Si diceva alla fine di un ragionamento sui sentimenti, che le donne vogliono dolcezza eppoi ci si chiedeva cosa vogliono gli uomini dalle donne.
Io ho risposto la verità, ma non ne ero certo. Mi pareva la cosa più importante e semplice o forse era una risposta etica. In realtà, pensandoci ora, penso che sia uomini che donne, vogliano verità e cura, non solo l’una o l’altra. Ma non è una risposta di genere, forse diamo nomi uguali a intensità differenti. Chi ha mai definito appieno la scala del bisogno d’amore? Chi riesce a tracciare i colori che vanno dal nero al rosso acceso e a collocarsi nella sfumatura che gli appartiene e al tempo stesso definire quella che desidera? C’è uno iato che fa la fortuna dei venditori di tranquillanti, di psicologi e preti ed è costituito dal tentativo di trovare una ragione per lo squilibrio, nonché del tentativo di colmarlo.
La mia insegnante di chimica analitica mi ripeteva che si trova quello che si cerca, poco o tanto, anche niente ma funzionava così.
Aveva ragione, anche se quasi mai nella vita si procede sapendo davvero ciò che si cerca e sorprendendoci di ciò che si trova. Invece, al contrario dell’analisi chimica, non di rado ci si accontenta, pensando che siamo noi ad essere poco in sintonia con i nostri desideri.
Ma qui c’è la notizia che tutti conosciamo: chi si accontenta non gode, s’accontenta e basta.
Quindi forse la prima asserzione non è distante da ciò che si vorrebbe: verità e cura sono un buon misuratore di ciò che si cerca davvero.
Le donne sono diverse dagli uomini, spesso parlano di loro stesse riconoscendo peculiarità che agli uomini sfuggono. Usano il genere per riconoscersi vicine oltre l’apparenza. Manifestano solidarietà impensabili e piangono quando sono ferite. In non pochi casi riescono a sciogliere grumi di solitudine in nuova vicinanza, se scelgono di essere sole è dopo aver attraversato un deserto, un mare, una foresta. Le donne usano una parola che non descrive nulla oltre la biologia: il genere e con essa elevano un vetro oltre al quale gli uomini guardano, vedono, cercano di capire e a volte capiscono: la loro diversità e differenza. E come accade davanti a una vetrina che espone i desideri e non si hanno i mezzi per renderli un po’ propri, resta, agli uomini, una sconfinata ammirazione e tristezza. Solo quando riescono a mettere assieme una complementarietà, che qualcuno chiama amore, la meraviglia degli uomini e la loro insufficienza nel sentire si scioglie in un abbraccio. Non importa quando esso è fisico e quando resta nel pensiero, è un abbraccio che continua e tiene assieme. E lì, finalmente, il genere prende significato e scompare.
Un nodo. Come quelli che mia nonna mi insegnava a sciogliere.
(In realtà lei mi insegnava la pazienza e il nodo lo chiamava gropo. Che era cosa meno raffinata e suscettibile di analisi, ma la sua ruvidezza lo rendeva scioglibile. Sciogliere è riportare le cose in un ordine accettabile.)
Solo che questo nodo è dentro e riassume altro.
Cosa include la topologia di un nodo oltre all’evidenza ?
La complessità.
Cioè tutto quello che non si riesce a maneggiare: il futuro, i ricordi, le cose non fatte e quelle, purtroppo, fatte, i no non detti a tempo, il muro dei sì, ciò che si è tenuto a forza e ciò che si è tagliato. Beh, tagliato è una parolona visto che dentro al nodo c’è anche quel legame.
Un nodo tiene assieme e impedisce di andare dove si vorrebbe. Come i cani a catena. E questo nodo non si scioglie. Non con la sufficiente velocità, almeno. E non va né su né giù. È lì a ricordare che solo con le dita che portano al cervello si può agire per non aggiungere complessità.
Il contrario della complessità non è semplicità, ma scelta, errore, pazienza.
Ecco, tutto qui.
Semplice essere complessi, molto meno trasformare i nodi in gropi per scioglierli davvero.
