primo settembre


Dov’ero il primo settembre 2004? E nei due giorni successivi che facevo? Ho risposte a entrambe le domande e una piccola vergogna: ascoltavo le notizie con il distacco che provoca, anche in chi è attento, il sovrapporsi della cronaca nera al vivere comune. Non per espungere ciò che potrebbe toccare il nostro idilliaco mondo, ma l’eccessiva presenza di disgrazie ci fa abituare alla violenza che non riguarda il mondo vicino, ci si assuefa e si delimita il mondo tra un dentro e un fuori, come se la violenza fosse il rumore di fondo del mondo, il cigolio del ruotare, ma riguardasse altri.

Le scuole iniziavano ad ottobre, quand’ero bambino. Nel mese precedente si era nostalgicamente liquidata la vacanza e iniziava qualcosa che aveva odore d’inchiostro nero e di carta. Da solo o con la mamma, andavo in quella cartoleria vicino a casa, chiedevo i libri, i quaderni, le matite, colorate e non, l’album da disegno. Mi piaceva tantissimo il profumo di quella botteguccia, la signorilità della proprietaria che concedeva la possibilità di comprare qualcosa che si sarebbe trasformato in altro. Era un profumo che restava dentro, come l’imparare. Ho imparato un profumo prima di compitare, di far di conto. Poi c’era la scuola: qualunque cosa si facesse era un nobile inizio, magari fatto di spintoni, cartelle gettate, graffi e urla, ma era un inizio intinto di sacralità sociale. Non sapevo nessuna di queste parole, però avevo capito tutto quello che c’era da capire. 

In Russia la scuola inizia il primo settembre. In Ossezia, repubblica autonoma della federazione Russa, il primo giorno dell’anno scolastico, era una festa. I bambini più grandi, quelli che finivano il ciclo, accompagnavano i piccoli nelle classi e questi davano un fiore a quelli che avrebbero fatto un’altra scuola.  Un accogliere e un lasciare che aveva un grande significato simbolico di trasmissione tra età. La festa a Beslan, nell’istituto n.1, era stata preparata con cura, come in ogni altra scuola. Bambini, mamme, insegnanti, nonne, papà, bidelli, più di mille persone. E i bambini avevano il profumo della scuola, del nuovo che iniziava. Mentre ciò accadeva, da un posto imprecisato, si stavano avvicinando su auto e camion, 32 persone, tra essi, due donne. Erano armati, avevano grandi quantità di esplosivo. I ceceni non amano gli ossezi, questioni antiche, ma non c’era un odio quale quello che i primi avevano per i russi. Chissà perché scelsero una scuola e osseta, non russa. I primi spari sembravano palloncini che scoppiano, nessuno capiva cosa accadeva, poi i primi morti, una ventina. Tra essi molti bambini. Il resto della cronaca, compreso l’eccidio finale, potete leggerlo sulle molte fonti in rete, che mettono in luce, anche le contraddizioni e i misteri di quella strage. Alla fine i bambini uccisi furono 186 e 148 gli adulti ostaggi, poi altri morti furono tra i terroristi, le forze speciali, i soccorritori.

Furono tre giorni e due notti: noi dove eravamo, cosa facevamo finché tutto accadeva? Non sarebbe cambiato nulla nell’esito, ma se avessimo davvero partecipato saremmo cambiati noi. Ed ora cosa resta di tutto quell’orrore?

Oggi pensavo alla mia scuola, anche allora c’erano feste d’inizio, oggi forse non ci sono più. E allora ho desiderato che in tutto il mondo si ricordassero i bambini di Beslan, che se ne parlasse nelle classi, senza paura, senza sfumare l’orrore. Che qualcuno si assumesse il compito di mostrare che tutto quello che accade è vicino e che tutto ci riguarda. E che non dobbiamo cancellarlo per non essere soverchiati dal male ma combatterlo, capendone le ragioni. Eradicarlo insieme ai pali di confine per l’umanità. Non c’è un dentro il recinto e un fuori di esso. Bisognerebbe che questa persona facesse capire che non ci dev’essere neppure il recinto e che esso ci limita, non ci difende. E che il cuore dell’uomo non muta se non viene educato a capire.

Questo sarebbe un maestro che accompagna all’apprendere il mondo. E questa sarebbe la festa della scuola e il suo significato. 

tutto il tempo che vuoi


Dici: non ho tempo.

Che percezione di povertà non avere tempo, la vita si chiude in questa sensazione. Un nodo sale alla gola, un peso grava sul cuore. C’è chi sceglie la velocità per fare più cose e rispondere a una richiesta pesante. Fare tutto per essere adeguati. Ma di chi è e perché questa richiesta costringe e annebbia la visione della propria vita. E si proietta poi come una violenza anche  sulle vite altrui: non fai abbastanza, non tieni il mio ritmo. Poi c’è si rifiuta, si mette in disparte, sceglie l’isolamento dei tempi propri. Il caso estremo, la follia, è la gestione di un tempo e di un pensare privo di coincidenze, ma prima di essa tanti scelgono di mettersi in disparte, di dire un no che isola, che sembra trattenere senza ragione il flusso del fare.

