san Valentino e il mal caduco

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La chiesa del Servi è una chiesa bella e strana. Parallela alla via Roma, una delle strade importanti del centro cittadino, ha la facciata romanica chiusa tra case, in vicolo corto e ortogonale senza il piazzale che contraddistingue l’accesso alle chiese. Ha un bellissimo e largo porticato, sopraelevato rispetto alla strada, contraddistinto da archi leggeri, sorretti da dieci colonne esili di marmo rosso che provengono dalla chiesa del Santo. L’ingresso principale è proprio sotto questo portico e quindi laterale rispetto alla navata. Questo mi ricordo che varcavo, accompagnato da mia nonna, il giorno di san Valentino. Di certo non guardavo il meraviglioso crocifisso ligneo di Donatello, neppure notavo gli affreschi o l’altare maggiore, perché lo scopo era di far benedire una piccola chiave di alluminio o bronzo, molto strana perché aveva una testa trilobata che non vedevo in nessuna chiave, e che mi sarebbe stata appesa al maglione per qualche giorno. L’altare presso cui avveniva la benedizione è un altare imponente e incongruo rispetto alla chiesa. Barocco, di grandi dimensioni, proprio in corrispondenza della porta laterale e che per questo sembrava l’altare principale, come se chiesa fosse un pensiero disordinato, privo di equilibrio. Guardavo le statue, l’affollarsi di bambini, nonni e mamme, i ceri accesi, le colonne tortili e aspettavo finisse perché il premio sarebbe stato qualche dolciume prima di tornare a casa.

Per molti anni mi sono chiesto cosa significasse quella piccola chiave, perché chiaramente era un simbolo e ciò di cui mi parlava mia nonna non era cosa che conoscessi: san Valentino proteggeva dal mal caduco. Non si parlava di innamorati, quelli vennero poi, e non sapendo di quale male si parlasse, semplicemente accettavo il tutto come una delle ritualità magiche che costellavano l’educazione di un bimbo in quegli anni. Poi ho capito che il male era l’epilessia e che il dialetto era molto esplicito, riferendosi al cadere a terra convulso. Però restava l’enigma della chiavetta e quello l’ho collegato poi, alla povera terapia immediata del popolo perché si metteva una chiave tra i denti della persona  in crisi epilettica per evitarne il soffocamento.

Passando sotto al portico dei Servi, riflettevo, qualche giorno fa, sulla potenza dei simboli. Ne ho parlato con mio figlio, che non ha nessuna di queste esperienze, e capisco che con la mia generazione si chiude un’epoca. Non riguarda solo una religiosità popolare che pervadeva di processioni, reliquie e miracoli,  città e campagne, ma di un modo di intendere la vita dove magico, religione e speranza interagivano con la vita quotidiana. Di fronte all’impossibilità e al mistero, non restava che il miracolo, il rito e la protezione del simbolo. Non rimpiango nulla, capisco solo che è finita e che ciò che era vivo ora si trasferisce nei testi di antropologia.

Certo, non è così lineare il ragionamento religioso ufficiale, c’è altro se due santi, uno anche dalla mia città, sono stati portati a Roma, proprio per riconoscere che il rapporto con il mistero non ha un canone, non c’è una regola, anzi si riconosce che il popolo si costruisce una sua religiosità che deve trovare riscontro in quella ufficiale sennò semplicemente si tiene la sua. Questo mi farebbe pensare a un relativismo ufficiale, da parte di chi lo ha sempre rifiutato agendo attraverso il dogma, e quindi un capire,  un ammettere il dubbio e il diverso  nel proprio terreno. Alla buon’ ora  per chi, come me, non ha dogmi, ma principi, non ha religione ma rispetto e dubbi per ciò che non capisce, ma non è questo che mi fa riflettere. È il senso di un mondo che c’è nelle persone e che cerca nei simboli comuni. Un mondo che reinterpreta la paura e l’insicurezza ma non collega, e ha una cultura fatta di singolarità. Servirebbe De Martino per capire cosa ci sia dentro la società fluida e come essa sia nei gesti e nelle credenze di tutti i giorni. Io avevo una maestra , mia nonna, che mi trasmetteva un passato con riferimenti tangibili, mio figlio questo lo può avere solo attraverso i libri o dei ricordi. Finisce un’epoca, per l’appunto, i ricordi sono passato quando non interagiscono col presente, e l’irrazionale non può essere controbattuto. Ho l’impressione di una povertà senza nome, e un rimpianto, non di un’epoca o di riti, ma di qualcosa su cui ragionare e differenziare le vite avendo un senso comune.   

