altra epoca ma sempre 25 aprile

Spesso parlava di quegli anni che mescolavano polvere, eroi e vili. Parlava di freddo senza tregua e di notti brevissime costellate di fughe e fatiche. Parlava e taceva, perché ciò che emergeva non era solo una gioventù consumata tra guerre, precarietà, richiami e coercizione, ma anche idee da esprimere a mezza voce, ceffoni presi e accettati, paure e vita con sogni normali in un ambiente che li contraddiceva. Poi c’era stata la liberazione, la fatica delle macerie da recuperare in qualcosa che serviva e ancora l’abbandono di ciò che non era più esigibile. Realista a tal punto da contare sul presente per avere un futuro. E ascoltare le voci forti degli oratori che venivano per il referendum, le elezioni. Tutte cose su cui non aveva dubbi, come la ricorrenza del 25 aprile, che era una consolazione per ciò che non era avvenuto ma poteva ancora avvenire, per le promesse mancate, per il tempo che passava senza migliorare le condizioni di chi aveva lottato e di cui si parlava tornando verso casa. Per sperare e per vivere la vita di chi amava e sua con i giusti sogni. Una casa in subaffitto visto che l’altra era un mucchio di sassi, malta e mattoni sbriciolati. Una casa che bisognava riscaldare d’inverno e tenere pulita, una casa in cui doveva esserci profumo di cibo a mezzogiorno e sera e il caffè la mattina. Per questo andava distante, rinunciava, sperava e faceva un altro figlio. Perché la speranza era in ciò che credeva possibile e il possibile passava attraverso le sue mani, la sua fatica, le sue idee che ora poteva dire ad alta voce. Qualche domenica pomeriggio, ma erano rare occasioni, nella sede del partito si ballava. Era un palazzo storico della città vecchia, la strada dell’antico decumano, lui non lo sapeva e forse poco gli importava considerate le troppe città viste, il mondo assaggiato per forza. Andava con sottobraccio la sua donna, il vestito buono, di lana inglese e il bambino tenuto per mano con la promessa di un gelato o di un dolce per dopo. Era domenica o il 25 aprile, comunque era festa e il lunedì o qualsiasi altro giorno avrebbe avuto altri abiti, molta fatica e spesso una distanza poco sopportabile da casa. Nulla di eroico, malinconie serali per chi ritorna il sabato o a fine mese, più difficile era stato prima. Nella guerra. A lungo, E ancora per tutta la dittatura, per il tempo in cui non si poteva essere chi si era e solo la vicinanza con un sovversivo riconosciuto era un sospetto permanente e quei sovversivi erano un amico, un vicino che mai sarebbero stati traditi. La fonte di domande, il tono mellifluo, lo schifo e la repulsione che provava per chi le faceva, generava il vincolo di essere reticente per lui, così chiaro e semplice nel dire ciò che pensava. Ora era ancora difficile, tante illusioni si erano perdute assieme a una giovinezza mancata. Come tanti altri. Ma c’era il presente e si poteva dire ciò che non andava bene e questo apriva la porta al futuro. Stessa fatica di prima, però diversa e nuova. E quei figli avrebbero avuto la libertà che a lui era mancata.

questo caldo è strano

Questo caldo è strano. La stagione si nasconde. Eppure gli alberi hanno i loro sensi che annusano cose che non sentiamo e cambiano di colore le foglie.

Questo rassicura perché sembra non abbiano presagi. Siamo stati educati al ritmo delle stagioni. Da piccoli guardavamo fuori da alte finestre la luce che si affievoliva rapida nella sera. A scuola o in casa veniva una malinconia mitigata dalla speranza della prima neve. E qualche volta accadeva. allora le foglie gelavano, si orlavano di brina sugli alberi e a terra, formavano uno strato spesso su cui si correva scivolando e ridendo, mentre gli adulti camminavano lentamente. Intanto gelava l’acqua nei fossati, e la città continuava il suo ritmo di lavori mescolati. Dalle finestre di casa vedevo il mercato del pesce, senza le stecche di ghiaccio che circolavano d’estate. La temperatura esterna conservava senza problemi. Solo il garzone del fornaio, correva con la grande cesta di vimini sulla bicicletta e gli zoccoli ai piedi. Era ancora con le maniche corte, mentre noi gelavamo nei maglioni. Ma sembrava naturale, lui dall’alba era stato davanti a un forno e noi gli compravamo il pane caldo.

