l’età e l’innocenza

op.80 e fantasia

la saggezza non mi interessa

Non vorrei prepararmi ad essere vecchio e saggio,
un signore che abita i suoi pensieri,
e guarda con nostalgia il piacere,
sentendo il dileggio di chi non condivide ciò in cui crede.
Non la vorrei un’età che ha il nome del bisogno,
ma vorrei vivere appieno ciò che ho lasciato in disparte,
riparare alla noncuranza e alla superficialità
delle altre età veloci.
Avere la passione delle meccaniche del cielo e della terra, gli orologi come oggetti e il tempo come amico. 0
Sapere che ogni giornata è ancora nuova,
che ogni anno è un pezzo dell’eternita
consegnata con l’accendersi del pensiero.
Lasciare una traccia in me,
nell’ironia che si riguarda e sente il bello che l’attornia,
godere del tempo, del bene, delle cose e non sentirne colpa.

entropie allegre

Chi non ha un segreto non ha nulla di allegro da raccontare. L’allegria quella mattina si spandeva sulla lunga piazza e i segreti dovevano essere tanti. In realtà la piazza era un viale molto largo ma da quando le auto non correvano più, era ridiventata la piazza ch’era stata un tempo. Sotto i portici, nel cono d’ombra dei pilastri, ragazzi amoreggiavano. I bar erano pieni e il sole veniva preso in vari modi, chi si stendeva sulla sedia e offriva il viso, chi s’accontentava di quello che arrivava dai varchi degli ombrelloni, chi aveva deciso che era vacanza e si era steso sui gradini dell’antico porto e mostrava più pelle poteva alla luce. C’era un gran disordine, capannelli di discussioni, risate e attraversamenti a slalom tra biciclette e persone che andavano in tutte le direzioni, ma lentamente. Insomma un festina lente realizzato dove la percezione di ciascuno era parte di un tutto dai fini sconosciuti. Molecole di pensiero nell’aria, discussioni sulla freschezza dei tramezzini e bevande poco o medio alcoliche che venivano sorseggiate per punteggiare discussioni. Si parlava di tutto, dagli esami imminenti, ai risultati del campionato di calcio, si facevano progetti sul fine settimana e si approfondivano simpatie sull’orlo di traboccare in qualcos’altro. Si poteva discutere su come si assapora all’ombra della volta di un portico, il mezzo uovo, già un po’ verdastro, con l’acciuga arrotolata e il cappero stanco, redento dal vino bianco ghiacciato che velava il bicchiere. Si poteva chiamare ripetutamente il gestore del bar a testimone di una scena avvenuta sere prima, incresciosa ed ilare per ubriachezza non molesta ma nemmeno modesta e non ottenere risposta, tanto la cosa era ancora viva nel ricordo e nelle tracce sulla saracinesca del locale. Poco prima di mezzogiorno si era formata una lunga fila in attesa davanti alla focacceria, pizzeria e nel rispetto delle distanze, il chiacchiericcio allegro continuava. Una caratteristica della focaccia piegata a mezzo era il colare sulle magliette attraverso i pertugi della carta paglia in cui era avvolta, per cui la fontana aveva un gran daffare e le risate scomposte accompagnavano l’additare, formando nuove aggregazioni in cerca di asciugarsi al sole. Da una delle strade laterali era apparso il trio klezmer che suonava alle lauree, un contrabbasso, una fisarmonica e una tromba e aveva iniziato a sparare motivi balcanici, sperando in un’attenzione accompagnata da qualche moneta. E arrivavano le monete perché aggiungevano confusione allegra.  Anche troppa e per tacitare la tromba, qualcuno comprò una focaccia e gliela portò fumante.

