò che non si vuol dire. Deve sembrare quel confessare virtuale che non è mai tale, irto com’è di reticenze e deviante; non è la confessione orale degli antichi che azzerava lo spirito su una linea d’innocenza e poi poteva iniziare una nuova narrazione, ma una sorta di glorificazione di sé al negativo che si auto limita e riduce a grigio il nero profondo del non dire.

E chi avrebbe mai questa pretesa del vero, del nascosto, del mai rivelato ad altri? Nessuno, non foss’altro che per la reciprocità che poi verrebbe pretesa, ma tutto si muove e alzando virtualmente la mano al cuore qualcuno dice: in verità. Mentre tutto è in attesa di un riscontro; che chi è davvero interrogato parli. Insomma diventa un parlare di sguincio, evitando di vedersi allo specchio e scoprirsi davvero.

Lo specchio non mente e accoglie, rimette ordine tra le rughe dell’anima, le enumera e dà loro un senso, indaga le espressioni, il tirar su il sopracciglio, scandaglia il sorriso e lo porta ad essere ciò che è, ovvero l’ironia nascosta delle cose che abbiamo fatto e che sono rimaste impigliate dentro. Lo specchio accetta il giudizio e lo migliora, ma solo se si vuole e si guarda disarmati. Cosa ben diversa dall’apparire, lo specchiarsi è vedersi rovesciato eppure essere lo stesso. Rivela perché guarda dentro e racconta, ma non esiste un luogo virtuale delle verità, forse perché sarebbe un insieme di atolli e di naufraghi felici. 

Ancora parlo, mangio aria, attivo sinapsi, cerco ciò che non so dove sia eppure ha una traccia in me, quindi esiste. Vana immagine d’un suono, riproduzione che non rispetta l’acutezza di ciò che vorrebbe avere rappresentazione. Così si dice: basta piccole verità nascoste tra le righe, nessuno interpreta, è ora, domani smetto. E sono minuscole bulimiche vanità.