Questo caldo è strano, non è l’estate di san Martino. Mia nonna non era contenta se le stagioni erano infedeli, a novembre il freddo aiutava a rimettere le cose a posto, non c’erano più zanzare, cambiava il cibo: diventava più greve per i freddi che chiedevano calore. Le finestre si opalizzavano del vapore dei lessi e scrivevo con la punta del dito per vedere le gocce che correvano verso la cornice. Se il caldo era anomalo mia nonna si preoccupava, i mesi dovevano avere un senso.

Le foglie da prendere a calci erano un passatempo e gli alberi diventavano stecchi contro un cielo che si faceva grigio e annunciava neve. Il freddo e la nebbia, erano la vicinanza delle feste:a loro modo rallegravano. Mi piace anche adesso il colore, la consistenza, il rumore delle foglie calpestate. Lascio che la sensazione entri e mi dico: è autunno. Ma dovrebbe far freddo, invece ancora volano zanzare. Capisco che non è il caldo ad essere strano, ma siamo noi che siamo strani. Stupidamente strani.

quisquilie

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Mettere a posto un particolare, una cosa minuta che nessuno noterebbe. Prendere qualcosa da uno scaffale seguendo un pensiero. Accanirsi nel riparare un oggetto che non vale nulla, eppure vale. Cose importanti a noi, in quel momento, urgenze che celano la mania. Qual era la mania che ci avrebbe fatto grandi, quella che se portata a compimento avrebbe colmato quella crepa con il noi  irrealizzato? Ed essa che relazione ha con la felicità? La stessa felicità  che s’affaccia quando tutto va a posto e ritrova un ordine solo nostro, una tranquillità e un deporre le armi.

Quisquilie

frammenti

(Ci) Sono sempre frammenti da ricomporre anche se pare tutto intero.
E tutto quello che non scegli mica si dilegua.
Ma ogni tanto torna. E queste storie che sembrano compiute non si compiono per davvero.
Capisci che c’è un principio e un’apparente fine.
Ma qualcosa torna sempre. Resta ed è un fantasma piccolino che sorride e poi scompare. E tu mica hai capisci cos’è rimasto ancora.
A volte mi par d’essere la stazione degli autobus. Sono tutti così uguali.
E magari chi parte ti pare di conoscerlo perché sembra quello che da poco è arrivato.
Invece è diverso com’è per ogni storia nuova. O almeno così sembra.
E allora penso all’Africa, ai suoi pulmini colmi di persone, di fagotti di cui non è possibile far senza, però se lo perdono mica ci pensano poi troppo.
Forse è nostalgia di colori e di precarietà che si respira assieme, di profumo di persone che sperano così forte che si sente, e ti contagia come un’allegria.
Oppure è quel viaggiare che va in ogni posto e non si ripete mai, che riapre storie.
È che ognuno raggiunge qualcosa di suo, quando deve, ma quando si può chissà se mai finisce.                                           E forse loro non han frammenti da riattaccare. E neppure gran motivi per restare in quel posto che sembra non bastare.
E forse neppur hanno i fantasmi piccolini che gli fanno compagnia di tanto in tanto.
Forse.
Ma magari è differente e non si capisce bene.
E allora penso che non ci sia una regola.
Non una che vale poi per tutti.

lo so

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Lo so che il respiro lungo di questa notte, ancora calda, è la somma dei respiri che si muovono nei letti, l’affannare rotto dei desideri, l’aria impercettibile che si fa strada tra le labbra.

Lo so che questo respiro, che per un attimo si sospende, contiene tutti i sogni in corso, quelli scordati al levarsi, quelli che scivoleranno via con l’acqua del mattino.