primo settembre


Dov’ero il primo settembre 2004? E nei due giorni successivi che facevo? Ho risposte a entrambe le domande e una piccola vergogna: ascoltavo le notizie con il distacco che provoca, anche in chi è attento, il sovrapporsi della cronaca nera al vivere comune. Non per espungere ciò che potrebbe toccare il nostro idilliaco mondo, ma l’eccessiva presenza di disgrazie ci fa abituare alla violenza che non riguarda il mondo vicino, ci si assuefa e si delimita il mondo tra un dentro e un fuori, come se la violenza fosse il rumore di fondo del mondo, il cigolio del ruotare, ma riguardasse altri.

Le scuole iniziavano ad ottobre, quand’ero bambino. Nel mese precedente si era nostalgicamente liquidata la vacanza e iniziava qualcosa che aveva odore d’inchiostro nero e di carta. Da solo o con la mamma, andavo in quella cartoleria vicino a casa, chiedevo i libri, i quaderni, le matite, colorate e non, l’album da disegno. Mi piaceva tantissimo il profumo di quella botteguccia, la signorilità della proprietaria che concedeva la possibilità di comprare qualcosa che si sarebbe trasformato in altro. Era un profumo che restava dentro, come l’imparare. Ho imparato un profumo prima di compitare, di far di conto. Poi c’era la scuola: qualunque cosa si facesse era un nobile inizio, magari fatto di spintoni, cartelle gettate, graffi e urla, ma era un inizio intinto di sacralità sociale. Non sapevo nessuna di queste parole, però avevo capito tutto quello che c’era da capire. 

In Russia la scuola inizia il primo settembre. In Ossezia, repubblica autonoma della federazione Russa, il primo giorno dell’anno scolastico, era una festa. I bambini più grandi, quelli che finivano il ciclo, accompagnavano i piccoli nelle classi e questi davano un fiore a quelli che avrebbero fatto un’altra scuola.  Un accogliere e un lasciare che aveva un grande significato simbolico di trasmissione tra età. La festa a Beslan, nell’istituto n.1, era stata preparata con cura, come in ogni altra scuola. Bambini, mamme, insegnanti, nonne, papà, bidelli, più di mille persone. E i bambini avevano il profumo della scuola, del nuovo che iniziava. Mentre ciò accadeva, da un posto imprecisato, si stavano avvicinando su auto e camion, 32 persone, tra essi, due donne. Erano armati, avevano grandi quantità di esplosivo. I ceceni non amano gli ossezi, questioni antiche, ma non c’era un odio quale quello che i primi avevano per i russi. Chissà perché scelsero una scuola e osseta, non russa. I primi spari sembravano palloncini che scoppiano, nessuno capiva cosa accadeva, poi i primi morti, una ventina. Tra essi molti bambini. Il resto della cronaca, compreso l’eccidio finale, potete leggerlo sulle molte fonti in rete, che mettono in luce, anche le contraddizioni e i misteri di quella strage. Alla fine i bambini uccisi furono 186 e 148 gli adulti ostaggi, poi altri morti furono tra i terroristi, le forze speciali, i soccorritori.

Furono tre giorni e due notti: noi dove eravamo, cosa facevamo finché tutto accadeva? Non sarebbe cambiato nulla nell’esito, ma se avessimo davvero partecipato saremmo cambiati noi. Ed ora cosa resta di tutto quell’orrore?

Oggi pensavo alla mia scuola, anche allora c’erano feste d’inizio, oggi forse non ci sono più. E allora ho desiderato che in tutto il mondo si ricordassero i bambini di Beslan, che se ne parlasse nelle classi, senza paura, senza sfumare l’orrore. Che qualcuno si assumesse il compito di mostrare che tutto quello che accade è vicino e che tutto ci riguarda. E che non dobbiamo cancellarlo per non essere soverchiati dal male ma combatterlo, capendone le ragioni. Eradicarlo insieme ai pali di confine per l’umanità. Non c’è un dentro il recinto e un fuori di esso. Bisognerebbe che questa persona facesse capire che non ci dev’essere neppure il recinto e che esso ci limita, non ci difende. E che il cuore dell’uomo non muta se non viene educato a capire.

