Magari resterei due giorni per paese, ma ho un’improvvisa voglia di Sardegna, e di Barbagia in particolare. Di fermarmi a Tonara o a Teti, in quell’agriturismo dove la sera devi mettere un limite ai colungiones, al porceddu, al cinghiale. Alle ondate di sapori che arrivano dopo un antipasto, che a casa ti avrebbe saziato per un giorno. E siccome sembra non ci sia fine alla bontà, è difficile smettere, perché la gentilezza di chi cucina ti travolge, così vorresti che il tempo fosse lunghissimo davanti al camino acceso, spezzettare il pane guttiau, parlare ancora un poco, sorseggiando cannonau di Oliena, perché andare a letto sembra uno spreco di tempo e poi mica dormiresti. E fuori c’è un cielo di una limpidezza incredibile, dove hai avuto un’esperienza del buio, incredibile e mai più ripetuta. Poi il mattino proseguire per Austis, andare a trovare un’amica, che è in campagna elettorale, e che stimi oltre ogni amicizia, salire verso il convento restaurato, camminare sino a sa Grabanissa e guardare tutt’attorno, Verso il lago Omodeo e oltre verso il mare, finché lo sguardo si perda e senti di essere non al centro della Sardegna, ma al centro del mondo. Fermarsi nei bar a bere un vermentino o una Ichnusa, ascoltando il barbaricino. Senza capire. Solo per il suono. E guardare i gesti ora lenti, ora veloci. Lasciando che il pensiero trattenga l’impressione di una enorme pila di vite sovrapposte e incastrate, come le pietre a secco dei nuraghe, che ora si depositano attraverso le parole che ascolti. E pensi che c’è un filo grosso che cuce tutto, che ritrovi nelle case in cui il fuoco è abitudine dall’autunno sino a Pasqua, come lo sgabello in sughero vicino al camino; pensi che è un refe fatto di tradizioni senza apparente motivo, di gentilezze mute, di abitudini che scendono giù, giù, attraverso le parole, i nomi, i gesti, il tagliare un pane, l’offrire un dolce o una fetta di formaggio, verso la luce delle giornate, i lavori, e le pietre, i luoghi che hanno spirito e significato, gli ovili, le sughere rosse di vergogna per aver perso il loro mantello prezioso. Giù in un’arcadia fatta di luce e di regole ancestrali. E questo ti rassicura, come scendere dentro il tuo calore interno, com’essere nel mondo e dentro il suo significato.
Ho la strada in mente, l’ho percorsa tante volte da solo, scandendo i nomi: Mamoiada, Fonni, Ovodda, Tiana, Teti, Austis, Sorgono, Tonara e poi indietro. Due volte, Aritzo e poi il Gennargentu. Oppure da Ottana verso Sarule, Ollolai, Gavoi, Lodine, aspettando apparisse il lago Gusana. E ricordo le svolte in cui mi sono perso e i punti di riferimento che mi dicevano che ero sulla strada giusta, la sensazione di solitudine e di natura che avvolgeva totalmente, la voglia di guardare e di andare assieme, perché la natura alla fine ti fa desiderare un riparo, una casa dove riconoscerti.
Ho voglia di quella pace che ti accoglie, quando non hai più il tempo che ti sta attorno, ma solo il tuo, quando condividere è importante più della meta, quando le cose ti parlano per metafore, di te. E la notte ti addormenti sentendo gli ultimi belati, qualche uccello che non conosci, il maestrale che scuote le sughere e le lamiere dei ricoveri e la mattina ti svegli con gli stessi suoni. Ma il giorno dopo non c’è una meta vera, solo da ascoltare, vedere, sentire, per capire dove sei. Non qui, ma altrove. Un punto nave, insomma, senza alcuna utilità che non sia tu stesso.