Lo so che questo respiro riempie le strade, che viene tagliato in minuscoli pezzi dalle ultime auto e ricomposto dal camminare incerto verso casa, dal vagare senza meta.

Lo so che il respiro sale dai ciottoli e dalle pietre, dove s’era posato filtrando da persiane e imposte chiuse. Lo so che riempie gli spazi tra le case sino a traboccar sui tetti, che così riassume le veglie assopite, che spegne le luci delle stanze prima d’arrampicarsi irresistibile verso il cielo.

Lo so che questo sospiro ci unisce e ci divide, che ci spartisce, come coltello affilato, tra chi possiede una storia da raccontarsi e chi ne è privo. Ma so che ciò che divide ha sempre una speranza di riunirsi in un sogno già sognato.

Lo so che ciò che è diverso non lo è mai davvero eppure è irripetibile finché s’assomiglia ad un desiderio inappagato.

Ed io penso, sveglio, che questa notte non ha ancora l’odore delle tempeste d’autunno, ma sospira i ricordi delle nostre estati. Che la vita ha bisogno di noi. Che la tua estate e al mia sono così simili che ogni aggiungere è necessario e superfluo. Che l’aria tiene assieme, ed io respiro la tua e tu la mia, un poco tanto finchè sentirò il tuo cuore. E che questo ci è necessario perché contiamo noi, solo noi.

In un letto un desiderio s’è sovrapposto all’altro, incessantemente, sino alla quiete. Poi, nel sonno, dall’angolo di una bocca è scivolata una goccia di saliva: sembrava rugiada che aspettasse il sole, mentre il corpo si lasciava andare al sogno.

era la festa del santo patrono

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Era la festa del santo patrono. Per tutti. I credenti, gli atei, gli innocenti, gli ignavi, i benpensanti, i delinquenti. Per i passanti meno, però si adeguavano. Dalla periferia verso il centro, era un crescendo di esteriorità, di frasi ribadite, di tappeti rossi per la processione, di persone che attendevano. Chi una grazia, chi di farsi vedere, chi di pregare in modo appropriato ed eccezionale. Vicino al portone della chiesa, aperto come mai durante l’anno, sostava la banda. Ottoni, legni e tamburi, colletti slacciati, cappelli per traverso, qualcuno addirittura senza, era il capannello dei bandisti che nell’attesa, parlavano d’altro. Di cose frammischiate, spesso oscene. Le ragazze dei flauti e dei clarinetti erano per loro conto, ogni tanto qualcuno dei giovani s’intrometteva e allora i discorsi deviavano in sfottò. Appena oltre il sagrato, l’aere sacrum dove i ragazzi la sera giocavano a pallone o amoreggiavano sugli scalini bevendo birra, c’erano bar e tavolini pieni di persone. C’erano gelati che gocciolavano troppo presto, scollature interessate, gambe accavallate, bibite e aperitivi che coloravano bicchieri di rosso, verde menta, giallo, arancio. E tra i tavolini, all’ombra di ombrelloni giganteschi, era tutto un chiacchierare senza comunicazione, un ascoltare e dire distratto, poco interessante, ma indispensabile ai vestiti da mostrare, al ruolo da mantenere, ai saluti da ricevere e da dare. Arrivarono per tempo i fabbricieri, con mantelli bianchi e cappelli di velluto cremisi. Poi le confraternite con gli stendardi ricamati. Infine le faglie dei portatori della statua. Gente di commercio, colli taurini di fabbri e macellai, sottili figure di sarti e tabaccai, venditori di spezie e coloniali, vinai, commercianti di tessuti, calzolai. Insomma taglie umane diversissime, dai sottili ai grossi. Alcuni, i portatori, rivestiti di mantelli blu oltremare fino alle caviglie, con calzini bianche che spuntavano dall’orlo per finire dentro a scarpe a punta con la fibbia dorata. Gli altri con mantelli di vario colore che definivano estrazioni e devozioni di cui pochi ricordavano il motivo e la nascita nel tempo.