Hanno scoperto un nuovo colore. Un blu così intenso che mai si è visto prima. Per caso, come accade spesso per i colori sintetici, mescolando indio, manganese e chissà cosa. Cercavano una fibra conduttrice e dall’imperizia di uno studente è venuta fuori questa nuova frequenza d’onda. Naturalmente l’hanno brevettato, sia il colore che il procedimento, e visto che gli americani sanno cos’è il marketing, adesso c’è un concorso per il nome. Solo giovani. Attempati e perditempo, astenersi. Magari non hanno pensato che il blu appartiene proprio alle generazioni più agé e che i giovani frequentano con molta libertà altri colori. Quello che mi ha fatto pensare è che il blu della cappella degli Scrovegni era fatto di lapislazzuli mescolato con chissà quali resine organiche ed è venuto il blu di Giotto. Oppure osservando i maggiori abitanti del pianeta, gli insetti, si scoprono variazioni infinite nel pantone della natura. Che se ne frega dei brevetti e continua imperterrita a produrre variazioni d’onda utili. A che? Alla salute, all’accoppiamento, all’allegria e alla vanità, al mimetismo e chissà a quanti altri usi pratici. Mi piace l’idea del caso che inventa e ancor di più quella del caso che si diverte. Tanto che alla fine mi sembra che di caso abbia ben poco.
Se si finisce per giustificarsi, se le conversazioni sono un canovaccio che si potrebbe riempire prima di iniziare, compresi tempi e silenzi.
Se questo dirsi attiene molto al passato e quindi agli errori, ché tanto i meriti saranno sempre scontati, se tutto ciò è ricorrente, qualche errore presente pure ci sarà.
Nessuna buona indole giustifica la ricerca dei colpi scontati, neppure la speranza di cambiare chi ci colpisce oppure l’evolvere nostro. È solo un innaturale, incongruo, assurdo senso di colpa privo d’oggetto a cui ci si assoggetta. Ovvero il senso di colpa dell’esistere e dell’essere come si è, e se di chi ci ha ferito poi si riesce a dire : chissà perché di te io ricordo solo cose buone, in questa frase chissà quante illusioni o rabbie sono state sollevate.
Lo penso ora, che di più capisco e meno faccio per adeguarmi. E non muto e d’altro mi curo.
Si può vivere per approssimazione a se stessi, cercando di assomigliarsi quanto più si può, ma non essendo altri. Ogni notte ne verrebbe una colpa da annegare nel sonno, forse per questo la bussola è semplicemente essere, cancellando ciò che può far male.
Nella via larga che portava al mercato, in cima, sulla destra c’era la moschea. Poco prima, lungo la salita, una grande vasca con acqua non sempre cristallina, e ai lati, le persone salivano, oppure stavano ferme. Da sole o a crocchi. Alcune sedute sul bordo sciacquavano accuratamente i piedi, dopo aver allineato i sandali accanto a sé. Vedevo la cura che ponevano sui loro piedi. Come li guardavano con amore e attenzione diversa da come io li vedevo. A me sembravano simili a terra arsa, percorsi da vene scure sotto il colore caffelatte dei dorsi e loro, forse, neppure coglievano quella differenza di colore della pianta che a noi, bianchi, a volte intenerisce e sempre stupisce, e sta tra il rosato e il marrone chiaro. Un colore che sembra appartenere ad un’altra pelle rimasta bambina, quasi fosse d’altro, mentre per loro, invece, è il luogo del contatto con il mondo, la parte sensibile in cui sentono sacralità a noi sconosciute. Comunque fosse, guardavano i piedi che spuntavano da vesti bianche e sembrava volessero parlar loro, farsi raccontare della terra calpestata con delicatezza, delle asperità superate, dei rovi e dei sassi che s’erano infilati senza ritegno nei sandali, ferendoli, cosìcchè ora sciacquandoli con cura dolce, ne riparavano l’offesa. I più anziani si soffermavano in questa operazione. Assorti, massaggiavano e aspergevano persi nei loro pensieri e di certo non vedevano il mio passo celere, poco elegante e sguaiato verso il tempo che loro sì sapevano scorrere come i corti rosari da preghiera di legno o d’avorio che le dita costantemente pulivano e rendevano lisci o luccicanti. Non mi vedevano davvero perché ero un altro mondo che, per fortuna, non aveva più nulla a che fare con il loro e così, se al mio saluto e sorriso, rispondevano, oltre alle bocche appena accennate, notavo che le fronti non s’increspavano perché non c’era nulla da capire o da pensare.