Questo sarebbe un maestro che accompagna all’apprendere il mondo. E questa sarebbe la festa della scuola e il suo significato. 

sterminata l’estate e il mare

La vacanza sembrava infinita. Non c’era una percezione del tempo, si procedeva sino a sazietà e il penultimo giorno era come il primo. Non si tornava mai prima di una fine naturale. Finiva agosto, finiva la vacanza. Erano quattro settimane precedute dall’inizio estate che pure era alterazione d’ogni abitudine e dovere, e quindi vacanza. Allora appresi il significato della parola sterminato e il suo applicarsi all’indeterminato tempo, luogo, spazio. Sterminata era l’estate finché durava agosto. Sterminata era la spiaggia che s’inoltrava tra le altissime dune, tra i fiori spinosi, tra le piante acuminate, tra i percorsi lunghissimi degli scarabei. Prima d’inerpicarsi su una cima, presa sempre di corsa perché scivolava e franava con noi, e prima di rotolarsi giù per un pendio sino al fondo di sassolini e sabbia, non c’era alcun pensiero di fine, di tempo. Era una corsa seguita da una corsa, un gioco che proseguiva in un altro perché oltre quella duna c’erano altre altissime dune, sino all’ultima da cui si apriva il mare. Messo di traverso al tramonto e più propenso all’alba, ma anch’esso sterminato e pieno di tempo, fantasia, cose. Fossero le vele o una nave lontana, i pesci enormi trascinati a riva la sera, i legni e le cose che ogni mattina faceva scoprire, fosse questo e il molto d’altro che mostrava, era comunque una piccola parte di quell’immenso che conteneva e si perdeva in una nebbiolina di calore, là, in fondo, nell’orizzonte. Incontinente il mare, ma contenuto in una testa ricciuta, in un corpo nero di sole, in un ansimare di fatiche gioiose. Contenuto, perché tutto sta dentro nella testa di un bambino, nulla è precluso e superare la paura coinvolge come il racconto che poi si farà d’essa. A cose fatte, nasce lo sterminato tempo di ciò che si potrà fare. Poi.

C’era un prima, un attendere insonne prima di partire, che faceva parte del magico rituale del lasciare, eppoi un dopo, un consumato tempo altrove che avrebbe reso estranea la porta, la scala, le stanze, persino i pochi giochi lasciati. Al ritorno la luce scemava prima, cambiavano gli odori, prima così forti ed estenuati di sole, e ora vellutati d’ombra odorosa di rosse fraganze e di frutta matura. Un senso di cominciamento, meno felice, era alle porte. Se sconfinato era il tempo della vacanza, lo straniamento del ritorno non faceva paura, casomai meraviglia. Cominciava qualcosa, e si era quelli di prima ma diversi, e ci pareva, nuovi.

anguriare non era un verbo

A giugno, improvvisamente, apparivano in ritagli di verde, accanto a strade che uscivano dalla città, sotto alle mura, in quello che era stato il guasto ed ora era prato senza giochi. Ancora, altre, erano vicine a crocicchi di periferia, oppure sotto agli argini dei fiumi che contornavano la città. Comunque mai in centro, erano giudicate, nella loro precarietà, poco consone ai palazzi, alle strade che avevano ricevuto innumeri passi importanti, però erano facilmente raggiungibili. Erano le “anguriare” in dialetto, e noi ci scherzavamo evocando un verbo per definire l’atto del mangiare anguria: io angurio, tu anguri, noi anguriamo, ecc. e giù risate. Le anguriare erano baracche precarie d’assi e travi, con vecchie panche e tavoli coperti d’incerata a quadretti rossi e bianchi. Allegre di bandierine verdi, rosse, blue, di carte veline ritagliate in casa, pavesate tra luci di nude lampadine. Bandierine e lampadine erano appese a fili di rame, vestiti di treccia di cotone, gli stessi delle case, e avevano l’anarchia del quotidiano tolto dalle case, con la stessa gioiosa precarietà che il moderno portava con sé.