Fuori dalla piazza, il traffico man mano si spegneva. Ai limiti del tragitto della processione i vigili in grande uniforme, deviavano auto, pullman e motociclette. Lasciavano passare, a piedi i ciclisti, rispondevano alle domande degli ignari, facevano finta di non sentire i moccoli e le bestemmie di chi si vedeva stravolti i piani, le consegne, gli impegni. Era festa, anche per chi non lo sapeva o voleva. E festa doveva essere, mica ci si poteva sottrarre alla festa del patrono. Era la festa della città, dei suoi appartenenti, di chi aveva fatto la fatica di proteggere quel posto e i suoi abitanti. Così, più distante, verso la periferia, le case inghiottivano un traffico nuovo. Auto e camion ingolfavano le strade che portavano alle circonvallazioni. Non quella vecchia, quella delle mura, ma i nuovi limiti che dividevano la città dalla campagna. Il dentro e il fuori. C’era un silenzio rumoroso, da primo pomeriggio estivo. Le case erano piene di persone. Bambini svegli, vecchi e operai che dormivano approfittando del dopo pranzo abbondante, donne che rassettavano. Non pochi facevano all’amore nel pomeriggio, con i balconi semichiusi, con i rumori che filtravano dall’esterno inondando le case di novità sonore. Impiegati, artigiani, operai, stanze per studenti fuori sede, il tutto in case pastello, con pochissimo verde e alberi spaesati. Una umanità che pure c’era, ed era maggioranza, ma non appariva. Era isolata nelle idee, nelle preferenze, nelle attese. Si trovavano per le scale, nei cortili. Si parlavano per omologhe necessità. Si salutavano, ma la cosa finiva col saluto. C’era un’ attesa differenziata di futuro tra loro e partecipavano in misura diversa alla vita della città, come vi fosse una stratificazione che, se anche era in movimento, aveva velocità e vischiosità diverse e una possibilità di scambio difficile tra strati. In una di quelle stanze uguali e differenti assieme, su un tavolo posto a fianco della finestra piena di luce, c’erano carte. Alcune sparse, altre allineate in pile, a sinistra quelle scritte e a destra quelle bianche. Alcuni fogli erano finiti sul pavimento e rilucevano in una lama di luce, con i caratteri che potevano essere qualsiasi cosa: una lingua antica, disegnini di una mente distratta, frasi sconclusionate oppure ragionamenti affilati e rari. Nella stanza non c’era nessuno. Oltre si sentiva il respiro di una, forse due persone, un parlare fatto di sospiri. L’aria era calda e densa degli odori del pranzo. Un sugo, della carne, un sentore di vino rosso vecchio. Ma ciò che si sarebbe potuto fare, se ci fosse stata una lama gigante e affilatissima, era sezionare quella casa in verticale e scoprire che tra ciò che poteva essere scritto su quelle carte sparse e ciò che accadeva non c’era differenza, ma anzi le carte erano più ricche di racconto, mentre le vite si svolgevano simili, con desideri e voglie sovrapponibili, con stanchezze analoghe, con soluzioni uguali. E allora non si sapeva più bene quale fosse il racconto del passato, addirittura del presente, se c’era così tanta potenza in quei piccoli segni che rilucevano da tracciare finali più ricchi e diversi. Bastava saperli leggere bene e si sarebbe capito il futuro. Mentre questi pensieri si formavano, da fuori si sentiva il rumore del traffico diminuire, e la musica della banda avvicinarsi. Non sarebbe passata sotto quelle finestre, lì eravamo oltre la città vecchia, ma il suono non ci badava e allegramente superava i confini tracciati dal potere degli uomini. Il patrono avrebbe fatto una svolta stretta vicino al fiume e per strade piene di palazzi si sarebbe orientato verso l’altra parte della città che conta, avrebbe ricevuto l’omaggio dai balconi aperti, sarebbero caduti petali di fiori e piccoli coriandoli di carta, anche delle striscioline su cui qualcuno avrebbe scritto innumerevoli volte la grazia da ricevere e l’avrebbe fatta volteggiare nell’aria. Poi sul calpestato, avrebbero agito gli spazzini, ma per un poco la città vecchia sarebbe apparsa colorata più del solito grigiore che la teneva stretta, dai palazzi sarebbe uscito qualcosa che di solito ci si guardava bene uscisse, ovvero una trasgressione all’ordine. Il vecchio ci teneva acché le cose avessero un loro posto, come gli uomini. Il nuovo invece, oltre il fiume e la circonvallazione, non aveva queste tradizioni, erano persone che la città aveva collocato a distanza, forse per questo c’era un’aria di incredulità che serpeggiava. Anche nei confronti delle reali possibilità di avere un santo in comune. Però il suono della banda si spandeva nell’aria e superava i confini del censo e dell’appartenenza e forse faceva piacere a chi era incredulo perché metteva allegria con quei suoni pieni e sempre un po’ stonati generati da prove discontinue, da altri mestieri fatti di giorno e da una passione serale e festiva che faceva tirar fuori musica e armonia da uno strumento. In fondo suonare annullava le distanze, bastava non sbagliare troppo e si aveva la coscienza di aver fatto qualcosa che faceva piacere a sé a agli altri. E se ci fosse stato un osservatore imparziale e attento si sarebbe accorto che il suono penetrava in quell’insieme di cose che accadevano nelle case. Avrebbe sentito il variare dei respiri nell’altra stanza e le cose già scritte, uguali eppure possibili nel loro travolgersi e stravolgersi, si sarebbero, forse, modificate. La vita continuava scorrendo, eppure sembrava procedesse a fiotti, ad accadimenti, solo che quello era un giorno di festa e per un giorno ciò che era scritto poteva coincidere con la vita.