Oltre la moschea s’apriva una vasta spianata, in parte lastricata, ma percorsa da larghe chiazze di terra bruna rappresa. Probabilmente sotto c’erano pietre o asfalto, scavi di antiche strade che avevano ceduto e formato piccole depressioni in cui si era raccolta quella polvere scura che picchiava sui vetri nei giorni di vento e s’appiccicava ai vestiti, riempiva il viso uscendo all’aperto e s’ annidava in ogni cucitura o angolo da cui non se ne andava neppure strofinando o lavando a lungo e lasciando la sua piccola traccia di possesso perché lei era il luogo in cui si era. Capivo allora che i loro teli drappeggiati sul corpo, sempre così controllati ed eleganti, erano funzionali alla polvere che veniva dalla pianura sottostante e che, anche quelli dei loro che vestivano all’occidentale per un’inutile arroganza di stato, erano fuori posto: era l’uso e la conformità ad esso a fornire pensieri consoni al luogo e al vivervi. E il volersi imporre non aggiungeva nulla ma casomai toglieva coprendo il potere esercitato di un leggero ridicolo. Sulla piazza, quella polvere, si era consolidata diventando dura come il sasso da cui veniva e altrettanto impermeabile. Lo vedevo nei rari giorni in cui la pioggia arrivava improvvisa, come per caso, e lavava le strade, le case, gli uomini che non aprivano l’ombrello ma al pari delle cose, si lasciavano bagnare senza affrettare il passo, come a ricevere una benedizione che veniva elargita di rado e veniva direttamente da quel cielo, che le diverse religioni a più ore del giorno interpellavano a gran voce riempiendo l’aria di suono ma che però lasciava le cose più o meno come stavano, segno che era giusto così e che quello doveva essere. L’ombrello casomai lo aprivano in certe tarde mattine, in cui il sole sfolgorava implacabile e proprio per il loro incedere misurato e la distanza da compiere, il suo calore diretto sarebbe stata un’ulteriore fatica. Si riparavano il necessario, come nei bar quando sedevano lungo il muro e si spostavano appena il sole diventava intollerabile, nell’ombra temporanea con i loro discorsi e consumazioni, così camminando, aprivano l’ombrello per portare refrigerio al corpo e procedevano verso le loro necessarie mete con un poco di rispetto per esso. Guardavo quegli ombrelli pesanti, con la tela nera di cotone (ché quelli bianchi erano riservati ai preti), con le stecche grosse e piene, i manici di legno curvato a vapore, e mi sembravano una reliquia di un passato di cui avevo qualche ricordo, ma che era stato abbandonato in fretta a favore delle fibre leggere nate con la chimica, così che quegli ombrelli pesanti erano rapidamente spariti, come gli ombrellai ambulanti che da bambino sentivo passare mentre gridavano con una cantilena il loro mestiere, sotto casa. Lì c’erano ancora quei vecchi ombrelli e anche chi li riparava, e nel Paese pieno di sole, di altopiani e di deserti, venivano considerati un segno di distinzione e censo, riservato agli uomini. Le donne, nel sole eccessivo, alzavano sul capo un lembo del vestito, ma più spesso era lo scialle di garza o di cotone rado con la balza ricamata in colori accesi che si avvolgeva attorno al capo e al collo, disposti con un gesto che mi pareva di una eleganza così squisita e sensuale, da far parte non del mostrarsi ma dell’innato essere.
In quella piazza, oltre a due vecchissime corriere, c’erano carretti con le stanghe rivolte al cielo e asini attaccati alle semplici staccionate di pali che delimitavano lo spazio davanti alle botteghe. Su un lato della grande piazza, rialzato e delimitato da strade strette, stava il mercato centrale. Era coperto da un grande tetto a falde piramidali che si fermavano a meno di tre metri dal suolo e pavimentato di cotto. Sotto ad esso si apriva un dedalo di sentieri tra banchi fissi e mobili, con la luce che diminuiva man mano ci si inoltrava, per cui al centro c’era la penombra che governava i colori delle merci esposte. Si vendeva di tutto, dalla verdura alla carne e al pesce essiccato o affumicato, dai mobili usati fino agli argenti e gli ori rossi per gli orecchi e le dita delle donne. C’erano vecchie radio, macchine da scrivere monumentali, biciclette, libri, immagini sacre e profane, quadri con soggetti del villaggio e delle processioni rituali, vecchi o dipinti da poco e tutti più o meno uguali.