Il tempo intanto è indifferente a tutto questo, scorre più o meno veloce in accordo con la nostra ansia. Non è responsabile della nostra povertà, ma al più ci ricorda che possiamo trattarlo da amico se ci rivolgiamo a lui secondo necessità. E, in fondo, è proprio il determinare ciò che ci serve a farci dominare il tempo: veloce o lento ma per me. Se si guarda con attenzione alla propria vita si trova tutto quello che serve davvero ed è possibile dire : hai tutto il tempo che vuoi, aspetto.

Se i conti non tornano mai è perché manca sempre un pezzo: il futuro, ma bisogna avere la pazienza di costruirlo.

Buon tempo a chi passa.

l’assoluto è adesso

Si andava al mare. Su questa sponda dell’Adriatico. Per anni si erano frequentate le rocce e il mare cristallino dell’Istria e Croazia, poi era scoppiata una guerra e si era tornati alle solite spiagge. Sembrava una cosa dappoco, in fondo eravamo tutti civilizzati dall’ultimo conflitto, no? Eravamo europei, anche più di adesso, e in Europa non ci sarebbero state più guerre. Era un patto chiaro e semplice, tra Stati moderni e civili.

Così quanto accadeva si vedeva da distante, dal mare, che poi era lo stesso, a Barcola, a Costa dei Barbari, come a Lignano o Jesolo, si continuava a fare il bagno, a prendere il sole. Nessuno pensava che arrivasse una barca dall’altra parte, che ci fossero profughi, eppure con un buon motoscafo erano distanti un paio d’ore di mare. Però arrivavano le notizie degli scontri, gli eccidi, le bombe. Sarajevo e il suo ponte che saltava, Ragusa bombardata, Spalato, Zagabria, ma ancor più Tuzla, Skopje, Pristina, fino all’orrore di Srebrenica. Come un corpo che si risvegliasse impazzito, quella che per noi era ancora la Jugoslavia, si scrollava pezzi di carne viva e pezzi si staccavano, ritrovavano ragioni e assetti che risalivano a conflitti antichi di luoghi, religioni, di guerre tra turchi e cristiani.

Arrivavano notizie e durante l’anno s’aiutavano i profughi che s’ ammassavano in Istria e in Dalmazia, ma sembrava fosse lì lì per finire senza orrore. In fondo si relativizza anche se nei telegiornali, nelle fotografie degli inviati di guerra, l’orrore cresceva. Però la Bosnia, il Kossovo, sembravano così distanti… Come l’Africa adesso. Alcuni dicevano: sono fatti così, sono slavi. Come ci fosse un’abitudine all’atroce che riguarda alcuni e che periodicamente risale dal profondo e noi ne fossimo immuni. E così si andava al mare e non ci si pensava più di tanto. Era vicino, ma per le nostre teste tarate sui percorsi delle auto che ci portavano a quelle spiagge, sembrava tutto distante.

Anche oggi andiamo al mare e non capiamo cosa avviene sull’altra sponda, non diamo importanza, sembra non ci riguardi. Anche perché in Libia mica ci andavamo al mare, magari in Marocco o in Tunisia sì, ma quando mai in Libia. Basta restare da questa parte e poi passerà.

Noi andavamo al mare vent’anni fa o giù di lì, e si pensava finisse presto. Eravamo distanti dalla realtà più che dai luoghi, perché quella realtà non ci piaceva, come adesso, non era quella che avremmo voluto, non è quella che vorremmo. E allora bastava metterla distante e non pensarci più.

In ricordo di un uomo grande: Alexander Langer. Perché per essere uomini bisogna vedere e capire e lui non si rifiutò mai di farlo.

auto recensione

Leggo abbastanza addietro e trovo una scrittura puntuta, asciutta. A tratti nervosa. Ricca di insoluti. Un pensiero che borbotta tra sé e poi esce per incontinenza. Più sotto, sento il raffrenarsi perché dire troppo non conviene mai. Spesso le chiusure si sospendono, lasciano i compiti per casa, le soluzioni aperte. E cosa c’è di meglio di una chiusura che apre?

Gli aggettivi non ridondano, c’è una ricerca delle parole nella memoria, non nel vocabolario, si sente che esse portano ad altro e affascinano. Mancano, o sono rare, le similitudini e quindi è attenuata la voglia di trarre un insegnamento generale dal particolare. L’aforisma però è presente, la sua asciuttezza ammalia lo scrivere. È pur sempre un po’ moralistico, ma ha la funzione di mettere in ordine le idee e aiuta chi si contrappone: a nettezza si risponde con nettezza.