 

marginalia

Sembra sempre che qualcosa manchi.

Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio.

La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa.

La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce.

Il tempo: troppo quando rimando.

Troppo poco, devo andare.

Meglio scrivere sul margine del tempo,

cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale

lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, contento delle sue conseguenze.

Dispettoso e allegro, pensoso.

Chissà dove andrà a parare?

Inseguirlo e meravigliarsi un poco.

Farò a tempo.

Arriverò in ritardo.

Ce la faccio.

Bello scrivere quando il tempo è poco,

e s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre.

La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede.

Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria.

La pioggia aspetterà.

Non aspetta. Cade.

Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo.

Aspetta ancora un poco. Per favore. 

o meglio così:

Sembra sempre che qualcosa manchi. Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio. La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa. La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce. Il tempo. Oh il tempo: troppo quando rimando.Troppo poco, devo andare. Meglio scrivere sul margine del tempo, cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale. Lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, è contento delle sue conseguenze. Lui. Dispettoso e allegro, pensoso. Chissà dove andrà a parare? Inseguirlo e meravigliarsi un poco. Farò a tempo. Arriverò in ritardo. Ce la faccio. Bello scrivere quando il tempo è poco, però s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre. La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede. Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria. La pioggia aspetterà. Non aspetta. Cade. Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo. Aspetta ancora un poco. Per favore. 

coraggio

C’è più coraggio in un riconoscimento di insufficienza e quindi nel ripiegare sulle posizioni più sicure, oppure nel tener testa, combattere oltre quello che si pensava e non recedere? Ognuno ha una sua risposta e vale sempre in quella vita che non è solo battaglia e tanto meno eroica. Penso alla vita quotidiana, alla difficoltà di fare il proprio lavoro oltre il minimo lecito, alla necessità di dire se si ama o meno una persona, al mettersi contro chi aggredisce portando idee trite e ritrite e magari approfitta del consenso intorno. Penso anche che il coraggio sia una scuola, ovvero che non valga il teorema di don Abbondio che chi non ha coraggio naturalmente, non se lo può dare. Se si viene educati al coraggio di dire ciò che si pensa, al tenere fede alle promesse, se si ha l’educazione a non compiacere ma a dire la verità, sopratutto nei sentimenti, non si è più felici, ma di sicuro più forti e coraggiosi.

