Con i primi freddi, anzi con la prima brinata, le verze che erano ben presenti in ogni orto, diventavano più buone. Così si diceva, forse perché la fibra dura delle foglie esterne, ghiacciando, diventava morbida. Mio nonno allora cominciava una cura a base di zuppa di verze, il broeton (gran brodo, forse per la quantità di liquido che accompagnava le foglie), e di verze soffegae (soffocate dal coperchio, stufate). Sembrava fosse una dieta dimagrante e depurante in preparazione degli stravizi delle feste, ma soprattutto era un antidoto al freddo che entrava da ogni interstizio (e ce n’erano molti) nella casa. Di sicuro qualche effetto l’aveva perché qualche chilo lo perdeva. Lui sosteneva che la verza aveva proprietà sgrassanti visto che si accompagnava così bene con il maiale. Le spuntature, le costicine, i cotechini, insomma dove c’era grasso la verza assorbiva. Così diceva mio nonno che tutto era fuorché un nutrizionista. Di certo gli piacevano i sapori forti, quelli di pianura, da nebbia e da gelo. Tornando a casa col tabarro, sul birocio col cavallo o in bicicletta doveva avere un freddo terribile. Tutto era frammisto nelle diete di periferia che era già campagna. La verdura aveva dominato estate e primavera, l’autunno era stato un po’ più parco, ma col gelo c’era poco. Era tempo di carciofi, radicchi di campo, trevigiano da imbiancare per marcitura delle foglie esterne e poi le verze, i broccoli. Le patate erano scorta di carboidrati che non mancava, ma la verdura fresca serviva, eccome se serviva, visto che le vitamine della frutta erano precluse. Quand’ero bambino ricevevamo due casse che a me piacevano come contenitori per i giochi, erano fatte di vimini e scorza d’albero intrecciate, piene di arance, limoni e mandarini, mandate da amici di Latina ed sempre manomesse perché gli agrumi, come datteri e banane erano merce rara e costosa. Ma erano una festa a parte, che non era frequente né diffusa.
Per trasmissione culturale, credo, i nonni mi iniziarono alla cultura della verza, università essenziale del sapere padano. Non quello di Bossi e Salvini, ma quello che scorreva da migliaia d’anni nella valle più produttiva e a quel tempo povera, d’Europa, la pianura padana. La verza la si trova ovunque nelle ricette invernali delle regioni della valle, nella cassoela milanese, nelle ricette piemontesi ricche d’agli, fino farle parlar slavo e mescolarla con i fagioli nella jota delle valli friulane dove l’Italia non si distingue più dalle propaggini dell’est. A casa sarebbe stata, assieme al baccalà, ai radicchi con pancetta e gli gnocchi, una costante invernale. Come il freddo e la neve. Credo che poche piante siano generose e umili come la verza e che poche si prestino altrettanto all’estro: dall’essere bollite per stomaci deboli, sino al trionfo della stufatura e al sapore sapido che da chissà cosa viene estratto considerata la semplicità che l’accompagna nella preparazione. Quindi semplicità, umiltà, generosità, doti che accompagnavano i popoli della pianura, avvezzi a conoscere invasioni d’altri e forse per questo dotati di un relativismo salutare. Dalle mode culinarie straniere, dalle culture, traevano quello che poteva essere coltivato e incontrare il gusto. Credo che gli gnocchi conditi con zucchero e cannella di tradizione tedesca e triestina difficilmente avrebbero attecchito in alcune parti povere del veneto, nel polesine o nella bassa padovana ad esempio, se non fossero stati il succedaneo festoso ma compatibile dei blasonati agri dolce, dei saor raffinati, della repubblica del leon. E così per il cren che nelle ruvide basse accompagna ancora i bolliti, mentre nelle parti più raffinate e pedemontane il dolce e il pepe si mescolano nelle mostarde, nella pearà, nella pevarada e poi mutano sino agli gnocchi con le susine e nelle brovade di confine .
Una cucina povera e ricca di sapore, accogliente e discreta, era la più bella metafora delle persone che ho conosciuto da bambino. Metto due ricette semplicissime, che faccio abitualmente e non per nostalgia, ma perché mi piacciono proprio nella loro ruvida schiettezza:
La verza, meglio grande, viene lavata e privata delle foglie esterne con la costola più dura, queste vengono sminuzzate in pezzi più piccoli o affettate a strisce corte. In una pentola capiente, si mette a soffriggere una cipolla tagliata sottile con uno spicchio d’aglio, appena il soffritto è biondo si mettono le foglie sminuzzate, poi si aggiungerà anche il torsolo tagliato a pezzi. Si lascia che le foglie si insaporiscano per bene e poi si aggiunge acqua in relazione alla consistenza della zuppa che si vorrà ottenere. Si mette il sale grosso e si copre e si fa bollire molto a lungo. In pentola a pressione almeno 40 minuti, oppure un’ora e 20 e più in pentola normale. E questo è il broeton che va servito caldissimo, con olio crudo, pepe e formaggio. Una volta si usava polenta fredda dentro il brodo, oppure pane biscotto.
Oggi l’ho fatto con il cous cous alla faccia del sindaco della lega della mia città che non riceve il console del Marocco e devo dire che era proprio buono.
Per fare invece le verze soffegae si taglia il resto di verza in quarti, con la parte delle foglie più tenere e centrali, mondate del torsolo, e poi a strisce sottili. In una padella si soffrigge cipolla e aglio e man mano si mette la verza, si condisce con pepe e sale e con un po’ di dado granulare. Si copre e si mescola ogni tanto. Alla fine, quando le verze sono color giallo carico (25-30 minuti) si spruzza d’aceto e si consuma a fuoco alto per un minuto. Vanno bene come contorno per carni o anche da sole se arricchite di salsiccia sbriciolata e cotta assieme.
A casa usavano strutto, ma si può benissimo farne a meno. Con le foglie più tenere si può cucinare la verza lessa e condirla con olio e sale, oppure con la parte più interna, i cuori, tagliatii sottili e soffritti farne un brodo per i risi e verze. Insomma ci si può sbizzarrire nella semplicità.
Questo al nonno scappato di casa perché amava i cavalli a 14 anni e ritrovato dopo sei mesi in un circo a Napoli, sarebbe piaciuto.