le vie di mezzo lasciano ferite

Chi si ricorda di Bombacci?

In questi giorni di perenne crisi italiana, dopo una pandemia devastante e già pronta a essere rimossa, si sono attivati gli stati generali. Un affresco del futuro che ci dovrebbe attendere, ben calibrato sul termine ri costruzione dell’economia che di fatto riporta a un prima in crisi e che è favorevole per chi conta e ha gestito sinora destini e privilegi, ma non tocca i temi del diritto alla sanità, all’istruzione. all’abitare, alla mobilità non inquinante, al lavoro come diritto dovere equamente retribuito. Quindi continuerà una progressiva perdita di diritti e di possibilità di uscire dall’indigenza per quelli che già prima erano sull’orlo della crisi.

È una grande occasione questa crisi e in particolare per l’Europa, che però è immobilizzata dalla propria incapacità di essere di più che un aggregato e quindi silente, che cerca di tranquillizzare con molti denari che fanno gola ai soliti aggregati d’interesse la rabbia che cresce al proprio interno. Dobbiamo chiederci quanto c’è per un nuovo che sia davvero tale in economia come in rapporti sociali, che rimetta in moto l’ascensore sociale, riduca l’ineguaglianza, che faccia davvero emergere la volontà di affrontare la sfida ambientale? Nulla, perché non muta il modello neo liberista e la sinistra socialdemocratica si è adattata usando il si ma, ossia quella difficile manovra che di fronte all’impossibilità di dire che ci sarà più equità e speranza, calcia la palla in avanti. Tutto rinviato a nuovi equilibri politici mentre si addensa la paura per i molti che perderanno non solo il posto di lavoro ma la condizione sociale di autosufficienza. La rabbia dovrebbe essere la maggiore preoccupazione  per chi governa perché, alla fine l’opposizione che nulla fa, potrà dire che avrebbe fatto meglio. E verrà creduta portando verso una nuova accelerazione delle disparità e della perdita di diritti.

Tutto questo pensare al dopo covid non arresta i problemi del mondo e dell’Italia. Con l’estate riprenderanno tragedie e sbarchi. Abbiamo ancora i porti chiusi e chi glielo spiega alle donne, violentate nei campi di raccolta libici, che c’è una malattia in Italia che è peggio della loro vita? E gli uomini invisibili, quelli che ora l’agricoltura contingenta, sarebbe interessante andarli a a contare nei campi, sono illegali per legge, creati così dallo Stato che poi si volta dall’altra parte, dov’erano in questi mesi di chiusure: spariti, numeri, pedine di scambio per lavori meno che precari. Quindi esiste ancora il problema dell’immigrazione ma chi lo può affrontare e risolvere non sono i paesi dell’accordo di Visegrad che hanno accolto zero (0) immigrati, e così torniamo all’Europa che vede la realtà e chiude gli occhi, l’Europa dei diritti e dei doveri umani che derubrica il problema. Per ora tutto o quasi tace, finché non esploderà nuovamente visto che nessuna delle guerre è stata risolta, che la fame uccide 5000 bambini ogni giorno, visto che un miliardo di persone sono nell’indigenza nel mondo. Quindi il problema si può derubricare ma è alle porte.

Bombacci era un socialista rivoluzionario, un fondatore del PCI a Livorno, inizialmente molto radicale, poi negli anni del fascismo si illuse che il regime contenesse un po’ di socialismo,che ci fossero spazi di riformismo e di critica, finì a Dongo con Mussolini. Perché lo dico? Non per infangare la sua memoria ma per far capire che tra due visioni dell’uomo, della società e del suo futuro non ci possono essere sospensioni di giudizio. Ciò che dice l’Europa in termini di principi e di prospettive non rende efficace e lecito ciò che poi avverrà nel cambiare un sistema che non regge più anche se si spartirà gli aiuti, e non risolverà i problemi. Questo consegna responsabilità al governo Italiano, al m5s prigionieri di assiomi contraddetti dalla realtà, ma soprattutto non libera la sinistra e gli uomini di buona volontà dal dire che se non si risolvono i problemi verremo travolti da essi e anche l’Europa e la democrazia verranno travolti. Non basta un po’ di orgoglio nazionale. Orgogliosi di cosa, di quale cambiamento, di quanta equità da spendere in progetti e nuova occupazione?

Bombacci dovette tacitare l’intelligenza e i principi che aveva, con la guerra di Etiopia,  con gli eccidi di preti e civili copti, persone assolutamente innocenti, mentre gli italiani si costruivano il mito di essere brava gente e bombardavano in Spagna le truppe repubblicane, usavano armi chimiche, costruivano un impero invadendo nazioni sovrane. Dovette misurare l’intelligenza e la capacità di analisi con quello che ne venne poi di guerre, compresa quella alla Francia. E perse il rigore, l’aveva già perduto perché non c’erano elementi di giustizia sociale nel fascismo. Il giusto e la diplomazia contro la realtà della forza e la volontà di affermazione personale, non potevano essere corretti in un’opposizione ideologica se poi non si scavava facendo emergere il nero, il pensiero maleodorante che discriminava gli uomini, che generava le leggi razziali, che in colonia le aveva già applicate assieme al madamato e alle spose bambine da comprare. Un regime dove gli uomini che non erano uomini uguali era redimibile? Era una domanda che circolava nei guf, nelle fronde dei giornali universitari, ma solo gli antifascisti al confino o nascosti avevano dato la risposta giusta: no, non lo era. Si poteva solo non vedere la realtà e questa è già una condanna.