E c’erano i banchi delle spezie. Queste erano in barattoli di latta e di vetro oppure disposte in piramidi colorate di polveri sui tavoli che eccitavano gli occhi prima di pensare ai gusti forti che avrebbero messo nelle bocche e nell’odorato. Ero affascinato dagli aromi. Mi mettevano tra le dita bacche da schiacciare e annusare, polveri che passavano dai polpastrelli al naso e poi alla punta della lingua. E tutto questo in un’ordalia di afrori che si sommavano fino a non capire più le sottili differenze, che pure c’erano, visto che me le raccontavano nella loro lingua ricca di vocali e di consonanti aspirate e che era essa stessa un degustare le parole, inghiottirle o girarle in bocca per sentirne il profumato suono. Non capivo e cercavo di interpretare dalle inflessioni, dall’accentuarsi, come se la parola dovesse descrivere con il suono, prima che col significato, il dolce e l’amaro, il piccante, il sapido, l’acuto nelle sue gradazioni fino alla morbidezza dei gusti avvolgenti che sembravano riempire la bocca ed erano solo polvere. E accanto alle spezie c’erano gli incensi, le radici disseccate, l’ambra delle resine, qualche acqua dal riflesso colorato, di cui mi facevano sentire il profumo e che immaginavo prodotta macerando fiori colti in particolari momenti della fioritura o forse di notte quando più acuto è il profumo per ringraziare il fresco che arriva con l’oscurità. Essendo un forestiero, ero una facile preda e di quei banchi ho ancora qualche acquisto dentro vasi di vetro, che raramente apro per annusare il ricordo. Mi davano le spezie o le bacche o le radici avvolte in carta di giornale. Non so per quale misteriosa ragione, quella carta piena di segni in tigrino o in arabo, che pur sembrava di poca qualità, sembrava non assorbisse i colori, ma al più conservava un lievissimo alone e il ricordo di un profumo, tanto che quando trasferivo i contenuti in sacchetti e barattoli, mi veniva da lisciare la pagina e, guardando i caratteri di quei fogli, così inusuali e privi di fotografie, poi annusavo il dorso della mano perdendomi in fantasie (e capivo perché era stata inventata la carta aromatica di Eritrea). La contrattazione dei prezzi esposti durava il giusto: prima lo sconto su ciascun acquisto e poi lo sconto sul totale. Erano cifre ridicole per un occidentale e il piacere era nella contrattazione e nel trovare il punto di reciproca soddisfazione o il minimo dell’insoddisfazione comune che poi si sarebbe chiuso con un gesto di richiamo alla furbizia dell’altro, fatto con la mano. Gesto che muoveva il sorriso di entrambi ed era ben compreso e restituito.
Queste sortite lasciavano una gran soddisfazione. Come fossi entrato davvero nella comunicazione che dovrebbe accompagnare il viaggiatore. E la provavo più nei mercati che visitando palazzi o chiese. Neppure nei negozi che attorniavano la piazza e che erano spesso botteghe d’artigiani, avvertivo la stessa sensazione del mercato, che mi accompagnava a lungo con un senso di appagamento. E capivo che era scollegato dalle meraviglie inutili che avevo nella borsa di tela, ma era l’idea di essere entrato per un attimo, nell’anima impenetrabile del Paese. Quello che pestava radici, macerava fiori, raccoglieva resine da piante che affondavano le radici nel deserto, come quei piedi che avevo guardato salendo e che portavano inscritte le geografie misteriose dell’uomo che viene segnato dalla terra. Una sorta di relazione mistica con tanti aspetti che interagivano e di cui portavo con me una traccia fatta di colore, di profumo, di rapporto. Un patto tra terra e uomini che riguardava loro e di cui, per una minima misura, ero stato ammesso a far parte. E di ciò rendevo grazie. Questa è la soddisfazione: rendere grazie.
Il movimento della ruota del samsara, del procedere del tempo, che immagino cigolante e disassata come quella di un vecchio carro che continua ad avanzare con l’inesorabile fatica del dovere, è immagine dello scorrere.
Da noi c’è il fiume del tempo in cui si perde lo sguardo quando la foglia o il tronco non sono più il punto a cui ancorarsi per impedire d’essere noi stessi scorrere.
Un ruotare cigolante è meglio del flusso dove la scelta è l’essere parte oppure l’osservare?