Perché val più chi fugge, chi è un tartufo, chi accondiscende, chi si mimetizza, chi non dice la verità? Bisognerebbe rispondere a questa domanda perché il coraggioso alla fine sembra un visionario, un illuso, spesso un imbecille che non bada al suo tornaconto e allora se è così perché il coraggio non viene derubricato dalle azioni possibili e semplicemente si fugge. Si fugge tutti, da ogni difficoltà, da ogni impegno, da ogni fatica senza pensare che ci sarà qualcun altro che la farà al nostro posto. Perché dovrebbe essere normale un mondo in cui è normale che qualcuno si sacrifichi al nostro posto? Un bel mondo di ignavi, dove ciascuno pensa a sé e se c’è bisogno si sta zitti perché aiutare, fare ciò che non è richiesto è comunque una forma di coraggio. È questo che si vuole? Bisogna pensarci perché su questa strada siamo avviati da tempo e i coraggiosi vengono trattati da imbecilli.

il sostenibile peso del divagare

È un cono panciuto, soddisfatto anticipatore di una forma alla Norman Foster (30 St. Mary Axe, London), solo molto più piccolo e meno fallicamente evocativo. Ha più di 250 anni, certamente fatto a mano con notevole, perduta, precisione. Probabilmente passato con un tornio ad acqua per lisciarne la superficie dopo la fusione ad anima persa. È almeno del ‘700 e veneziano. È un peso da stadera, non piccolo come un suo fratello tondo e ottocentesco. A fatica sta nel cavo della mano, e pesa: la cera persa è stata sostituita da un’anima di piombo che lo rende inaspettatamente consistente. Segno, quest’ultimo, che era destinato a una stadera per pesi notevoli. Sulla superficie d’ottone brunito ci sono i segni dei verificatori del peso, il leone di San Marco e forse il marchio del balanzėr. La Repubblica non aveva pietà per i truffatori e i falsari e, al contrario di quanto accade ora, il commercio aveva bisogno di un potere che gli desse certezza non il contrario. Ci provavano a frodare, ma se presi, la pena era severa. Non ci sono tracce di verifiche ulteriori, austriache o sabaude, e forse da un uso pubblico è passato ad uno domestico. Onorato servizio prima di perdere funzione. Non per sua responsabilità immagino, forse cedette il piatto della stadera, più debole e suscettibile d’essere venduto al peso d’ottone, oppure l’asta incisa fu soppiantata dall’arrivo di Napoleone e dal suo sistema metrico. Sono per questa tesi, e per una sua graduale uscita di mercato. Pur essendoci tracce di once e libbre nel dialetto di casa, una bilancia doveva misurare chili ed etti dopo il passaggio dei franzosi. E mi i piace credere che abbia fatto parte dello sconquasso, che sia stata questa invasione che lo mise in disuso e che per fortuna e dimenticanza sia giunto sino a me. All’inizio, dopo averlo scoperto, l’ho pensato fermacarte. Peso e forma aiutavano, ma in questa casa di carte non vola più nulla e lui scompariva nello scrittoio sepolto tra cose meno nobili e troppo ciarliere. Stava per suo conto, corrucciato di non essere riconosciuto, insomma non era al suo posto, e non è stato contento finché dopo vario peregrinare non è arrivato sulla credenza, prima col fratello tondo e ottocentesco, poi da solo.
Vicino alla sfera ha una sua forte personalità e il colore si avvicina a quello del legno su cui poggia con propri lampi di lucentezza quando il sole lo colpisce. È presente senz’essere tronfio, eppure di cose ne ha viste. L’ho immaginato al mercato di Rialto che pesava verdura e frutta di sant’Erasmo, o pesce di mare di Chioggia, ancora vivo, oppure carne che veniva dalle mandrie portate dall’Ongaria dopo un viaggio di settimane. La sera appesa la stadera per il gancio, penzolava alla fine dell’asta in attesa del giorno seguente per riprendere un lavoro fatto di maestria nell’equilibrio, perché la truffa non era tanto nel peso ma nella velocità con cui questo sull’asta si muoveva per segnare un equilibrio inesistente e vantaggioso. Era un tutt’uno col braccio e la mente del commerciante che doveva dare la sensazione del giusto, rubando sul peso.
L’ho pensato a Rialto o in un campo veneziano per il suo essere poco sensibile al salso, per quell’anello a losanga sbozzato a lima e levigato dall’uso. Particolari che lo retrodatano e lo portano nella bottega di un balanzer come quelle che c’erano fino a pochi anni fa al limite del ghetto a Padova o sulla riva vicino alla Misericordia a Venezia. Sono testimoniate dalla difficoltà di fare fori netti, di lavorare metallo di fusione con attrezzi piccoli. Se non a Rialto lo penserei in piazza delle Erbe, sotto il Salone, a Padova, oppure in mezzo ai colli da dove viene la mia famiglia, che era pur sempre di commercianti, anche se poi sciamati e incuranti delle cose. Lo penso in un luogo in cui si mescolano nobili e plebei, costretti dal piacere del cibo e dalla necessità di vederlo, uniti nell’usare il giudizio per valutarlo, nel tenere a conto l’andamento del prezzo e quindi del tempo politico e delle stagioni. Il mio peso è stato testimone muto di un evolvere d’epoca che noi collochiamo in un tempo remoto, ma che nasce meno di una decina di generazioni fa.