Ciò che non trova le soluzioni ai problemi ma afferma la volontà di potenza affascina gli uomini, ma la sinistra non può accettare che non cambi nulla, fermarsi alla superficie del mutamento. Non è più possibile,deve analizzare e indicare alternative.
È questa la funzione di chi ha una visione della società e della storia, dire ciò che pensa ed è conforme a un obiettivo generale, che mette al centro dell’agire il bene comune dei molti e non dei pochi. l’Italia non può essere identica dopo la pandemia, deve scegliere cosa essere e non dire cos’è stata. Il neo liberalismo non è riformabile se non in una chiave di responsabilità sociale, di lavoro ed equità diffusi, di welfare reale e stabile.

Così l’immigrazione deve essere vista, affrontato lo jus culturae, deve vedere gli uomini che circolano nelle città e nelle campagne, che lavorano e sono sfruttati oltre ogni dire. E se abbiamo una civiltà da spendere questa visione deve essere imposta all’Europa, bloccando trattati e crescita dei privilegi finché il richiamo etico non diventerà soluzione.  

Bisogna ricordarsi dei cadaveri buttati in mare, dei pescatori che non vanno più a pescare per timore di incontrare persone da salvare che non sanno come sbarcare e c’è chi non mangia più tonno. Il Mediterraneo è il nostro futuro o la nostra maledizione per l’insensibilità collettiva dimostrata. E non possiamo far finta di niente perché nel futuro ci siamo noi e loro: ci sono quei due cadaveri abbracciati, un ragazzo e una ragazza, morti di fame sul fondo di un gommone o il ragazzino con la pagella cucita nella giacca, ci sono le madri affogate assieme ai figli, e insieme a loro ci sono i salvati che scivolano in una indigenza senza speranza. Ci sono i nostri lavoratori, la nostra società che si disgrega assieme ai diritti faticosamente conquistati. Pensiamoci perché i poveri sono tali per condizione e per ingiustizia e sono brave persone, uomini che il sistema di prima condanna.
Bisogna dire da che parte si è perché non c’è speranza di riformare la destra e per cambiare il mondo non si può tornare a prima. Le vie di mezzo non esistono se si vuole davvero mutare il modello in cui si vive, far vivere meglio le persone, dare un futuro in cui ci siano gli uomini e i bisogni, non solo il denaro.

no logo né luogo

No logo per sentire la sostanza delle cose, l’amorevole loro utilità 
a noi soli. Adesso non luogo per non procedere
e per andar via,
già s’è dissolta la patina di sensazioni che chiamiamo memoria: 
lavata da sé a fior di pelle.
E la pelle non fiorisce se non nell’amore, 
ma quando il gelo l’accarezza
rabbrividisce,
e stanca d’appartenere diventa muta.
Prigionieri d’una terra di nessuno,
d’un non luogo, fatto d’abitudini in cui ci si riconosce e si regolano i corpi,
così si diventa un supermercato dove tutto viene allineato, comprato, consumato.
Scaduto.

 

ad una qualsiasi ora

Ad una qualsiasi ora della luce o del buio, il pensiero di te mi prende. Pioggia rada o sole in raggio, entrambi scelgono nell’indeterminato mucchio e così io vedo.

Si cuce il pensiero, fila, trova col dito il segno d’una ferita antica. Solo i sorrisi sembrano non lasciar traccia, eppure nei racconti, d’essi si parla, ma non di ciò che dopo è stato. Così attendo che la compagnia ritorni, e ciò che a suo tempo non compresi, si renda chiaro. Nel caffè si mescola il tempo e lascia piccole tracce sulla tazza: ora una linea sembra un volto, la scia della bruna polvere, una foresta di parole e il venir tuo, d’improvviso, riannoda eventi e cose.

Le vecchie botteghe dei garzoni fannulloni non ci sono più, la polvere ch’ aggiungeva valore e sembrava far fare buoni affari, non è più parte degli oggetti d’acquistare : tutto è pulito e luccica ammiccando. Solo il pensiero di te, scava una ruga e poi la spiana, come se il mondo si srotolasse agli occhi e prendesse insieme, mistero e senso. 

 

steinway cd 318 e altro

Un gran concerto CD 318 non vola, lui invece, il pianoforte lo pensava, ma non era così. Lo scoprì cadendo, come succede per la banale imperizia di chi non è abituato a distinguere ciò che è prezioso e si fece molto male. Eppure lui aveva volato a lungo con Glenn Gould. Almeno dieci anni tra il 1960 e il 1970 incidendo gran parte dell’opera clavicembalistica di Bach.