Complessivamente è il giorno a fare da padrone: ciò che accade urge e trabocca. C’è un piacere nell’urgenza, ovvero quello del consumare perché il tempo lineare non concede ripetizioni. Emerge la necessità di avere più tempi a disposizione, e lasciare che ognuno possa dare ciò che può. Sono scritti notturni o diurni, formazione che è salita, con gioie e fatiche inattese. Insoddisfazione, che implica necessità di soddisfare. Perfezione e innocenza per andare oltre alla realtà, così imperfetta e complicata di colpe non sue. Autoironia e consapevolezza dei limiti messi in una tensione febbrile, vissuta molto più dentro che nelle parole che anzitutto parlano al sé. Priorità, per fortuna, alterate rispetto a ciò che conviene ed è utile. La ricerca di un equilibrio non è pace, ma oltre. E in questo oltre c’è il futuro.

la psicoanalisi del feng shui

Una premessa è doverosa, quanto segue è poco più di una sensazione, un’ubbia di cui tengo conto, ma non è definita nell’analisi, prendetela come un inizio di riflessione e magari passate ad altro. Mica m’offendo.

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Oltre alle persone, cos’è che fa di una casa, un luogo percepito come sentimentalmente caldo, come possibile contenitore di felicità?

Ho l’ idea che le case, i luoghi che una persona ha abitato abbiano -e conservino- una loro immagine di felicità o meno. Anche per chi abita dopo, resta qualche sensazione di chi ha abitato prima. C’è una differenza tra una casa nuova ed una abitata magari da molto tempo, da molte storie e molti rimaneggiamenti. Non voglio parlare di cose che sconfinano nell’esoterico, ma molto semplicemente già interessarsi a chi abitava precedentemente è un rendersi conto che quella casa, quelle stanze, sono state viste e sentite con altri occhi, altre sensazioni.  

I luoghi seguono nell’umore i loro abitanti, ovvero sono allegri o tristi o indifferenti, e questo non dipende solo dalle persone, e neppure solo dalla bellezza o dagli arredi. C’è un’ iterazione del tutto con noi che, inconsapevoli pupari, tiriamo i fili del nostro ben essere ovvero del suo contrario. Quindi almeno c’è una necessità di essere consapevoli che i luoghi ci possono influenzare e che “governarli” va verso lo star bene.

Ma da cosa dipende questa sensazione? Dal colore delle stanze? Dalla luminosità? Dalle cose che contenute?  Il fatto che quel luogo sia cresciuto con noi, che sia nostra immagine?

Quand’è che una casa, anche la nostra, diventa il posto dove rifugiarsi, ma non è automaticamente il benessere che vorremmo?

Se torniamo indietro nelle nostre vite e pensiamo alla casa dell’infanzia, alle sue stanze, come la sentiamo? Era generatrice di felicità oppure solo contenitore delle persone?

Con queste domande vorrei afferrare quello che interagisce con le persone, che porta la casa oltre la sua funzione di sicurezza ed espressione ed entra nella percezione di essere un posto in cui si sta bene. Trovo elementi fisici, che chi fabbrica complementi d’arredo conosce bene, ad esempio i colori chiari, pastello, che infondono serenità. L’abbondanza di luce che aiuta ad essere più positivi, a guardare fuori della casa stessa e di noi. I mobili che scegliamo e non subiamo, le cose che diventano una nostra estensione, quindi parte di ciò che sentiamo. Potrei continuare pensando che lo spazio fisico è comunque un contenitore di desideri realizzati o meno e che questo influenza il grado di soddisfazione e quindi di benessere. Ma tutto questo non basta a far dire che quel luogo sia il possibile contenitore della felicità. Ecco, io penso che una casa sia un insieme che interagisce con i suoi abitanti e che viene percepita come un luogo felice se viene riempita di condizioni di equilibrio, di dinamiche non aggressive, di desideri soddisfacibili, di comunicazione attiva.