Si arrivava a piedi o in bicicletta. Restavano aperte sino a tarda notte ed erano luogo di solitudine  o di conversazione interminabili davanti a una fetta d’anguria. Il bancone zincato, in quelle più pretenziose, oppure un piano di marmo, sotto una tettoia e di poco a lato, una grande tinozza piena d’acqua dove le grandi angurie sgomitavano e si raffrescavano per ore prima d’essere scelte, tagliate a mezzo e poi in quarti per essere consumate tra parole e silenzi, sputi di neri ossicini, pensieri,  risate. Le fette non vendute venivano messe sotto reticelle fitte che arginavano le mosche. Una parvenza di igiene dove nulla era davvero pulito, a partire dall’acqua che solo a volte veniva da una fontana vicina, ma più spesso da pozzi oppure addirittura dal fiume.

Mio zio prese il tifo in una estate molto calda in cui le anguriare fecero grandi affari. La colpa fu attribuita dai nonni, a frutti troppo maturi e a un melone che doveva essere già marcio. Fu portato all’ospedale, erano in sei in una stanza con le pareti bianchissime di calce, le suore infermiere avevano grandi grembiuli bianchi, le lenzuola erano rattoppate ma bianche e fresche di lisciva. Sopravvisse solo lui, era fortunato, lo fu sempre nella sua vita, oppure quella volta era solo più in carne degli altri. Mia madre si impressionò molto della malattia, dell’ospedale e del modo in cui si poteva morire. Lei piccola e suo fratello ancora più giovane ne facevano una simbiosi particolare. Così di quella vicenda, tragica e fortunata, restò traccia e ne maturarono divieti oscuri e scaramantici. Non si doveva mangiare la polpa rosea vicino alla buccia, meglio evitare gli infidi meloni, dopo aver consumato la propria fetta, disinfettare bocca e stomaco con un po’ di grappa. Se qualcuno fosse andato ad analizzare l’acqua  in cui venivano lavati coltelli e cucchiai per gli avventori dell’anguriara avrebbe trovato  che in quel catino dove l’acqua veniva cambiata al mattino, c’erano gli stessi patogeni della febbre tifoide che facevano compagnia alle angurie che galleggiavano nella grande tinozza. Il tifo era endemico ed ogni estate colpiva, ma per chi lo subiva o vedeva, l’aver trovato un rapporto di causa-effetto, scenografico e semplice, ne dava una prevenzione e una cura sciamanica che avrebbe reso immuni. Andava così e se le cose si sono scolpite nella memoria, e credo nei modi di trattare l’anguria, qualche forza nella parola-immagine ci deve pur essere.

Comunque frequentavo le anguriare nella mia giovinezza, nel loro rischio calcolato, nel fascino della luce fulgida e triste che le stagliava nella notte, nell’accozzarsi di persone diverse senza l’abitudine e la conoscenza dell’osteria. Ricordo la loro freschezza nella notte, i lampi veduti in lontananza verso i monti, il parlare più quieto nell’ora tarda, le prostitute che venivano a mangiare una fetta d’anguria, sospendendo il lavoro sulla strada e sui prati vicini, ricordo le sigarette scambiate a fine pacchetto, la bocca impastata di fumo e di sonno e la bottiglia di grappa che stava su un lato del bancone. Nuda, senza etichette e un tappo di sughero, un bicchierino costava più della fetta, ma ci voleva. Per disinfettare, per disinfettarci dentro da quella vita di deriva che pullulava attorno nella notte e che non aveva speranza. Noi avevamo una nostra allegria, vita davanti, passioni tutte nuove, ma loro che lavoravano in strada o già a quell’ora andavano al mercato o nei magazzini vicini a scaricare casse, che vita avevano? Solo bestemmie dette piano, e lavoro, un lavoro che consumava e niente speranza. Quella era andata negli anni in cui sembrava tutto possibile, il buono e il meno buono, e a loro era toccato questo, ma almeno il tifo non c’era più 