Nella piazza allegra si mescolava la giovinezza, il guardar sottile dei perditempo seduti nelle sedie d’alluminio, il viavai delle biciclette di passaggio e un suono di folla scomposta a distanza di sicurezza che faceva vibrare l’aria. Così il rintoccare del mezzogiorno dalla campana posta nella cella sopra la porta, sembrò scivolare su un tappeto di pensieri, di chiacchiere, di aspettative e desideri, di appuntamenti e di ritrosie, di promesse sussurrate e di voglia di restare. Convinta di prolungare nell’infinito del qui e ora quella mescolanza di rimbalzi disordinati e allegri, l’aggregarsi per simpatie e per ricerca di vicinanza, l’entropia aveva bisogno di spontaneità e di scuse, di sigarette offerte, di parole senza peso e di conversare profondo. Si muoveva a ondate l’entropia e riempiva lo spazio, rimbalzava sulle case, cercava il cielo, dove le nuvole benevole e bianche osservavano come i non giovani erano lieti di quel muoversi, bevevano e pensavano che nel disordine allegro c’è la vita.

di mammut, piccoli fallimenti, ideologie e altro

Una zanna di mammut vale dai 30 ai 50 mila dollari e dove si trovano è diventato un terreno di caccia alla Jack London, nella Siberia estrema. Si scioglie il permafrost ed emergono le carcasse dei vecchi mammut. Come si fosse rotto il congelatore mentre eravamo in vacanza ed ora la carne marcisce. Quest’estate si sono toccati i 38 gradi, un po’ tanto per posti dove la pelliccia era anche nel costume da bagno. Così ci sono tre sciami di pensatori che si stanno incrociando in questi luoghi : i cercatori di zanne, i metereologi, i biologi molecolari in cerca di un pezzo di dna intero per tentare di clonare un mammut. Stranamente non sono in concorrenza, anzi pare si diano una mano. Qualche giorno fa un cercatore di avorio tirando una bella zanna si è visto emergere l’intero mammut con pelliccia e carne attaccata. Come accade in spiaggia quando uno pensa, ma che bel collare perduto e attaccato c’è il cane. Chiamati i biologi, a cui gli ossi non servono molto, c’è stato un movimento convulso che ha prelevato campioni a ripetizione, pare con buona probabilità di successo. Quindi,con la giusta pazienza magari il mammut ricompare e caracollerà per la Siberia, mentre noi ci accingiamo a scomparire. I metereologi carotano, cioè con le loro trivelle tirano fuori cilindri di terreno in profondità e ci avvertono da tempo che il permafrost non ha dentro solo mammut, ma praticamente tutto il biologico che c’era qualche centinaio di migliaia di anni fa, virus compresi. Passi per il biologico ma il permafrost è soprattutto è un serbatoio di anidride carbonica e metano in grado di cambiare in poco tempo, se liberato, l’atmosfera. Un paio di scienziati russi, aveva proposto di fare uno sforzo mondiale per congelare il tutto. C’era da spendere una bella somma ma il terreno sarebbe rimasto gelido. La proposta è sparita tra i risolini dei fautori del presente, che il metano non lo vogliono neppure nell’auto e che continueranno a girare con i loro suv condizionati a benzina o gasolio o elettrici con corrente prodotta da carbone o petrolio. Quindi poca speranza per il futuro, il trumpismo ha un fascino che è difficile da scalzare anche quando vincono i democratici. Forse il problema lo risolveranno gli stessi biologi molecolari se abitueranno i nostri polmoni a respirare le nuove misture, e magari se lo faranno con qualche milione di specie animali e vegetali che avranno problemi analoghi.

Nel giorno che segue l’equinozio, la notte comincia a guadagnare terreno, la luce si rintana. In realtà gioca a nascondino con noi, ci invita a cercare nelle ombre che si allungano dove abbiamo messo le passioni, le speranze che si gettavano impavide nel tempo, i piccoli segreti da condividere con chi non solo li conservava ma li considerava preziosi. C’è un mostrare e un celare che ha preziosità incredibili e non ha contraddizioni con la verità del dire. Si potrebbe pensare che siamo in ossimori da acrobati della parola, politicanti da strapazzo insomma, invece parlo del confidare profondo, del dire a pochissimi, del perseguire ideali fuori moda ma estremamente duraturi. Come il rosso e il blu. Insomma in quella strana mistura che sono le nostre vite ci sono comunicazioni profonde e particolari che uniscono, che fanno battere più forte il cuore e che non badano molto alla luce ma si alimentano di qualcosa che ciascuno dona: la fiducia. E per parlare della fiducia bisogna aprire una tenda oltre la quale si possono nascondere la delusione e il fallimento. Se considerassimo che sono questi due momenti, quelli che spingono a fare, che se superate, riaprono a un nuovo inesplorato, forse la vita verrebbe considerata per intero. Nessuno ha avuto tutto quello che si aspettava, ma chi ha detto che ne aveva automatico diritto? E se da una delusione nascesse non un modo duro di vedere il mondo, una corazza, ma un’esperienza che aiuta a intraprendere una nuova strada, a conoscere meglio persone che prima avevano solo parte della nostra attenzione. Se quel sipario aperto in realtà mostrasse noi stessi, la nostra verità e l’incapacità di vederla fino a quel momento, non tutto sarebbe perduto e avrebbero senso le pozze d’ombra che meritano d’essere esplorate, le foglie che si muovono in mulinelli, le vetrine illuminate per gli oggetti e le persone ma rivolte a noi. Tutto questo percepire, se fosse nuovo, toglierebbe quella parola che spesso pesa e ci fa rivolgere indietro, fallimento. Una curiosità dolorosa e fattiva, un togliere al termine il peso del tempo ed ecco che fallire è l’eterno percorso del conoscere, dell’essere differente perché si aggiunge alla vita nuova esperienza, nuovo desiderio, felicità che attendevano e non sarebbero venute a noi.