Era stato uno strumento rifiutato il CD 318 Steinway, messo nell’angolo di un grande magazzino a Toronto, in attesa della rottamazione, dopo aver suonato a lungo con diversi concertisti. Cambiati i gusti per i pianoforti sembrava superato nella sua gentilezza, ora serviva potenza di suono e meccaniche più rigide su cui esercitare la forza delle dita. Avete mai visto Gould suonare? Dalla sua leggendaria sedia, fatta e montata dal padre, ormai ridotta a un rottame dall’uso, si metteva in una posizione squinternata rispetto alla compostezza dei concertisti, era in basso e la testa quasi si appoggiava alla tastiera. Il braccio non sovrastava il pianoforte, ma lo interpellava e lo abbracciava, quasi danzando assieme. Gould era in perenne ascolto della corrispondenza tra ciò che suonava e ciò che aveva dentro. Suonava nel pensiero e si aspettava che il pianoforte fosse un infedele tramite, ma che questa infedeltà non impedisse l’amore.

Ci sono punti dove il genio non può accettare altro che lo strumento che lo esprime e strumento e persona si cercano. Con pazienza e furia come accade in ogni amore che si trasforma in passione. Ci fu poi un tramite, un accordatore semicieco che vedeva i suoni come colori e capiva ciò che Gould chiedeva, era Verne Edquist, una persona eccezionale perché altri non poteva essere chi entra in sintonia con un genio. E fu lui che tentò di ripristinare il CD 318 dopo che praticamente era stato sfasciato dalla caduta. Fatica immane, quasi coronata da successo. Quasi perché il CD 318 non era più lo stesso. Cose che solo chi cerca le corrispondenze tra l’anima e le cose può avvertire, ma era così e anche Verne non vedeva più gli stessi colori, sfumature certo, ma per un semicieco erano linguaggio e differenze che non potevano passare inosservate. Così Gould incise poco e con difficoltà ancora sullo Steinway. L’ultima edizione delle variazioni Goldberg fu suonata dalla solita sedia ma su uno Yamaha.

Ci sono cose che restano proprio perché si assomigliano ma non sono ciò che erano all’inizio, così può essere il modo di sentire una passione tanto da identificarsi con essa. La passione non è sempre la stessa, può scemare, trasformarsi oppure diventare un tentativo di assoluto. Se Gould voleva suonare Bach come neppure Bach avrebbe esplorato se stesso, anche il pianoforte avrebbe dovuto essere altro da sé. La passione funziona così, nel coincidere con essa si diventa ciò che non si sarebbe mai stato, quindi altro da sé. Come nelle follie creative, nel racconto di ciò che dentro urge e non trova le parole che esprimano leggerezza e potenza nel giusto grado, ossia che coincidano con il pensiero. E non con un pensiero che sfugge ma con quello che sembra radicarsi e invece è il prodotto della ricerca nel profondo. Estratto da esso, portato alla luce tanto che inizialmente è un po’sorpreso di essere in un luogo che non ha mai visto, con una luce inusitata ed esso stesso finalmente consapevole di coincidere con chi lo conservava in sé. Parole e note si sovrappongono nei significati. Nessuna parola può sostituire un’emozione, può ricrearne la parvenza ma non andare oltre, le note possono farlo. Possono ripetere le emozioni e andare oltre ad esse, superare chi le aveva scritte nel significato profondo. Questo pare provasse a fare Gould, e nel suo cercare di seguirlo, anche il CD 318, cercava di essere uno strumento che non esisteva ovvero un pianoforte che suonava in modo nuovo. Non un clavicembalo in forma di pianoforte, come aveva voluto farsi costruire Wanda Landowska, perché mai avrebbe potuto esserlo, ma veloce e preciso, leggero nei tasti perché il tocco era l’accento della parola, ma anche ripieno nei bassi a fornire terreno compatto e fertile su cui dispiegare la melodia. Per questo il CD 318 con Gould volava e cantava con lui. La loro era una passione senza nome né limite, incontrata per caso, come accade a ciò che non finisce ma che si esalta ad ogni incontro e in questo amore aveva trovato chi era in grado di assicurare ad entrambi la corrispondenza, Verne Edquist, che non era solo un grande accordatore ma capiva lo stesso lessico che mette assieme pensiero e suono. Chi ha avuto modo di ascoltare Gould e i non pochi altri che si mossero poi sulla sua scia interpretativa sa che un genio resta unico e spinge innanzi l’umanità, senza volerlo né con un metodo che lo renda felice per questo: gli mancherà sempre qualcosa. Ma per tutti gli altri che non hanno a disposizione altro che udito e capacità di ascolto, ci sarà una nuova sfumatura di luce, un colore che prima non esisteva, un volo che sembrava impossibile eppure è andato avanti a lungo, guardando il mondo dall’alto, anche se lo sguardo di chi ha trovato in sé quel modo di volare, spesso, era parallelo alla tastiera, con la bocca che parlava ai tasti, le spalle a seguire il dispiegare del suo, ogni volta unico, volo. 