Se vado indietro nelle case della mia infanzia ci sono parti che sento come luoghi del ben essere ed altri invece come negativi. Allora devo chiedermi quanto hanno influenzato quei luoghi, la mia famiglia, l’amore che è circolato. Ne nasce una psicoanalisi delle case e dei luoghi come contenitori di sensazioni e di decisioni, comunque non neutri, bensì interagenti. In qualche momento questo apprendistato a rapportarsi con i luoghi si è maturato e compiuto. A mio avviso è stato dopo che eravamo usciti di casa. Se si pensano i tempi dell’andarsene che coincidono poi, con un progetto di vita, la casa ne diviene espressione. Da allora noi ci misuriamo con le nostre famiglie d’origine, oltre che per amore,  per confronto su quello che abbiamo creato e quello che abbiamo ricevuto per costruirci come siamo. Man mano si procede con gli anni, si capiscono cose che un tempo ci hanno fatto male ed allora emerge il bene ricevuto, anche i luoghi vissuti distrattamente capiamo e sentiamo, ma in fondo se siamo diversi dai nostri genitori, se abitiamo in luoghi diversi, un motivo c’è ed è che ci siamo costruiti -ed abbiamo costruito- a partire da loro, anche materialmente, ma non siamo come loro. Se immaginiamo come sarebbero loro adesso al posto nostro, dove viviamo e come siamo, il confronto salta nella nostra testa: non li riconosciamo più. Od almeno lo spero, perché con tutto il giovanilismo che circola, il rischio di avere genitori e figli in competizione sul versante dell’età percepita, luoghi compresi, non è inusuale e così le categorie di confronto saltano, sostituite da una perenne comune adolescenza. 

Mi si può obbiettare che i luoghi siamo noi, che tutto viene riportato a noi e quindi che è fatuo cercare all’esterno ciò che già abbiamo, ma se anche questo fosse solo un sintomo, una traccia, perché trascurarla, perché non riconnetterla a ciò che si desidera, ovvero il ben essere e il ben stare?

Voler vivere bene ovunque modifica i luoghi, ma dove si permane li modifica di più, siamo esigenti e non è incidentale il fatto che un luogo venga sentito come desiderabile, positivo, caldo. Questa sua natura percepita dipenderà da come noi lo viviamo, in tutti i sensi.

 

pronomi personali

L’io sembra essere il pronome prevalente della nuova comunicazione. Sono stato educato a non usarlo pubblicamente, ai miei tempi lo stile coincideva con il non apparire e anche la modestia veniva considerata un tratto positivo del porsi, ma adesso lo scrivere (anche mio, meno per fortuna il parlare) è zeppo di identità. Su fb si chiede cosa stai pensando, non cosa pensi di… , e la risposta non può che parlare di sé, o direttamente o attraverso il sentire.

Non so se ci faccia bene tutto questo centrare su di noi; da un lato siamo più consapevoli (forse), cresce l’autostima, dall’altro siamo più soli, abbiamo una misura di noi stessi e del mondo forzatamente limitata. Entrare ed uscire da noi stessi ci porta a vederci, e ad essere assieme agli altri, ovvero a pensare in termini di noi. Non è una minore considerazione o libertà, anzi direi che entrambe sono maggiori con questa modalità. Basti pensare a quanto ci stupisce trovare le consonanze con gli altri, proprio mentre ci sentiamo unici ed irripetibili. Proviamo sensazioni comuni, viviamo vite simili, usiamo oggetti ed abitudini allo stesso modo, eppure ce ne meravigliamo, mentre bene lo sanno gli esperti di marketing e di psicologia sociale.

L’unicità, l’io, è in quel 5%, forse, che ci portiamo dietro come dna, educazione personale, cultura, appartenenza per scelta, mescolati assieme alle qualità ed ai difetti di ognuno ( che, gioverebbe pensarlo, neppure questi ultimi sono così singolari), eppure quel 5% ci fa sentire molto parte di noi e poco parte degli altri. 

Come si dovesse dimostrare qualcosa, mentre non c’è nulla da dimostrare e già sentire questa necessità ci rende meno liberi. 

a proposito di abbandoni

L’amore è un’esperienza personale che a volte si condivide.

Cambia sempre profondamente e nella delusione, nell’abbandono, mette davanti al baratro del cinismo. Nel senso dell’assenza, scompaiono i voli, le felicità improvvise, l’acutezza dello sguardo, il sentire che trabocca e resta un senso di defraudato vivere. Poi non sarà solo il tempo che allevia, ma il dare nuova possibilità, mettendo una misura alla tristezza.

Il sogno e la realtà d’amare, quando si ricongiungono, annullano il passato, ma è difficile parlare di questo nel tempo dell’esperienza, della varietà, del numero. Ci sono amori finiti che s’alimentano d’altri consapevoli, ci sono amori che non si guardano mai allo specchio, amori che fuggono e, di converso, amori pazienti che attendono, amori silenziosi ed altri che hanno bisogno di urlare, amori allegri ed amori che vivono di dubbi. Tutti s’ingegnano nel mettere assieme il sentire con la realtà, sino a modificare ciò che sentono, come vi fosse un’educazione alla possibilità d’amare leggeri.

Così nell’abbandono è inclusa la speranza e la forza del nuovo, di ciò che verrà. Quasi impossibile vederla, bisogna lasciare che si faccia strada e cresca, poi la vita ricomincia.