Non so se riusciranno a clonare il mammut, neppure se ci salveremo, ma sono sicuro che molti ci proveranno e riproveranno facendo piccoli passi innanzi, sapendone di più e infine qualcuno dirà: questo funziona, non era facile ma adesso lo è. 

particolari

L’increspatura in un angolo, il ramo che appena spunta nel campo visivo, l’ ultima lama di sole sfuma l’ oscurità in segmenti d’oro. E legge titoli che si sentono abbandonati sugli scaffali.  Avevano il senso di una emozione, ora sono un contenuto a volte importante, a volte passato e testimoniano tempi e passioni. Che dire della con fusione se non che essa è un’ unione difficile, feconda, tirannica e rassicurante. C’è tutto il possibile non stato e il possibile compiuto. Tutto allineato, dentro e fuori, con fuso, e illuminato.

dialoghi con la mezzaluna

La sua mano era piccola, le mie di più, correggeva il prendere e il tenere, raccontava calma il pericolo. Stava attenta. Ero su una sedia per arrivare alla stufa, mi lasciava apparentemente fare. In realtà soddisfaceva una curiosità sapendo che presto mi sarei stancato e sarei tornato ai miei giochi poco lontani. La vita d’inverno avveniva in cucina, tra vapori e profumi di cibi forti, giocattoli sul pavimento, libri e quaderni sulla tavola. Mia nonna aveva ironia e pazienza, accettava dal nipote discorsi sconclusionati, canzoni allegre, silenzi e caparbietà. E siccome lei cucinava spesso, accettava anche le curiosità e la voglia di provare. Se sto volentieri in cucina credo dipenda da quel suo rendere piacevoli e poco costrittive le cose, ma anche dalla magia del soffiare sui mestoli di legno a cui accostare le labbra per assaggiare. Credo dipenda dai sapori intensi e dal ruvido profumo delle tradizioni che soffriggevano e si consumavano in interminabili cotture, dal senso di casa che tutto questo generava come anticipo dello stare assieme a tavola.

Il gusto del cibo e del farne per altri e per sé, senza volerlo e per naturale affetto, questo mi è stato insegnato, con una libertà inusitata, ovvero quella del poter avere il poco e il molto, senza altra regola che non sia il piacere. Penso a come è nata una piccola attenzione alle dosi dopo molti intrugli sperimentati assieme, al senso dell’accordo tra il mio gusto e quelli che avrebbero condiviso. Ci è voluto molto tempo e doveva avere uno stomaco d’acciaio, mia nonna. Forse le guerre e le difficoltà l’avevano temprata, o era quel bene immenso di cui mi avvolgeva che la faceva pazientemente provare le cose che mettevo assieme. Quello che ho appreso è nato lì, con quelle mani che guidavano e dicevano che bisogna girare in senso orario la polenta, restando attenti agli spruzzi (i sbiansi) e tenendo fermo il caliero; il paiolo inadatto ormai ai nostri piatti fuochi, ma incomparabile per fare di una farina grossolana, dopo 50 minuti, una crema morbida. E penso all’uso dei pochi strumenti che erano nel cassetto e facevano tutto senza ausilio di macchine: anche oggi quando adopero la mezzaluna è con quel movimento strano che ho imparato allora, fatto di squilibri e forza, con il ritmo che bisogna trovare per non stancarsi e fare di un insieme di verdure riottose, un battuto.