 

post scriptum: queste parole sono solo l’espressione, parziale e imperfetta, di una predilezione per Glenn Gould che mi ha regalato, e regala, molto. Mi infonde serenità e aiuta a capire quanto piccola sia la comprensione che posso esprimere, ma anche in questa piccolezza mi fa vedere la bellezza. E ciò credo sia importante in questo tempo di incertezza perché solo la passione ci aiuta a vedere quello che può cambiare questo mondo.

e così si è consumato il giorno

E così si è consumato il giorno. Color perlaceo come il cielo di questa giornata con una pioggia attesa ma rada. Spruzzo per i vetri, gocce che si rincorrono, il tremolare rapido delle immagini che poi tornano limpide. Neppure un acquazzone, solo acqua dispersa, complice un po’ di vento e così la terra è appena bagnata. Non piove da troppo tempo e sempre più mi rendo conto della situazione. Dovrei dire che il presente senza oggetto in cui viviamo, ora un oggetto ce l’ha ed è pure preciso: è già nella fase due ma non ha una soluzione visibile. Possiamo compiere notturni atti di trasgressione, infrangere regole senza pericolo per altri, ma è solo per il gusto di farlo perché ciò che comunque detta legge è la distanza sociale, che tradotta nell’umore significa malinconia.

E comunque l’avventura è diventata intorno a casa, la scoperta da esteriore si porta verso il trascurato per mancanza di tempo, verso il particolare. Basta una frase, un pensiero che ne rincorre un altro e come una nube, l’acchiappa, si mescola, allora ne nasce un’intuizione che apre una porta. Oltre c’è l’azzurro, i prati, il mare, la sabbia, i pini, ma tutto fuso, indistinto com’è nelle possibilità che hanno come unica realtà una strada malamente tracciata tra l’erba. Ed è facile perdersi, deviare, guardare per aria o nel posto sbagliato. Trovarsi con la sensazione che sia passato qualcosa d’importante, magari non così tanto da cambiare il mondo o solo noi stessi, ma originale, mai pensato prima e che quel sentiero sia finito in un nulla d’erba che ancora rasserena eppure non è la stessa cosa. Non si tengono le parole per la coda quando sono colme di significato, bisogna lasciarsi andare a loro, immergersi in esse, seguirle senza metterci nulla o quasi di pensato e loro ti conducono, ti portano in luoghi che avrebbero bisogno di sviluppo, di tempo senza tempo, di storie per nascere e poi crescere, nostre prima di diventare autonome e d’altri.

Eravamo alla fine di un cammino lungo, fatto di scarpe impolverate, sete e ombra alle spalle. Una grande radura, dei segnali imprecisi che indicavano la direzione e il sentiero che si sdoppiava: puntava in una direzione e poi nell’altra fino a farci trovare al punto di prima. Era la fine o quasi di una traversata e Fiesole il punto d’arrivo, ma non si vedeva. C’erano dei colli e molto verde, alberi, arbusti alti che mascheravano le direzioni. Parlammo dopo molti silenzi che testimoniavano di non sapere e ci sembrò fosse rimasto un sentiero nell’erba. Una direzione già percorsa, ma poi abbandonata. La seguimmo fino a capire che stavamo entrando nella tana di un cinghiale, ne seguì una corsa sconnessa all’indietro, una paura di zanne, di piccoli disturbati, di una madre inferocita, finché tornati nella radura, tornammo a ridere. Di noi, dell’incapacità di vedere l’evidenza e quindi l’errore e ancora di legare i tanti passi fatti con qualcosa che li completasse. Bisognava fermarsi, seguire il pensiero nuovo, lasciare che maturasse e divenisse direzione, così trovammo la strada.

E così sono le parole nuove che si formano e indicano qualcosa che è appena conosciuto, mai pensato prima in quel modo e già diviene fascino e possibilità, ma serve tempo. Non quello di prima ma quello della realtà di adesso, che non è solo minacciosa, ma riporta le cose e noi alla luce, a ciò che conta e contiene tutto il bello e il suo contrario, ciò che dev’essere scoperto e la banalità che ora non ci attira più nel suo lucore privo di contenuto. Ho la sensazione che la scelta e la sua possibilità emerga ora con più forza e torni a noi. Questo tempo che abbiamo a disposizione, regalato, se non ci indica nulla di nuovo, sarà tempo perso.

passioni

Ci sono passioni che diventano vita e, in un certo senso, lavoro. Esse prendono e in un dipanarsi continuo di scelte successive, rendono chi le prova, conoscitore dei infiniti cammini. La peculiarità ai queste passioni, perché altre ve ne sono e di altra natura, ed effetto, è il loro inesauribile prendere, accumulare nozioni, particolari, che a loro volta si combinano in conoscenza totalmente nuova.

