Portavo pantaloni neri alla zuava infilati negli stivali neri di cavallino, giacche di velluto chiaro e maglioni o camicie aperte. Mi piacevano (e mi piacciono i colli alla coreana), sentivo il cuore che pulsava all’unisono con il mondo. Il mio romanticismo era anche questo: passione in accordo con il fare, un buttarsi oltre perché ciò in cui credevo era più importante. Avvolgevo il tutto in un mantello nero a ruota che ho ancora oppure in un eskimo che finì a pescare con mio zio, quand’ero militare.
Se c’è stata una costante in Europa per oltre un secolo e mezzo, questa è stata il romanticismo. Declinato in tutte le forme, ha infiammato, unito, rovesciato, diviso, creato, distrutto e costruito stati, economia, idee, scienza e sapere. Il novecento ha sepolto se stesso e il romanticismo, ma non l’idea che qualcosa possa far da collante al bisogno di cambiamento. Sarebbe triste un mondo che ripete se stesso, ma anche un mondo che muta con la sola tecnologia sarebbe altrettanto triste.
Un imprenditore, padrone del vapore, portato allo scontro in fabbrica, mi diceva di sé che era un inguaribile romantico, forse intendendo che credeva nella forza che spinge oltre il singolo, che unisce e mantiene ben distinti gli slanci personali. Insomma credeva in qualcosa che non era il solo denaro, ma la crescita dell’uomo, e per farmelo capire bene paragonava la manifattura, che è fatta di forza, precisione, ingegno e trasforma, crea quello che prima non c’era e non ripete, rispetto alla finanza dove tutto questo non esiste e il denaro genera se stesso. Questo scontro tra padroni e operai, tra dominatori e liberatori era uno scontro tra romantici. Finito? Forse. Oltre al macro dato che alle aspirazioni alla libertà si sono sostituite altre aspirazioni, che creati gli stati ben poco rimaneva da fare, con la seconda guerra mondiale anche il romanticismo ha iniziato a scomparire dalle coscienze. Le ultime vampate del ’68 e degli anni ’70 hanno lasciato il posto al prevalere dell’individualismo, abbandonando il collante che ne permetteva il beneficio per tutti.
Il mondo avanza sulla tecnologia e la passione è una virtù domestica da esercitare dove meglio si crede, tanto che è più facile unirla al sesso e al potere che ai progetti collettivi. Può bastare per un poco, ma credo lasci larghi spazi all’insoddisfazione senza nome. All’anomia che divora quando non si è parte di un progetto di futuro. Non importa se conduttori o passeggeri, ma un progetto è un veicolo con una forza enorme che trascina tutto in avanti.
Mi chiedo se chi è stato romantico lo sia per sempre, come fosse una cecità dello spirito che impedisce di vedere altro. Eppure mutiamo, non siamo quelli dei nostri anni giovani, se ci furono idee forti queste si sono attualizzate, più che invecchiate con noi. Mi piacerebbe sentir dire di un compagno che degli ideali giovanili ha fatto motivo di una crescita personale che non si è mai conclusa e che non si è stancato di lottare per gli altri. In fondo questo fanno i romantici, vivono e lottano, provano passioni e cercano di condividerle.
Sono un po’ fuori del tempo, i romantici, perché si richiamano a qualcosa che pare non sia specifico di un’età dell’uomo: la giovinezza. Forse lo dico per darmi speranza, per dirmi che se il romanticismo è morto non ha vinto il cinismo e che da qualche parte il fuoco è ancora acceso e che insieme si potrà andare avanti e che la libertà avrà un senso collettivo e che il mondo sarà un diverso terreno di competizione e di crescita per le idee e gli uomini, non solo il luogo per accumulare cose e denaro.
Quando è finita l’età dell’innocenza e dello sperare in qualcosa di comune? Me lo chiedo perché penso che da quel momento si inizia a diventare vecchi e non si smette più. Solo sperando contro l’evidenza si può essere giovani nel vedere la realtà, invertire il corso del tempo reale. E allora gli ideali della giovinezza ritornano vivi, quelli che permettono di sperare che cambierà e che spingono perché ciò si avveri.
Intelligenza, passione, fare insieme, credo sia tutto qui.

