entropie allegre

Chi non ha un segreto non ha nulla di allegro da raccontare. L’allegria quella mattina si spandeva sulla lunga piazza e i segreti dovevano essere tanti. In realtà la piazza era un viale molto largo ma da quando le auto non correvano più, era ridiventata la piazza ch’era stata un tempo. Sotto i portici, nel cono d’ombra dei pilastri, ragazzi amoreggiavano. I bar erano pieni e il sole veniva preso in vari modi, chi si stendeva sulla sedia e offriva il viso, chi s’accontentava di quello che arrivava dai varchi degli ombrelloni, chi aveva deciso che era vacanza e si era steso sui gradini dell’antico porto e mostrava più pelle poteva alla luce. C’era un gran disordine, capannelli di discussioni, risate e attraversamenti a slalom tra biciclette e persone che andavano in tutte le direzioni, ma lentamente. Insomma un festina lente realizzato dove la percezione di ciascuno era parte di un tutto dai fini sconosciuti. Molecole di pensiero nell’aria, discussioni sulla freschezza dei tramezzini e bevande poco o medio alcoliche che venivano sorseggiate per punteggiare discussioni. Si parlava di tutto, dagli esami imminenti, ai risultati del campionato di calcio, si facevano progetti sul fine settimana e si approfondivano simpatie sull’orlo di traboccare in qualcos’altro. Si poteva discutere su come si assapora all’ombra della volta di un portico, il mezzo uovo, già un po’ verdastro, con l’acciuga arrotolata e il cappero stanco, redento dal vino bianco ghiacciato che velava il bicchiere. Si poteva chiamare ripetutamente il gestore del bar a testimone di una scena avvenuta sere prima, incresciosa ed ilare per ubriachezza non molesta ma nemmeno modesta e non ottenere risposta, tanto la cosa era ancora viva nel ricordo e nelle tracce sulla saracinesca del locale. Poco prima di mezzogiorno si era formata una lunga fila in attesa davanti alla focacceria, pizzeria e nel rispetto delle distanze, il chiacchiericcio allegro continuava. Una caratteristica della focaccia piegata a mezzo era il colare sulle magliette attraverso i pertugi della carta paglia in cui era avvolta, per cui la fontana aveva un gran daffare e le risate scomposte accompagnavano l’additare, formando nuove aggregazioni in cerca di asciugarsi al sole. Da una delle strade laterali era apparso il trio klezmer che suonava alle lauree, un contrabbasso, una fisarmonica e una tromba e aveva iniziato a sparare motivi balcanici, sperando in un’attenzione accompagnata da qualche moneta. E arrivavano le monete perché aggiungevano confusione allegra.  Anche troppa e per tacitare la tromba, qualcuno comprò una focaccia e gliela portò fumante.

Nella piazza allegra si mescolava la giovinezza, il guardar sottile dei perditempo seduti nelle sedie d’alluminio, il viavai delle biciclette di passaggio e un suono di folla scomposta a distanza di sicurezza che faceva vibrare l’aria. Così il rintoccare del mezzogiorno dalla campana posta nella cella sopra la porta, sembrò scivolare su un tappeto di pensieri, di chiacchiere, di aspettative e desideri, di appuntamenti e di ritrosie, di promesse sussurrate e di voglia di restare. Convinta di prolungare nell’infinito del qui e ora quella mescolanza di rimbalzi disordinati e allegri, l’aggregarsi per simpatie e per ricerca di vicinanza, l’entropia aveva bisogno di spontaneità e di scuse, di sigarette offerte, di parole senza peso e di conversare profondo. Si muoveva a ondate l’entropia e riempiva lo spazio, rimbalzava sulle case, cercava il cielo, dove le nuvole benevole e bianche osservavano come i non giovani erano lieti di quel muoversi, bevevano e pensavano che nel disordine allegro c’è la vita.

persone

Li guardo alzando gli occhi dal libro. Vedo i loro occhialini, gli occhi vivaci, i cappelli strani come le acconciature, i visi che si muovono. Hanno una mimica che cerco di interpretare così guardo verso chi è rivolta. Spesso è una donna e anche lei da interpretare nella mimica del viso, nel taglio della bocca. Non voglio fissare, mi hanno insegnato da piccolo che le persone vanno osservate senza metterle in imbarazzo, così lo sguardo scivola via, va distante dai volti, dagli abiti, dalla mimica delle mani. Vedere senza guardare. Le mani dicono molto, a volte più del viso. osservo come s’intrecciano e si sciolgono, quando stringono a ribadire una convinzione e poi si rilassano. Per discrezione cerco di non ascoltare, indovino dalla mimica. Parlano di lavoro, di progetti, alzano la voce, ridono di qualcuno o qualcosa. Oppure i visi si avvicinano e scambiano qualche intimità. Promesse a breve, forse. Gli abiti cominciano ad alleggerirsi. Si aprono, mostrano i vestiti sotto le giacche. Le fogge sono così inusuali che mi sorprendono sempre. Io vesto sportivo oppure con la giacca e cravatta. Devo dire che le tinte le accompagno sempre in sfumature di tono se vado al lavoro, ma i colori mi piacciono molto. Mi incuriosiscono e penso a come devono star bene quando si vestono. Penso sorridano. Cerco di immaginare i loro pensieri, le attese, i desideri. Ci assomigliamo tutti ma con l’età il mazzo si mischia e i desideri prendono posti differenti. E così le urgenze o ciò che pareva secondario improvvisamente si scambiano.