Il cremisi di un francobollo si sposa con la misura della dentellatura e il particolare
carattere e la disposizione usata per la scritta. In fondo, a destra, si nota appena il nome dell’incisore e in trasparenza la filigrana definisce una validità e insieme la singolarità di quel pezzo che, sebben descritto ad altri appassionati, diventerà oggetto di desiderio per la poca tiratura, il timbro che l’ha annullato, la busta che è stata affrancata e spedita.
Sparisce totalmente il contenuto che quell’oggetto ha accompagnato a destinazione, esso è di fatto inutile alla passione, segno che le vite possono divergere anche
nell’accompagnarsi. Come per un francobollo, può essere una moneta, oppure un
pigmento particolare descritto assieme alla tecnica che l’ha generato.

Ho conosciuto, e sono rimasto affascinato, da esperti di araldica che con le loro parole strane e scelte, erano in grado di descrivere vite, narrare storie ed evoluzioni di casati, che a loro volta avevano costruito piccoli domini, generato figli e patrimoni, li avevano sposati e dissipati in altrettante vite che via via modificavano l’arme, aggiungevano bande, arricchivano o anche perdevano il blasone.

E ancora ho conosciuto esperti di colori antichi e moderni, buoni chimici, in grado di dare nome alla sfumatura. In grado di riconoscere granulosità, connubio e trasformazione dei materiali differenti messi assieme dopo accurate proporzioni e macinature nel mortaio, di riconoscere diluizioni con olio di lino o di altre erbe e l’intervento di componenti inusitati messi per prova o per antica conoscenza trasmessa. Colori che magari non disdegnavano l’uovo scomposto tra albume e tuorlo e che venivano poi stesi sul fondo preparato di una tavola ben lisciata e pronta a tenere il colore e farlo poi sfavillare e mutare per anni teoricamente infiniti.
Di sculture in legno per esempio trovai a Lvov un esperto, di un artista di cui non si sapeva nulla o quasi. Forse proveniente dal Sud Tirolo o dal Trentino che aveva fatto molte pale d’altare e decorazioni a figura piena o ad alto rilievo di altari nella città di Lvov e nei paesi vicini. Di queste sculture che sembravano la concreta raffigurazione della pittura di El Greco, non era rimasta che una parte e di questa, la persona che conobbi, era in gradi di illustrare l’umore che aveva accompagnato la sgorbia, il mazzuolo o lo scalpello, l’errore intenzionalmente voluto, quello riparato con segatura accuratamente incollata e ricoperta di foglia d’oro.
Poteva parlarmi dell’occhio restante di una testa che al tempo non era orba e aveva per sé riservato il lapislazzuli, scavando poi le guance in un moto di sofferenza che si rifletteva nell’occhio rimasto. Una gran parte di queste sculture era stata ammassata in una chiesa divenuta magazzino, accatastate, messe le une sulle altre oppure disposte in un nuovo ordine per creare crocchi e conversazioni tra santi e donatori, forse per irridere ciò che un tempo le aveva prodotte, nel nuovo clima areligioso post rivoluzionario. Forse per lo stesso motivo e per ignoranza, non poche di queste sculture erano state usate per scaldare le case vicine e un posto di ritrovo militare dove sostava la pattuglia di turno per la notte.
Della passione che questo professore (tale egli era nella locale importante scuola d’arte), aveva messo per rintracciare, ricomporre opere di cui si aveva labile traccia, era rimasta una piccola mostra organizzata nella città, dopo la separazione dell’Ucraina dalla Russia, e in due, ma forse erano di più, pubblicazioni malfatte che avevano preceduto la mostra e che con essa avevano avuto la pretesa di essere vendute, mentre si erano accumulate
nell’appartamento del professore e nei magazzini dell’editore.