Antonio era figlio di Giovan Battista che era figlio di Antonio che a sua volta era figlio di Giovan Battista e così via a risalire nei secoli.

E lui, il peso di stadera, rappresentava la fortuna o la difficoltà di vivere. Il suo lavorare, il suo cercare un equilibrio, il suo muoversi veloce certificava l’onesta o meno del suo padrone.

L’equilibrio, il peso, la misura, in sintesi la metafora del giudicare sé e gli altri; la vita come la si interpreta, insomma. Ma non esiste una morale, né una conclusione, le cose hanno il significato che attribuiamo a loro, racchiudono ciò che noi vogliamo vedere. E così io vedo Rialto, sento le voci che magnificano la merce, il dialetto, i litigi, gli sfottò, le parole perse verso sera quando c’è un bilancio della giornata, il peso dell’ultima pesata che non si può prevedere e il trarre giudizio sul giorno e una speranza su quello a venire. Ma dipende da ciò che io vedo e sento e immagino, un altro vedrebbe un conoide, lo prenderebbe in mano, chiederebbe cos’è, commenterebbe il peso e neppure vedrebbe quei punzoni sulla superficie. Al più direbbe: però… E lo poserebbe sulla credenza.

cominciamo dalla sfera il divagare

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Materiale composito poroso, bianco. Ottone brunito e piombo. Legno invecchiato dalla luce del tempo, castano scuro. Una sfera, un peso da stadera, una credenza. La sfera è cava, sembra fatta al tornio per le irregolarità delle rigature concentriche, probabilmente è fusa e poi rifinita a mano. È uno spandi profumo acquistato anni fa, il materiale e la forma sono molto efficaci all’uso: l’essenza non ha lasciato macchie sulla superficie e l’aria attorno ne è piacevolmente pervasa. L’odore agrumato si è ben fuso con quello del legno e sente di far parte di quella mistura indefinibile che è il profumo di casa. Credo sia per questo che la sfera sembra molto compresa nel suo lavoro: la sfericità è concentrazione. Rappresenta un’autosufficienza monodica, che trae la polifonia dal riflesso, è come per il gregoriano che si avvale degli echi e della fusione delle voci per acquistare una sostanza inattesa, colora il buio, s’alleggerisce nella luce, ma alla fine torna a sé, punto di partenza e di arrivo.

La mia sfera bianca non ha altra fungibilità che essere ciò che è e sembra cosciente e orgogliosa di servire solo a quello per cui è stata fatta. Chi ama la geometria, nella perfezione di questa sfera potrebbe trovare una sottile bellezza, con quelle rigature che non toccano la forma. Volendo investigarne qualche esoterico significato dovrei trovare dei numeri.