A volte persone che conosco, si fermano e mi parlano, spesso vorrei più silenzio e meno convenevoli. Scambiamo notizie che non ci interessano, colgo le ripetizioni, i racconti che mutano e che non si ricordano di avermi già fatto. Sorrido ai punti giusti, non rilevo che ho già sentito. Mi chiedo come mai conosca sempre meno persone che passano per questi tavolini all’aperto. Mi sorprendo anche se conosco la risposta. Un tempo ci parlavamo tra i tavoli, ora la vita ha disperso i visi conosciuti, le vite che si erano toccate. Ma io torno e guardo il cambio della guardia. So che non hanno pensieri simili ai miei, il divario d’età è così ampio. Qualche volta, interpellato, passo l’accendino oppure do un’informazione, ma spesso mi accorgo che mi chiedono cose che non conosco bene. Forse mi prendono per un professore vista l’età e l’essere conosciuto dai proprietari. Vedono anche che spesso sosto allo stesso tavolo. Quello da cui si vede il tramonto che staglia la città mentre arrossa il fiume. Passa una barca che voga alla veneta e lascia una scia di piccole onde morbide. Mi piace come cala la sera con questo sospendere i rumori attorno, sembra che tutti stiano più attenti. Ma è un’impressione perché il cicaleccio e le risate si susseguono.

Non conoscere nessuno non significa sentirsi soli, è come avere una casa aperta in cui entrano voci, pensieri, espressioni. A dire il vero non ho una percezione di un utile in tutto questo, ma mi piace il senso di curiosa immaginazione che me ne viene. È come mi raccontassero delle storie senza volerlo, ed io ascolto. Mi piace molto ascoltare e lasciare che la mente corra. Un tempo mi sembrava di conoscere tutti in questa città, che non è proprio piccola. Anche adesso mi salutano spesso e mi sorridono. Credo dipenda da qualche ruolo passato, ma qui non c’è nessuno che mi conosca. O quasi. E ho la sensazione che lo spettacolo di umanità pensante che mi viene offerto, pur senza nome, non sia una folla, ma persone. Immagino e così mi riconosco. Vorrei ringraziarli di esserci, ma non mi capirebbero e penserebbero che sono un balordo. Ce ne sono che arrivano ad una certa ora. Ma se li guardate non sono vestiti in modo strano, anzi lo sono molto meno di chi li guarda, solo che parlano, interrogano, cercano approcci. A me piace stare in silenzio e occuparmi di ciò che vedo, scrivo, leggo, immagino. Forse la differenza è questa. Solo questa. 

30 settembre 2016

Amica mia cara,

ho messo l’inchiostro mocha nella stilografica, dismettendo il nero che da troppo tempo tempo rendeva i pensieri più netti sulla carta. Li pensavo dubbiosi e aperti, i pensieri, e loro con quel nero diventavano senza alternative, tanto che alla fine mi sentivo chiuso dalla mia stessa logica. Privato del dubbio. Così ho tolto il nero e sostituito anche le tende estive con queste più chiare che ora si gonfiano di luce. Sul mio tavolo, sempre troppo ingombro di sollecitazioni, di malie, di carte e ritagli, di penne, matite, c’è ora una luce calda che fa risaltare le possibilità del disordine. Interiore ed esteriore, come ai bei tempi. Però attorno vedo le cose in fila, consequenziali, e per quanto capisco, vorrei scriverti del loro stato. Mettere dei punti fermi in questo fluire dove tutto è relativo e il seguente annulla ciò che l’ha appena preceduto. Non è il panta rei eracliteo, quello che ci attornia, è un percorso di singulti, un film tagliato a pezzettini e rimontato, dove la ricerca del senso, alla fine, ci lascia disorientati e un po’ più soli. Non l’avevamo previsto, vero? Non io almeno e neppure tu, anzi ci pareva che tutto dovesse aprirsi, includere, essere più libero e crescere nel nuovo, invece nessuna di queste attese si è avverata, e ci troviamo stanchi e pieni di dubbi. Su di noi, anzitutto, mentre ci sono avversari agguerriti che sfondano il fronte delle certezze, che conformano nuove abitudini, che irridono e rendono ridicoli gli sforzi per tenere assieme, discutere, riflettere. Ricordi? A noi sembrava che questa fosse un’educazione permanente, un modo per andare avanti tutti assieme. Ora non importa chi è avanti e chi indietro e così emerge un disagio sterile, senza analisi né cura, un confronto di infelicità che trovano consolazione in chi sta peggio.

