non c’è fretta

Non c’è fretta, ma ci sono quelli a cui non basta mai e allora la fretta è poco, una risposta senza attenzione non basta, il tempo si comprime come una molla. Non c’è fretta e intanto sembra tutto accada, quello che svoltava una vita. Forse. O solo un segmento, ma era importante. Quanto era importante? Tantissimo, ma allora c’era fretta perché ciò che si è rotto restasse intero. Fragile, controverso, delicato e già altro, ma intero. Ora non c’è più fretta, magari la prossima volta. Tutto assume la sua dimensione, perde colore e consistenza, diventa un mare di piccole increspature del se. È tutto così normale, ripetuto, banale sino al midollo che fa pensare che tutto lo sia. Non è così, sarà per la prossima volta. Ora non c’è fretta, c’è tutto il tempo.

una giornata di fine inverno

Una giornata cioccolata. Densa, cremosa, scura come un gorgo di passione.

Amara, dolce. Dolce, amara. Bollente.

Brillante negli occhi che hanno il freddo agli angoli, una piccola lagrima di reazione.

Allarga, sorride, sofferma.

Sorseggiata in punta di labbra, ripulita dalla lingua, assapora l’ultima goccia ferma dove il labbro osa arrogante.

Sensuale sente il sapore del prima. Ancora. Ricorda.

Giornata che s’inerpica in spirali, che s’avvolge su un centro che attira, scorre, poi punta al profondo, travolge. E scende.

Entra per uscire trionfante e rientra, nell’amaro dolce. Assapora, ascolta, dice, gusta, attende.

È amara, dolce, croccante, solida.

Poi il tempo riprende. Dopo.

quisquilie

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Mettere a posto un particolare, una cosa minuta che nessuno noterebbe. Prendere qualcosa da uno scaffale seguendo un pensiero. Accanirsi nel riparare un oggetto che non vale nulla, eppure vale. Cose importanti a noi, in quel momento, urgenze che celano la mania. Qual era la mania che ci avrebbe fatto grandi, quella che se portata a compimento avrebbe colmato quella crepa con il noi  irrealizzato? Ed essa che relazione ha con la felicità? La stessa felicità  che s’affaccia quando tutto va a posto e ritrova un ordine solo nostro, una tranquillità e un deporre le armi.

Quisquilie

il volo

 

 

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d’ali verdi il volo,

in testa un grumo di colore,

e un pensiero che s’inerpica nel cielo.

Lo riempie d’ansia,

di libera quiete,

di frenesia di profumi,

d’ardore che tutto scuote e vibra:

pelle e viscere in accordo,

animale finalmente.

Precipita la vita e sgorga

nel volo che non finisce.

 

pretese

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E’ come dire: non capisco la matematica. Oppure: non mi piace la poesia. Ed esserne pure contenti. Eppure controlliamo il resto, guardiamo l’ora per sapere quanto manca a qualcosa d’importante, ci fermiamo a guardare un tramonto, ci commuoviamo per una musica, ecc. ecc.  Adoperiamo l’aritmetica, preferiamo e gustiamo il bello, anche senza esserne educati. In quei momenti, forse, vorremmo capirne di più, per goderne di più. Allora può essere indifferente, o addirittura motivo di gloria, non capire i sentimenti, farci la scorza, e non sapere (che poi significa scambiare e comunicare) di cosa si parla quando usiamo parole come amore, condivisione, affetto, tristezza, solitudine, ecc. ecc. ?

E se questa fosse solo un’ incapacità culturale, una timidezza ad entrare in campi troppo sensibili e pericolosi, divenuta carenza d’educazione, allora ciò che sembra lasciato all’intuizione e sensibilità del singolo, avrebbe di una grammatica, delle regole sintattiche, e così sostanza e sfumature emergerebbero ben oltre l’apparenza, la superficialità, il sentire innato. Un tempo solo alcuni studiavano, e usavano il sapere, il resto brancolava nell’istinto e nella fatica dolorosa delle vite, così, oggi, i sentimenti sono ancora terreno in cui al più giova l’esperienza e nessuno insegna come entrarci, rimanerci, uscirne. E come viverli al meglio. E si vede cosa ciò produce.

abilità

Mi avevano insegnato a far la punta alle matite. Nel libro di disegno c’erano illustrazioni che mostravano il legno scolpito e punte esagonali bellissime. Non si poteva usare il temperino, e neppure il coltellino (forse temevano ci ammazzassimo a vicenda negli intervalli), bisognava adoperare un attrezzo strano, antenato del cutter, che conteneva una lametta da barba. E imparare a controllare la presa e la forza del braccio per avere un risultato era una disciplina zen che ci avrebbe insegnato anche a fare linee sottili oppure grosse con le stesse matite. Ma questo non lo sapevamo e nessuno lo spiegava. E anche se l’avessero spiegato sarebbe stato lo stesso. Così si consumavano le matite, nel profumo del legno di cedro e nel truciolo di grafite che c’ imbrattava le dita, i fogli bianchi A4, squadrati con attenzione, il banco e non di rado maglioni e camicie. Con successivo e insufficiente gran uso di gomme. Quelli bravi erano i puliti, gli ordinati, gli appuntiti. Ci voleva talento e io non ne avevo, eppure di quel fare ho nostalgia e se prendo una matita per farle la punta come un tempo, tralasciando i temperamatite evoluti che posseggo, lo faccio per mio conto, come fosse un piacere  segreto. Non c’è un fine particolare, né un’utilità, è solo la verifica di un ricordo d’abilità che nessuna macchina riesce a dare. E in un sorriso altrettanto segreto finisce tutto.