Erano cose semplici e dense, che spesso avevano una naturale prossimità di produzione, destinate a essere consumate presto, fatte con misura ampia e semplicità, per saziare e aiutare a crescere. Non c’era la pornografia del cibo, il mostrare senza fare, l’esaurirsi nel vedere, esisteva una connessione profonda tra bisogno e soddisfazione, tra desiderio e stagione, per cui l’eccezionale restava tale, perché era parte di una cultura antichissima dove qualcosa avveniva solo in alcuni momenti dell’anno. Di tutto questo veniva dato insegnamento a chi c’era, ed io che ero maschio tra le donne, imparavo il poco necessario a sopravvivere quando sarei stato autosufficiente. La mezzaluna insegnava l’autosufficienza quanto il coltello affilato con cui prima tagliare la cipolla. Insegnava una misura che magari ora non conta nulla, ma che, per chi l’ha avuta, ha fornito un senso di famiglia al cibo, al farne a volte per altri, al chiedersi se basta o meno. La mezzaluna mi ha dato certezze, le spezie e il sale mi hanno regalato il dubbio. E così lo zucchero. Ma tutto aveva, e ha, una forza che nessuna rappresentazione riuscirà a dare ovvero quella del dono di chi cucina ed è la rappresentazione del condividere, ovvero dello sperperato amore. L’unica forma che conosco del sentire.

p.s. lascio la ricetta di un biscotto invernale che ancora faccio e che continua a piacermi. Ruvido il giusto e sincero di gusto.

Zaeti

250 gr. di fioretto di mais
250 gr. di farina 00
150gr.di burro sciolto a bagnomaria
200 gr. di zucchero
2 uova
100 gr. di uvetta
50 gr. di pinoli o mandorle a pezzetti (meglio i pinoli)
latte per ammollare l’uvetta.
1 bustina di lievito
un pizzico di sale
Si monta lo zucchero con le uova e si aggiunge alle farine continuando a mescolare, il pizzico di sale, poi il burro e i pinoli e l’uvetta. Infine il lievito. La pasta dovrebbe essere abbastanza consistente, si regola la morbidezza con il latte che ha ammollato l’uvetta.
Si mettono su una carta da forno, la dose è un cucchiaio per biscotto. Si inforna a mezza altezza in forno a 160° per 20 minuti. Se il forno scalda solo da sotto, si girano dopo 15 minuti.
Spolverare con zucchero a velo.

libri e scaffali

Molti sono stati aperti una sola volta. Hanno generato curiosità, aspettative. Hanno parlato di un presente che mutava e non si era ancora visto tale, hanno tratto energia consequenziale da un passato, si sono avventurati in un futuro. A volte titubanti, spesso arditi, quasi mai così sicuri da cogliere l’interezza e per questo aperti a più soluzioni. E del resto come si potrebbe? Vedere ciò che accade, seguirne una piccola traccia nel dipanare delle alternative, farsi prendere da un lampeggiare di novità, è già un’avventura che posticipa il tempo, diventa passione del guardare, del capire, allora se a tutto questo dovessimo unire l’intera essenza delle probabilità verificate ci resterebbe solo il contemplare. Il sedere silente davanti a qualcosa di così grande che si mostra e non si esaurisce, come fanno i mistici, gli illuminati, ma se non siamo tali allora ci resta l’intuizione verso un infinito tascabile, a portata presunta d’intelletto. Continua a leggere

sw hd

Contando su molte pazienze ho conservato software datato, bello, non più riproducibile sui sistemi attuali e così ho conservato anche l’hardware necessario. In informatica ciò significa sistemi operativi, manuali, vecchi pc, ecc. I programmi sono incredibilmente lenti e schematici, richiedono pazienza per installarsi e poi faticosamente funzionare. Tutto è apparentemente semplice, anche se emergono raffinatezze deliziose fatte per sopperire l’esigua potenza di calcolo a disposizione. Non è diversa la situazione nella riproduzione del suono, anche se più immediata e facile: sono rimasti i giradischi, i lettori di cassette, i riduttori di rumore, registratori a nastro, bobine, cassette. Un sacco di meccanica datata, di elettronica tangibile fatta di circuiti stampati con piste di stagno, resistenze, condensatori e transistor visibili. Ci sarebbe anche qualche valvola ma è meglio non esagerare. Ronzano pianissimo piccoli motori elettrici controllati da elettroniche, cinghie e pulegge, trasformatori toroidali, lucine non ancora led. E i suoni escono gagliardi, a volte imperfetti per età, altre volte così nitidi e sorprendenti da provocare l’emozione del concerto dal vivo. Nulla è mai piatto e  scontato nell’uniformità.