Quest’ultimo le aveva mandate al macero dopo non molto tempo dalla pubblicazione, per cui di tanta passione, analisi e scrivere erano rimaste le copie possedute dal professore.
Questi continuava i suoi studi quando lo conobbi, ormai la passione per questo quasi
ignoto scultore, aveva assorbito ogni altra attrazione e davanti ad un caffè e a un dolce pieno di miele e noci, in una caffetteria del centro, con arredi vecchi e lampade basse ricoperte di pergamena, egli mi raccontava dei particolari dei volti, del significato del tanto scavare i corpi e torcerne le posture, di colori apposti sul legno con qualche segreto intento, mentre la figura vicina veniva solo lisciata e trata con olio di noce.
Mi parlava con un italiano parlato sui libri, che si mescolava con parole tirolesi che dovevo farmi tradurre oppure lasciavo fluire il discorso intuendone il significato.
Il suo sogno era che a quell’ignoto geniale artista fosse dedicata una mostra in Italia, che gli fossero accostati maestri coevi, che da essa venisse il percorso di idee e di forze che si erano scontrate nel passare le alpi e poi raddolcita nell’impero, ma senza rinunciare ai significati. Ecco perché quella postura poteva essere eretica a Roma, mentre lì non lo era, e quel mettere insieme santi particolari, insistere su Giacomo e sulla Maddalena, apriva uno spiraglio su una contesa che da sempre era circolata in modo sotterraneo o esplicito nella Chiesa e aveva ricongiunto arte e credere passando dai Bogomili sino ai Catari ma ancor prima radicandosi nella Camargue e nel Cammino di Santiago e ancora avanti era scesa verso il sud della Spagna, ancora moresca e risalita verso il nord della Francia.
Tutto questo era rintracciabile in opere diverse, così diceva, ed enumerava, come vi fosse stato un confluire in quella passione che lo aveva preso scoprendo e salvando sculture sino ad assorbire ogni altro interesse e farne in lui la storia di secoli e di radici che affondavano in un bujo indeterminato, ma ben orientato da cui ricevevano senso e nutrimento.
Delle passioni si dovrebbe dire il rispetto che esse meritano, dell’infinito catalogo di
conoscenza che esse generano e che viene tenuto, conservato o dissipato, per poi
riapparire in altre teste o in altre vite. E’ l’inutilità che rende grande la passione, non
arricchisce di danaro chi la prova e nel particolare scavato, scoperto, fatto proprio, rende onnipotente chi lo possiede.
Di questo parlavo con un venditore di bastoni animati di Buenos Aires, mentre mi illustrava la forma e le impugnature lavorate in avorio, in metallo o in legno di ebano o di cirmolo, che dovevano servire alla doppia funzione ovvero quella del sorreggere e quella della difesa, nel caso fosse stata estratta la lama nascosta nel bastone. Chi era con me ne comprò due e credo siano ancora nel portaombrelli vicino alla porta d’ingresso di casa sua. Poi si spostò ad osservare un finto spettacolo di tango. Io non ne presi nessuno e chiesi al venditore se potevo offrirgli un caffè nel bar d’angolo della piazza. Accettò ed entrando mi disse che in quel caffè spesso sostava Borges e che più di una volta avevano parlato assieme. Mi accompagnò al tavolo di marmo ove il grande scrittore sedeva e restava a conversare a lungo con gli amici o con la moglie che da quando ci vedeva poco lo accompagnava e mi disse il venditore di bastoni, che il poeta con la mano voleva sentire il pomello di ciò che egli vendeva, i pezzi migliori che venivano dai patrimoni disfatti nelle successive “rivoluzioni” che si erano susseguite negli anni che avevano preceduto Peron e tastava, percorreva con le dita, decifrava incisioni e intagli, descrivendo con voce bassa ciò che apprezzava.
Io guardavo dalle alte finestre, con le tende di lino ecru, aperte il necessario per far da barriera al sole, vedevo la strada che poi sbucava nella piazza, i vetri colorati di una casa d’angolo, l’albero che s’intravvedeva al centro del patio, dopo il volto d’entrata dal portone spalancato. E assentivo, chiedevo, ma la mente era in quel luogo vent’anni prima, e il lungo bancone di marmo e lo sbuffo di vapore della tonda macchina di caffè alla francese con l’aquila d’oro in cima, me lo confermava.

sollecitudine allegra

Oggi ho letto un testo, bello. Era bello e tenero, parlava delle persone in questi giorni. Delle persone che si riconoscono, dei condomini immensi che si riscoprono pieni di persone, di vite, di bisogni. Non solo rumori, assemblee per trasformare le porte in fortilizi, ma parole scambiate, piccole necessità, premure per sconosciuti. Parlava di una realtà che s’illumina negli smartphone, nei tablet, ma che improvvisamente alza gli occhi e rivede un vicino. Non una porta ma chi ci sta dentro. Mi è sembrato bello perché era positivo, non si fermava al lamento, anzi non si lamentava per niente. Neppure parlava dei tempi della normalità.

Ho pensato, ma qual è la normalità? Perché ci serve un evento per alzare gli occhi e nuovamente vedere e sentire chi ci sta attorno. Questa è la parte malata sul serio di questa società, lascia perdere chi è appena oltre un pianerottolo, chi ha un orario diverso. Non vede e preferisce il rumore alle parole, al capire.

C’era profumo di pane in casa e ho pensato a quando si fa un dolce e se ne offre al vicino. A quando si condivide e a un certo punto le età si confondono, restano i bisogni. Diversi, con urgenze differenti, ma sono sempre una carenza di qualcosa. E ho pensato ai sogni. Ne ho avuti molti. Ancora ne ho. A quanti ne ho condiviso, di quanti ne ho parlato prima di tacere. Di questi sogni poi si è avverato altro, che non era da buttar via, ma era il terreno per altri sogni. E così sono stati i fallimenti che hanno contato più dei silenti successi. Sono stato fortunato, felice, triste, malinconico e chissà quante altre cose. A quante persone davvero l’ho detto, che pure non erano distanti, che potevano capire?