tende a righe

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Un cane abbaia nella calura del meriggio. È un insistere malato, fatto di scoppi di voce senza oggetto, s’abbassa e poi riprende. A fermare il sole, sulla porta, c’è una tenda pesante, a righe. È fatta di quei tessuti che si trovavano un tempo ovunque, dai mercatini ai negozi. Ed erano gli stessi delle sdraio al mare, quando ancora erano fatte di legno e la tela era di canapa e cotone pesante tinta in filo. Abbiamo avuto tende simili ovunque. Ogni casa di parente aveva le stesse tende. La nonna, (non la mia, io avevo una nonna personale), abitava in periferia, dove le strade diventavano sempre più strette e tortuose e le case e i campi si confondevano. Lungo la strada s’addensavano piccole costruzioni, dietro c’erano piccoli appezzamenti coltivati a vigna, a granturco, a orto, ogni tanto un’ osteria che nulla aveva di diverso, dalle altre costruzioni, se non una piccola aia sotto la vigna, i tavoli e gli uomini che cercavano l’ombra fumando. Le case erano basse, sovrastavano di poco il granoturco maturo e viste dai campi sembravano spuntare tra gli steli come fossero parte del campo. Di fianco avevano un orto, le zigne, le dalie, una rosa rampicante, gerani e garofani in vasi di conserva. La porta che dava sull’orto, d’estate, era aperta; gli scuri delle camere accostati. I davanzali la mattina presto accoglievano cuscini e lenzuola, poi col crescere del sole e del caldo, tutto s’accostava, ma non la porta che restava aperta e riempiva la cucina di una luce densa di penombra. E la tenda pesante si gonfiava d’aria fresca interna che lottava con l’aria rovente che voleva entrare.

Il pavimento era di mattoni rossi allineati di taglio in spine e disegni. Giocavo per terra seguendo le commessure come cigli di labirintiche strade. Steso, sentivo il profumo acuto del pomodoro che scivolava sotto la tenda, e anche allora un cane abbaiava. Le ore pomeridiane erano silenziose, gli uomini al lavoro. Le donne facevano lavori da calura: qualche rammendo, l’uncinetto, e parlavano piano anche se nessuno dormiva. Ma il sole era un lottatore, gonfiava la tenda e gettava all’interno vampate di odori selvatici, caldissimi e forti: erbe, piante, granoturco che biscottava le foglie. Allora qualcuna delle donne si alzava, accostava la tenda e prendeva una caraffa di acqua freschissima, tagliava i limoni, aggiungeva lo zucchero e mescolava. Da ultimi, pezzetti del ghiaccio acquistato il mattino. Quel bicchiere imperlato di brina, il liquido fresco e nebbioso, mi sembrava un nettare e l’unica ragione per cui quel cane, che ne era privo, continuasse ad abbaiare sotto al sole. E invece era a catena come noi, ma noi non lo sapevamo.

fatto di cronaca

Nel vicolo dove abitava mia cugina, era accaduto qualcosa di terribile. Lei ne parlava a bassa voce, voleva proteggerci, noi bambinetti, più abituati alle favole e le corse che alla realtà. E poi il fatto non era accaduto nel vicolo, ma in montagna. Nel bosco.

La montagna e il bosco, per me, bambino di città, erano una illustrazione di sussidiario, un manifesto di vetrina invernale. E la fotografia che c’era sul giornale la vedemmo quasi di sfuggita. Era una di quelle foto di allora, fatte di pallini con tonalità di grigio, che mostrava delle lenzuola bianche stese a terra, tra quelli che si intuivano alberi. A lato, il bordo di un’auto, poi il titolo, quello che mia cugina aveva solo sussurrato, attutendolo: Ragioniere stermina la famiglia e si suicida.

Loro abitavano in fondo al vicolo, in una villa con giardino protetta da un cancello oscurato da lamiera grigia. Noi giocavamo spesso lì vicino, era il luogo dove non destavamo preoccupazioni e il cancello faceva da porta per il calcio. Ogni tanto l’auto arrivava, suonava il clacson, il cancello veniva aperto da un cameriere, l’auto entrava e tutto si chiudeva. Quando accadeva, noi ci fermavamo, attratti da quella vista preclusa, ma alla fine della villa conoscevamo solo la forma di casa squadrata, la ghiaia del cortile, i grandi alberi dello sfondo, il cameriere con quella buffa giacchetta a righe e lui che guidava. Ci pareva anziano: non aveva neppure 50 anni quando si suicidò dopo aver ucciso tutti.