S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, d’ambo i lati calpestio rimbomba 4/3 pigreco erre tre.

Calcolarne il volume e poi cercare lettere rivelatrici che la mettano in relazione con me. La Kabbala fantasiosa delle coincidenze suggerirebbe l’espandere delle previsioni sullo status e sulla coscienza di sé. Una scelta inconsapevole di forma e utilizzo che porta verso il profondo, l’intimo. Cosa molto emblematica nel passato: non a caso la sfera orna i frontali dei palazzi storici della città e si ripete negli appoggi, nelle volute delle scale. Discreta e presente, col suo rappresentare rammenta il coincidere di coscienza e perfezione del proprietario: Non nobis Domine, ma sappiamo chi siamo. Dovevano scrivere così sul timpano delle porte, bastava la prima parte il resto si vedeva.

Nonostante la spocchia che gira oggi, anche nella forma delle cose, comunque la sfera è un po’ negletta, troppo severa e rigorosa per essere un simbolo attuale, sembra arcaica nella sua perfezione, e sopratutto porta al meditare per superare il mito dell’innocenza e trovare l’autosufficienza. Oggi nessuno persegue l’autosufficienza e la gara è tra l’essere sul transatlantico oppure finire sulla zattera della medusa, la dimensione è l’apparire più che l’essere sufficienti a sé. La sfera sfugge allo schiacciamento della bidimensionalità che evoca la facilità del pressapoco. Aborre l’imprecisione, accetta di essere messa da parte piuttosto che ridimensionata. Il suo cercare l’equilibrio e la profondità ricorda che si perde spessore nell’approssimazione. È più facile toccare, assaggiare piuttosto che sentire e gustare a fondo, ma lontana dalla ricerca dello spessore anche la libertà è compromessa e nell’homo aeconomicus, lo diceva, anche Marcuse, ci si appiattisce e si perde orizzonte proprio perché manca lo spessore e la varietà che conteniamo dentro, e in esse la libertà e il riconoscere l’altrui dimensione, possibilità e libertà. Ma chi si ricorda più di Marcuse e di tutta la Scuola di Francoforte? Che poi mica parlavano di sfere ma di rapporti umani e di spessore necessario alla loro crescita. Ma torniamo alla nostra sfera, oggi negletta al pari di altre forme geometriche: il cono (algida a parte), la piramide, ad esempio, tutte poco frequentate, anzi dimenticate a favore del più banale parallelepipedo. Il loro essere generose e incuranti dello spreco di spazio le ha ridotte a curiosità nella nostra consuetudine di vita. Provate a cercare attorno quanti coni e piramidi vedete e anche nell’abitare osservate quanto poche siano le forme che non sono ritte e piane. Pensiamo tanto allo spazio ma solo perché si compra non per la sua utilità o bellezza, pensate al piacere di avere un bow window, alla luce che attornia da più lati. La sfera sarebbe perfetta per questo e le cupole geodetiche ne sono una bella approssimazione, peccato che non abbiano preso piede come modalità del costruire, avrebbero cambiato pensiero e percezione del vivere.
E se ci si pensa davvero si capisce che la bellezza non ha molta relazione con lo spazio, ha bisogno di compiutezza per cui essa si può realizzare nell’infinitamente piccolo, oppure nel senza limite per grandezza. Tra una reggia e una casa ci può essere la stessa sensazione di bellezza se c’è unità della proporzione e dell’armonia, del genio del rappresentare icastico ed evocativo e insieme la semplicità della linea. La sfera si pone alla bellezza come esempio arduo, difficile e compiutamente conclusa in sé, si approssima, si usa, è esercizio di profondità ma non si potrà mai rinchiudere nel costo dello spazio.
E la mia piccola sfera di materiale composito poroso bianco cosa c’entra con tutto questo? Nulla se non per la sua capacità di generare pensiero, di far emergere le sue sorelle di cristallo immerse tra solidi trasparenti nelle vetrine, di far proseguire il racconto verso il conoide della stadera, ma questa è un’altra diversa storia che continuerà il divagare.