E della mia piccola pazzia, ho lasciato trapelare solo a volte il lato allegro, l’ho condita di troppe parole perché si nascondesse nelle malinconie di tutti. Ecco che assieme al riso si sarebbe potuta condividere la malinconia e i biscotti. Quelli che faccio bene, per mangiarli assieme. E tutto questo senza che ci fosse un evento per alzare la testa, per spingere verso l’altro con allegra sollecitudine.

Di questa parola vorrei tenere il senso dentro e dopo questi giorni: sollecitudine allegra. Un po’ pazza, leggera, tenera, ma sollecitudine per chi vive attorno e sogna. Proprio come me.

ridondanza e verbosità

cof

L’asciutta prosa scientifica, o il racconto essenziale fatto di frasi piccole, soggettoverbopredicato, e di concetti secchi come staffilate, non m’ appartengono. E qui il discorso potrebbe finire soverchiato dall’evidenza di tanto scrivere anche in questa pagina virtuale.  Eppure c’è stato un tempo in cui pensavo che l’essenziale fosse dire ciò che serviva, ovvero tenere l’utile. Come in un film, togliere tutto  ciò che era abitudine o ripetizione, restare nell’azione che ha un incedere semplice: genesi e sua causa, evolvere, caso, epilogo. Insomma ciò che ogni autore di gialli conosce e ciò che ogni innamorato vive. Non mi bastava e ora penso che nei particolari, nel ripetere con altre parole ci sia una ricchezza che sfugge a chi non ha tempo e voglia. E neppure gli interessa perché non cerca quel dire che si trattiene o si nasconde, ma si basta dell’evidenza.

Però è indubbio che questa osservazione detta da un’amica, sul mio scrivere ridondante e verboso, m’abbia colpito, che l’abbia riconosciuta come vera. Mi ha sorpreso e un po’ rattristato come accade quando ci viene fatta un’osservazione che ci riguarda e non ci piace. Ma il suo essere vera me la ripropone come inscindibile da ciò che sono e non avendo voglia di cambiare se non per scelta, mi fa pensare che il mutare sarebbe un mostrarmi diverso da me stesso o un pezzo di bravura. Quindi un fingere. Resta la genesi di come sono diventato ridondante e verboso, perché questa è una rappresentazione involontaria e fedele di ciò che sono. Qui le ragioni si moltiplicano, diventano meno precise. Per eccesso di immagini forse, oppure per l’inadeguatezza che sento nel raccontarle perché le parole approssimano troppo, o ancora perché in ciò che sento e vedo si nasconde molto non dicibile.

Ho anche pensato che se i termini sono precisi, il pensiero coincidente, non c’è bisogno di spiegare troppo. Un pensiero che non si perde, non divaga e va diritto all’oggetto è di per sé esaustivo. Non lascia ombre. E invece amo immergermi nell’ombra, nello scovare ciò che prima non si vede e poi si precisa. Questo esclude che la prosa possa essere efficace per un comunicato politico, per una presa di posizione. Si riduce il campo di applicazione e il raccontare è sempre un raccontarsi che non copia perché si intinge nell’originale. E questo amore per ciò che si intuisce è una attività da perditempo. Chi usa l’intuito per affiancarlo a ciò che vede e sente, sceglie di approssimare ciò che non si vede. Forse per questo l’ombra diventa fresco rifugio e fonte di attenzione. L’ombra contiene il silenzio di ciò che non vuol apparire e per raccontarlo o usa lo stesso silenzio oppure ci si muove in una linea incerta che tenta di rendere interessante ciò che apparentemente  non interessa. Come conoscere un segreto per alcuni è un peso, per altri una ricchezza.

Non a caso mi attira la spirale, il vedere il passato e il futuro nella spira che precede o segue mentre ci si muove dall’uno verso l’altro e non lo si capisce per davvero. Come per le centurie di Nostradamus dove ci sta tutto e il suo contrario. Ma questo accade quando si vuole interpretare ciò che si vede e non si conosce non quando lo si intuisce.

Di tutte queste parole si potrebbe fare un riassunto:

non ha le parole per dirlo oppure ne ha troppe,

ma solo chi non l’ha abbastanza amato

non ha inteso che ciò che viene raccontato è solo una parte,

e neppure la migliore,

di ciò che in quelle troppe parole viene svelato e celato.  

 