passato assoluto

Ci sono ammissioni così staccate e definitive, semplici e forti, che ognuna di esse racchiude un pezzo di vita senza gli ammortizzatori dei gesti consueti, della quotidianità. E’ un dire che sfiotta ed è già tutto. Un ti ho amato come nessuno mai, oppure, sono stato così felice e quella felicità mi basta, oppure allora si è spenta la voglia di vivere, ecc. ecc.. Sono pezzi di esistenza che riassumono e scandiscono la vita, constatazioni senza giudizio e quindi senza appello. Non sono neppure rivolte ad un interlocutore, ma a noi che ne abbiamo consapevolezza assoluta. È così, lo è stato e fa parte del capirsi davvero a fondo, là dove non ci sono alibi, nel passato. Si può pensare che se così è stato non è detto lo possa essere ancora, Non allo stesso modo comunque. Si può pensare che sono gli insinceri con sé che di necessità cadono nella coazione a ripetere gli errori. Ma si può anche pensare che non siamo mai gli stessi e che ciò che era assoluto lo diventerà diversamente. E due assoluti coesisteranno, solo che uno è adesso e un altro è stato. Segno che non c’è un limite. In tutti i sensi e che come si è stati felici o infelici lo si potrà essere ancora.

bradipo

Corro, divoro vita.

Io no, aspetto che mi venga addosso. Ho esaurito da tempo l’idea che la corsa mi dia di più del capire, che l’esperienza abbia un valore se non mi da nulla e non mi rende almeno per poco felice. Ho anche l’impressione che non sia la corsa ma la leggerezza il vero modo di andare innanzi. Che nella leggerezza ci sia un puntare all’essenza, un trovarla e poterla scambiare con chi ha tempo per condividerla.

Magari sono gli anni che si accumulano, ma la stagione delle corse ormai non mi attrae più. Ciò non significa che rinuncio ad andare incontro al nuovo, anche se mi attrae più la bellezza della novità. E la bellezza ha bisogno di tempo e leggerezza. Per accoglierla e per darle spazio dentro di noi.

Credo ci sia generosità nella bellezza, che sia un uscire da sé che non ha equivalenti se non nell’amore. Eppure è difficile trovare categorie morali nel fruire della bellezza. In una astrazione immemore di limiti  è davanti a noi e si propone, basta coglierla. Sì credo ci sia generosità e semplicità nella bellezza. Se c‘è una cosa che il pidocchioso non potrà mai fare è innamorarsi della bellezza, perché vorrà possederla. Ma la bellezza è qualcosa che oltrepassa i mezzi, stabilisce un rapporto dove l’impossibile non è il possedere ma il non esserne posseduti e prigionieri. E dopo tutto diventerà più opaco e privo di luce, se la si perderà come cognizione. Per questo nella velocità e nel nuovo mi chiedo se c’è bellezza, e quando c’è non è né veloce né nuova, al più lo è a me che la scopro. 

tornare

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Mi prende, a volte, la tentazione di tornare ai libri miei che tappezzano le pareti attorno. Alla musica che paziente attende d’essere ascoltata. Alla mia scrittura senza fretta, agli inchiostri, ai pennini e alla carta buona. A volte mi prende la necessità di prendermi tutto il tempo possibile, di stare in silenzio, di lasciare che il dentro e il fuori si parlino, e tutto si allacci e scorra. E’ la necessità di tirare il fiato, sentire l’aria che riempie, il buon sapore degli odori, i rumori di ciò che sta attorno. Così scorro con gli occhi i luoghi che conosco. Penso che ho bisogno di piccole, poche cose: le aromatiche sul terrazzo, qualche fiore che procede per suo conto, il cibo semplice. E gli occhi tornano sui libri, tanti libri, più di quanti mai leggerò, per tenere aperta la vita e la speranza, il futuro e il passato intrecciati. Ho la fortuna (e a volte è vincolo a capire) d’ una grande memoria che ricorda ciò che la rete della vita ha tenuto e messo assieme, ciò che è stato e non è stato. E in questa piccola pace sento l’equilibrio di quello che si raccoglie attorno e dentro me con rinnovato ordine: la passione, il tumulto, il rifiuto, l’amore. Il futuro e il tedio che con piccoli dispetti si confrontano. E penso allora che è tempo di tornare, ma non ancora tempo di chiudere le porte al mondo. 

la forza del dire

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Non importa sia la verità assoluta, però finché non si dicono le cose esistono meno. In particolare nei rapporti tra persone, e non solo. L’evidenza è meno evidenza, anzi è relativa e vivibile sinché non la si dice, perché non ha la radicalità del reale. Il reale comporta scelte, lo stare da una parte, e come in tutte le scelte, qualcosa verrà buttato via.