A quei tempi le notizie erano pudiche, il suicidio peggiore dell’omicidio, mia zia parlò di dissesti finanziari. Disse proprio così: dissesti finanziari e fece seguire il commento esplicativo: el se gera rovinà (si era rovinato). Non capivo bene quella parola, che evidentemente era stata letta sul giornale, ma già il fatto che qualcuno si fosse rovinato sembrava più una ferita grave a sé che qualcosa che avesse a che fare con il denaro. Mio zio aggiunse: el gera falio (era fallito). E così finirono i discorsi, nessuno rispose alle nostre domande e non se ne parlò più. Anche tra noi non ne parlammo più, però rimase un’aria di sospensione su quel luogo e facevamo fatica ad andare a giocare sul fondo del vicolo, così spostammo i giochi verso il Prato, sotto il portico.  

Non ho mai capito quelle morti, mi sembrava tutto così assoluto e relativo, come esistesse un mondo parallelo in cui quelle cose avvenivano e però non era il mio. Mio padre, tempo dopo, parlando d’altro, disse che ci si uccideva per onore. Sembrava che questo, nei dissesti, riparasse i debiti, ma non salvava la famiglia dalla miseria. Registravo ciò che mio padre diceva, come fanno i bambini che tacciono finché la testa lavora e collega, e il pensiero tornava sul vicolo. Quei due ragazzi, la moglie, le lenzuola della foto sul giornale. Mi pareva tutto sbagliato: non gli era stato chiesto nulla, qualcuno aveva deciso per loro ed erano spariti dalla realtà pur continuando ad esserci nel pensiero.

Anche adesso, e accade spesso, quando passo davanti al vicolo, il pensiero torna e ho la sensazione di una ferita nel giusto, di aria che manca. Poi il pensiero va altrove, ma una lapide che ricordasse quelle morti ingiuste io la mettterei.

attenta al rilucere dei tuoi occhi

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dono e rubo:

attenta al rilucere dei tuoi occhi,

l’ho bevuto per bisogno,

chi mi condannerà?

ma altro ci potrebbe essere

che ti potrei donare.

Ricordi qualcosa che non vuoi perdere ?

Cerca tra i tuoi giochi, quello più caro,

era te,

dove l’avevi nascosto?

Quello era prezioso e mai l’avresti prestato,

avevi ragione, era te,

chissà dove l’avrai messo…

Se vuoi trovarlo ribalta i tuoi pensieri,

cerca nell’attrazione,

in fondo è un po’ lo stesso, 

scoprirai ciò che non trovi.

E non parlarmi di malinconie,

di pomeriggi appiccicosi,

cerca e trova, 

nessuno m’ha insegnato ad assolvermi davvero.

E a te?

quel vantaggio

Quel vantaggio che ti faceva dire –lei, la giovane- è poi sfumato col tempo. La superiorità d’aver visto di più si scioglie con gli anni. Ma non ci si pensa quando è ora, e adesso che l’età non conta, avreste da parlarvi, ma non si può più. Del resto l’avete fatto poco anche allora: erano più le cose della vita che parlavano per voi. Tu eri ribelle e lei no.

Ricordi? ce lo siam detti che un tempo si parlava poco: c’era pudore dell’io e del sé. Ma i gesti, quelli sì, parlavano. E mentivano molto meno.

Pensando alle mie storie, capisco come posso i giovani. Le ragioni non sono mai le stesse, tranne alcune, come allora. E sono importanti perché è la vita che ci tiene assieme. La giovinezza ti si rivolta contro se non condividi e con l’età questo diventa difficile per alcuni, ma non per me.

Come cantavi piano: a conquistare la rossa primavera.

E c’era sole ed era d’aprile.

E sorridevi.  

quant’è bella giovinezza

Si pensa d’invecchiare come le bottiglie nelle cantine, allineate, quiete, ordinate. Ciascuna con il suo significato, la sua storia, in un ambiente favorevole alla conservazione del meglio che si ha.

Non è vero.

Quelli della mia generazione dovrebbero invecchiare per conto loro, senza commistioni, andando a trovare i genitori anziani che li fanno sentire vecchi ragazzi stanchi, senza più orecchie che li ascoltino.

Rifiutando l’età ci siamo trovati sballottati tra sogni, delusioni, ricordi, incoscienza del presente  e noia di ciò che ci raccontiamo.

Per questo rivaluto l’età, proprio per non vivere di passato o di qualcosa che non si è e forse non si è mai stati.

La cosa più importante è riconoscere la propria vita, guardarla con la giusta misericordia e amore, e poi dirsi: sì è mia, cammina, ha gambe solide, da qualche parte sta andando, mi piacerà starci assieme.