fragile e duro

Con il passare delle esperienze il corpo si rafforza, diventa meno permeabile. Questo è ciò che ci pare di vedere, a volte di sentire, poi basta poco per scoprire una fragilità. Se il poco può ferirci significa che non è così insignificante e vuol dire anche che l’insicurezza che abbiamo ben riposta sotto la pelle è sempre in attesa di conferme. L’amore aggiusta tutto, il disamore disfa, ruota tutto su questa dualità che si contrappone e annulla per infiniti gradi le attese reciproche, le modifica. Basta una parola e tutto torna da capo, come si fosse in un immenso gioco dell’oca fatto di sentire, di esperienze, di fatti accaduti che dovrebbero aver insegnato. Ed è vero, hanno insegnato, ma non definitivamente perché qualcosa, da qualche parte, ci dice che ciò che si è sbagliato una volta può essere rifatto differentemente, che ciò che ha avuto un esito può averne un altro e così si apre con forza la via dei ghiacci dell’esperienza. Ogni anno un rompighiaccio rompe la morsa che stringe il porto di una città del nord del mondo e apre la strada perché assieme alla bella stagione tornino gli scambi, tutto ridiventi fresco, l’aria trovi quel profumo che da lontano ricorda tutto quello che può essere fatto e si farà in parte. È una metafora che ci riguarda? Penso di sì perché siamo fragili e le nostre fragilità sono un valore immenso in quanto ci permettono di sentire e valutare sfumature che rendono la vita nuova e bella ogni giorno, siamo, in  parte, come quel ghiaccio che improvvisamente si fa sottile, riflette la luce e poi, prima d’essere acqua, si frange. Ma siamo anche duri per paura di soffrire. Conosciamo la sofferenza, ciascuno a suo modo e in un  suo grado, che  nessuno può sindacare su di essa, è una cosa nostra. A volte preziosa perché dimostra il valore di ciò che si perde o muta, anche se sappiamo che ciò che vale davvero non si perde mai, sappiamo anche che non sarà mai più come poteva essere. In questo la durezza è scorza, superficie che tiene sotto il sentire. Duri e fragili come quel ghiaccio che si frange e lascia che irrompa l’acqua, che lo scorrere diventi visibile. Sentimento sentito, provato, percorso con timore e con trepida speranza. Dovremmo, (brutta parola che esprime ciò che non si fa) prendere cura delle nostre incrementanti fragilità. Sapere che gli anni ci rendono esposti alla parola più che alla rissa. Usare le parole e i silenzi con amore verso noi stessi per avere qualcosa da donare a chi è importante per noi. Invece ci si acconcia alla cultura dell’apparire e così non siamo mai nessuno. Non noi che vorremmo essere altro, non quel simulacro che può scivolare nel ridicolo della non età, del non appartenere al nuovo che possiamo esprimere ma alla moda che ci dovrebbe rendere differenti, più fascinosi al mondo. Non siamo più noi se durezza e fragilità davvero non ci rappresentano, nei principi che ci rendono differenti, nella corazza flebile che ci espone all’amore quando esso vuol colpire. Accettare che le fragilità aumentino con la consapevolezza dell’aver vissuto e amato rende quella durezza il morbido comprendere ciò che ci viene detto e ci mantiene saldi su ciò che fa la differenza dei nostri principi, dei sogni da sognare, del nuovo che ancora non sappiamo di poter vivere.

 

oppure

Sfugge l’importanza di avere un oppure perché oggi, qui, in occidente e in altre non molte parti del mondo, la parola ha un significato di alternativa. Ad Auschwitz e in altre decine e decine di campi di concentramento, non c’era un oppure. Nelle carceri della Gestapo, in via Tasso, alle fosse Ardeatine, non c’era un oppure. Non c’era per i bambini che venivano eliminati immediatamente, non c’era per i vecchi, mancava per gran parte degli uomini e delle donne che eccedevano la capacità momentanea del campo, che dovevano far posto ai nuovi arrivi. Non c’era un oppure che indicasse una speranza, un’alternativa, non un libero arbitrio che non fosse il suicidio: la scelta finale non veniva mai contraddetta.

Noi possediamo schiere di oppure, scegliamo, sbagliamo e modelliamo vite, oppure facciamo altre scelte, mettiamo in moto i destini, carichiamo il tempo di possibilità. Chi non ha oppure viene rifiutato dal tempo, non gli è utile, non contribuisce al suo accumularsi e il rifiuto del tempo è il rifiuto della vita. Così non ci rendiamo conto che in quell’oppure che possediamo sta la libertà di essere se stessi o magari non esserlo, ma con una alternativa. Possiamo, per volontà essere altro.

A milioni di persone quell’oppure fu tolto, erano 6 milioni di ebrei e 5 milioni di altri che non concordavano con un’idea, un regime, che erano zingari o testimoni di Geova, anche solo la malformazione bastava per togliere l’oppure. Non è finita e su questa parola bisognerebbe riflettere perché anche oggi, in altri modi, ad altre persone, viene sottratta l’alternativa della scelta. Ed è una scelta tra l’essere uomini oppure non esserlo, come fosse possibile a qualcuno togliere questa natura.

Siamo nati nella parte giusta del mondo, siamo nel momento in cui essa ha il suo maggior benessere rispetto al passato, non abbiamo memoria perché la memoria toglie piacere a ciò che si ha e di cui certamente non portiamo merito, ma dovrebbe farci riflettere che proprio in questa parte del mondo altre persone pensavano che gli stessi diritti, il benessere, la propria capacità di scelta, di avere un oppure non sarebbe mai stata messa in discussione e invece è bastato poco. Un nonnulla e non c’era più l’oppure nelle vite. E neppure le vite.