In questa memoria fatta d’immagini e suono, i programmi allora raffinati e “pericolosi” per la capacità di elaborare dati in proprio e non d’essere ostaggio dei dati altrui, appaiono anacronistici nell’età dell’identità consegnata all’ammasso. Pur con la meraviglia di allora per la tecnologia, vi si trova disseminata nella costruzione e nell’uso, una resistenza al digitale che è predilezione per l’analogico ovvero per l’approssimare sino a coincidere nell’infinita scelta che sta tra lo zero e l’uno scomposto in frazioni. Tutto questa ferraglia funzionante è ormai storia sociologica prima che cronologia di eventi e rivaluta l’inutilità come strumento per capire il mutamento. Il presunto progresso è stato una cessione infinita di originalità e differenza, prima economica a pochi monopolisti, poi personale, a infinite banche dati che non prevedono più, ma orientano i nostri gusti, le scelte, ciò che è importante da ciò che apparentemente non lo è. Un gigantesco presumere collettivo dell’utilità che stabilisce il primato della tecnologia sul progresso, dell’io presunto sul noi consapevole. Tra non molto la posta scomparirà, la scrittura come la capacità di far calcoli diventeranno curiosità, l’intelligenza per una ricerca su libri come potenzialità propria e non del motore di ricerca diventeranno residui di capacità. Come la mia musica registrata e non ripulita digitalmente, riprodotta da altoparlanti precisi come lenti Leitz, e molto fedeli. Analogicamente fedeli. Il fatto è che per disattenzione si è perduta la capacità inventiva e sognatrice dell’inutile e introdotta l’insaziabilità della perfezione. Il perfetto elimina tutto ciò che non lo è e quindi non è strumento ma demiurgo di presente e di futuro. Orienta l’ingegno all’interno dei suoi parametri, fissa limiti e confini oltre i quali ci sono esseri inutili e bizzarri che si nutrono di particolari, di connessioni singolari, di analogie. Una riserva da tollerare ma inutile, profondamente inutile a cui si deve scegliere di appartenere. Per l’appunto.

http://https://www.youtube.com/watch?v=g_5wv227Tjo

numeri: l’11

Prende la tensione dell’uno verso il cielo, l’accostamento di coppia che è già intesa erotica, riscatta la banalità del 10, dopo la capriola del 9, ed è l’apertura di una modalità nuova, un impegno sinora sconosciuto nelle sequenze dell’unicità, il confronto con l’altro.

C’entra il palindromo? Non penso, anche perché la convenzione umana di numeri e date è una pallida prefigurazione del mistero delle coincidenze. Ma l’11 non coincide, s’affianca, si confronta e sovrappone, non si ripete, è individuo doppio: mancasse il respiro tra l’uno e l’altro perderebbe la qualità e si disperderebbe nell’unicità. Il palindromo però è un evocatore demoniaco.

Uno dice: in agguato c’è il palindromo, la lettura doppia. Non fidarti dell’evidenza, il palindromo si nasconde nei dettagli, si insinua nei pensieri e perde chi li pensa.  Fuggi dal palindromo perché il palindromo è un gran fascinatore, e via dicendo. E’ il fascino della specularità senza specchio, il luogo dei gemelli, altro grande evocatore d’inquietudine e fascino che implica la ricerca della differenza presi dallo stupore dell’eguale che non si eguaglia. Insomma l’ 11 apre una serie che usa due volte il segno e pure essendo il più semplice tra i doppi apre una porta fantastica, ricca di fantasia che non risponde a regole, ma da destra o da sinistra inizierà la fantasia?  Chi considera il calcio una rappresentazione pratica degli scacchi, non avrebbe dubbi: da sinistra. Là dove c’è il piede e il luogo del diavolo, la maglia di Mariolino Corso e di Gigi Riva, il genius loci imprevedibile che sovverte e vince.