Mi chiedo quante categorie, quanti punti fermi siano rimasti di ciò che abbiamo vissuto. I tuoi anni ti sono molto più amici dei miei, ma non ci si badava poi tanto allora e la tua vita è stata un affermare la diversità, la necessità di essere te stessa. È una parte grande della tua bellezza, del fascino che porti con te, ma credo che anche tu avverta che ora è più difficile essere se stessi. Adesso è più complicato appartenere a uno di quei gruppi tumultuosi che piacevano ad entrambi, dove la discussione durava fino a tarda ora, irta di logica e avvolta di passione.

Dove farla questa discussione, adesso ?

Dopo le riunioni, inzuppati di fumo, uscivamo e sotto qualche luce e balcone si continuava finché non c’era la protesta o il catino d’acqua di chi andava a lavorare presto e ridendo si tornava a casa. Anche noi andavamo presto al lavoro, ma quel tempo ci sembrava irripetibile e prezioso. Ci pareva di essere nel mondo, di contribuire a cambiarlo.

La distinzione era quella di Eco, tra apocalittici e integrati, adesso è tra digitali e analogici. Credo di essere irrimediabilmente analogico, di ragionare sempre per alternative con una pluralità di possibilità. Hai mai pensato a come cambiano i ricordi tra l’analogico e il digitale? Il nostro ricordo interagisce sempre con il presente, ne è modificato. Anche la scelta dei ricordi emerge da un sentire o da domande apparentemente scollegate. Il digitale, invece, è un processo logico, si sa cosa si cerca. E lo si trova nella sua incontrovertibilità, nella precisione delle parole e delle immagini che riportano date e minutaggi, persino il luogo diviene certo, e tutto ci mette soggezione con la sua definitività. Forse per questo lo accumuliamo, perché sembra un punto fermo e ci parebbe di cancellare ciò che siamo stati, ma alla fine di tutto quel documentare non si sa che farsene e lo si sente un giudice severo e sterile più che un amico che cresce con noi e ci modifica. Insomma è inutile come una cattiveria. E così accade in molto d’altro che un tempo faceva parte dell’universo del pressapoco ed ora è così preciso. A noi pareva ed era già molto, le cose si precisavano strada facendo, spesso mai del tutto, ma una direzione c’era.

Cosa ci sta accadendo amica cara, perché siamo così soli, contrapposti, insicuri e senza l’idea di dove vogliamo andare? Mi ripugna e respinge, sia il pessimismo che livella tutto in un male già vissuto e l’ottimismo forzato che non guarda la realtà, il disagio, la sofferenza. Credo che i cinici siano un po’ vigliacchi, per non soffrire si ritagliano uno spazio da cui osservare la sofferenza altrui e si congratulano con se stessi di esserne fuori. Anestetizzati, non aiutano nessuno, perché la sofferenza deve fare il suo corso. È la vita, dicono. Ma anche gli ottimisti forzati hanno una caratteristica che non me li fa sopportare, sono infingardi e perseguono la cecità selettiva. Confondono la loro attesa con la possibilità reale e sono divoratori di presente. Lo mangiano senza ritegno sottraendo agli altri il futuro. Propongono il proprio modello come assoluto e dissipano le possibilità di essere assieme perché chiunque non la pensi come loro viene escluso dal migliore dei mondi possibili. Il loro. E non hanno dubbi.

Noi forse di dubbi ne avevamo troppi, tu sai di che parlo: troppe domande, troppo preoccuparsi per gli altri, per i compagni e per quelli che non lo erano. Eravamo davvero un’entità collettiva con pensieri, destini, desideri e bisogni singolari, ma assieme. Adesso il dubbio è stato spazzato via e ci pensa la realtà a fare giustizia. Come la fa lei, senza guardare in faccia nessuno.

Tempo fa avevo aperto un blog, essilio, in cui pensavo di raccontare le mie crescenti difficoltà all’interno del mio partito che sentivo mi sfuggiva e non rappresentare più l’area di pensiero, di attesa di futuro in cui, assieme a molti altri, mi ero formato. Vedevo questa emorragia silenziosa di passioni che si spegnevano, di ideali che diventavano un peso e un errore se confrontati ai risultati. Sentivo che il futuro per cui mi avevo lottato era caduto sotto l’orizzonte e la vita mia, spesa tra lotte sindacali, politiche, l’impegno amministrativo, il lavoro e le sue scelte sembrava se non sbagliata, inutile. Mi sono fermato dopo pochi post, perché mi sono accorto che facevo parlare l’amarezza e non l’analisi, che quello che scrivevo diventava il diario di una sconfitta personale e collettiva e che questa percezione era meglio lasciarla scrivere ai fatti, ai gesti, sennò ci sarebbe stato il livore e questo non me lo potevo, e volevo, permettere.

Però le cose mutano, amica mia, è passato un anno e tutto sembra così distante anche se in fondo i mutamenti li abbiamo davanti, non a consuntivo. Riprenderò a scrivere di politica, di posizioni mie, perché la politica è sentimento se riguarda il rapporto tra noi e gli altri; che non sono altri ma persone. Riprenderò a scrivere di sentimenti, di realtà come la vedo e quindi di dubbi. Mi manca molto la vicinanza, l’amore che sgorga dalle cose, gli occhi che si illuminano, la voglia di abbracciare e il silenzio che l’accompagna per condividere a fondo l’esserci. Mi manca questa dimensione che è parte di un condividere e che non possiamo riservare all’eccezione troppo spesso fatta di negatività, di disastri. Mi manca proprio il condividere, la parola, gli occhi che sorridono, l’ironia e la voce che tace in un silenzio che ancora dice. Mi manca, dico, ma intanto ci sei, e c’è la vita, ci sono le idee e noi, assieme a tanta stanchezza, indomiti. Ci sarà modo per dircele queste parole, e per me, di fare esercizio d’ironia per stemperare ciò che sembra troppo grande, ma so che ti piace ricevere lettere, meglio se scritte a mano, così ti scrivo. 

È il romanticismo che ci ha fregato, amica mia, o forse è stata la nostra grande risorsa. Comunque sia, è bello aver vissuto e vivere così.

Con un abbraccio che duri quanto serve e un attimo di più.

willy

tempo 1.

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La cosa era (è), semplice: scegliere tra caffè dolce e caffè amaro. Girare piano il cucchiaino nella tazzina, osservare il vapore oleoso che si levava e aspirare con calma. Poi, levare lo sguardo e, pensare di avere tempo. Tempo per qualsiasi cosa. Per non far nulla, per fare cose importanti, per scialacquare tempo (passarlo in qualcosa che lo depurasse dalle incrostazioni della fretta), per correre con una meta o per piacere, ma soprattutto per dominarlo, il tempo. E se c’era qualcuno con cui condividere, nel discorso fatto di parole scelte, di risate brevi, di sospensioni con gli sguardi a parlare, lasciare che il tempo si sciogliesse nella tenerezza che si mette quando ci si protende. Sentire allora che si apriva una porta, una finestra, un pertugio, ed entrava luce. E quella luce illuminava le solite cose rendendole diverse. Scomponeva, sgranava, guardava da dietro, o sotto, o sopra, ma alla fine portava all’essenza. Noi, io, eravamo colori separati da un prisma e ricomposti da un altro. E in quello spazio di tempo dominato, in quei colori, tutti contenuti in noi, potevamo dire ciò che emergeva in una sintassi fatta di purezza e di profumo. Parole blu che avevano un significato blu e potevano sgranare verso l’azzurro, il grigio, oppure puntare al violetto e poi al rosso. Parole che si coloravano di significato perché non c’era la fretta di dire.

Il giusto tempo, il tempo per il profumo del caffè, diventava (diventa), modo d’essere.

Essere senza costrizione di fine.

Solo essere. 

odore d’antico e calcina

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Le nostre vite fragili,

la pioggia consegna all’ incontro,

e nel cuore sommesso della città

c’è la scia d’una luce,

la piccola corsa tra due ripari vicini.

Dai muri bagnati

odore d’antico e calcina,

e di caffè

dal piccolo bar sotto i portici. 

Un barista beve,

mentre guarda il vapore sui vetri:

tu profumi di verbena

e di buono.

illude la finta stagione

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illude la finta stagione,

tra caldi improvvisi,

e storie di scirocco.

Ragazze in canottiere colorate

nei tavolini all’aperto,

e l’allegria di voci e sorrisi

cancella freddi che forse verranno.

Ci sarà un tempo per lane e pesanti cotoni,

ora tra piccole malizie, 

l’inizio d’un seno baciato dal sole, 

muove su tacchi troppo alti

per gli antichi acciottolati.

Ma la luce cala in fretta

e nella sera, i lampioni

e l’aria di fiume,

già si riprendono rivincite attese.