Si capisce che quell’osservare è lo stesso che Nietzsche guardava nell’abisso: se si guarderà troppo il flusso esso volgerà gli occhi verso di noi e ci guarderà, perdendoci. Quindi sembra che la scelta migliore sia essere nel flusso. Non so se esso coincida con la dittatura del presente, ovvero questa continua ricerca del provare e della coniugazione del verbo essere, oppure se sia un affidarsi, un lasciare che le cose accadano con noi. Il carpe diem, non era privo di passato e aveva un futuro, insegnava a godere di ciò che si conosceva e nel suo farsi con una direzione. Od almeno così l’ho inteso, perché negli apparenti ozi poetici, gli amori si impegnavano, le intelligenze inerpicavano nuove vette, e le armi del potere correvano. Insomma il carpe diem era nel flusso che ricordava la sorgente e andava al mare. Affidarsi per godere del giorno, oppure osservare affascinati lo scorrere, questo il tempo che scorre lineare e non si ripete.
Altrove il tempo era ed è altro.
Per la ruota del tempo e il mondo, nei suoi fatti apparentemente asincroni, diradare le nubi, capire, implica l’azione. È una condizione strana che accetta e al tempo stesso agisce perché vedere la sofferenza del mondo comporta uscire da quella rappresentazione pratica della paura che è l’indifferenza.
Per entrambe le cognizioni del tempo, nessuno ci chiederà conto con sufficiente forza prima di noi stessi, di ciò che abbiamo fatto per gli altri in noi.
Sankhara dukkha, è la sofferenza che si esprime in ciò che vive, una condizione leopardiana letta nell’oriente che non è mai privo di sofferenza. Noi più banalmente la possiamo confondere con la malinconia della consapevolezza. Ciò che vive esige cura.
La ruota gira e cigolando chiede attenzione, non all’utile ma al giusto per sé e gli altri.
Noi del tempo non sappiamo nulla. Abbiamo desideri, pulsioni mascherate in voglie, e una paura incoercibile che ci riguarda. La ruota vorrebbe ci lasciassimo andare, che assecondassimo il daimon che ci parla, troppo spesso inascoltato. Non bisogna abbandonarsi alla sofferenza ma trovare la traccia che da dentro porta verso un vedere gioioso.
Qui sembra, ma non è così, che le rappresentazioni del tempo trovino una coincidenza, ovvero lo scegliere chi essere.
E il tempo che ci chiede l’abbandono contiene il suo contrario ovvero l’azione che sprigiona il daimon del nostro destino. Abbandonarsi a sé coincide con la consapevolezza che scandiamo il nostro tempo, mai poco o troppo, è nostro e riempibile. Come lo si colma è tema di ciascuno ma a nessuno è risparmiata la malinconia e a nessuno manca il suo antidoto dell’affidarsi a sé, agendo.
Molti sono stati aperti una sola volta. Hanno generato curiosità, aspettative. Hanno parlato di un presente che mutava e non si era ancora visto tale, hanno tratto energia consequenziale da un passato, si sono avventurati in un futuro. A volte titubanti, spesso arditi, quasi mai così sicuri da cogliere l’interezza e per questo aperti a più soluzioni. E del resto come si potrebbe? Vedere ciò che accade, seguirne una piccola traccia nel dipanare delle alternative, farsi prendere da un lampeggiare di novità, è già un’avventura che posticipa il tempo, diventa passione del guardare, del capire, allora se a tutto questo dovessimo unire l’intera essenza delle probabilità verificate ci resterebbe solo il contemplare. Il sedere silente davanti a qualcosa di così grande che si mostra e non si esaurisce, come fanno i mistici, gli illuminati, ma se non siamo tali allora ci resta l’intuizione verso un infinito tascabile, a portata presunta d’intelletto. Continua a leggere →
Il palco era collocato in una posizione inedita, tra l’università e il municipio. Guardava entrambi come se la libertà riguardasse il sapere e l’amministrare. L’università medaglia d’oro della resistenza da cui era partito il richiamo alle coscienze di chi aveva asservito anche il sapere alla dittatura. Il municipio avrebbe aspettato il 28 aprile per cambiare idea, non molti cittadini che ritrovarono nella parola libertà il modo di fare i conti con se stessi e con le proprie scelte. Questo pensavo mentre i discorsi proseguivano e il cerimoniale, così rigido e anacronistico, scandiva il susseguirsi delle corone da porre davanti alle lapidi dei caduti; la retorica evaporava significati che invece dovrebbero essere parte delle vite.
E così guardavo la traduttrice per la lingua dei segni, i suoi gesti che erano parole sintetiche e così esplicite da riassumere, non il ieri raccontato, ma l’oggi. La costrizione, il suo rifiuto, il disastro dei corpi e degli spiriti, l’ascesa della libertà, il dentro e il fuori, rappresentati e chiari nella nettezza delle mani che raccoglievano il senso e lo redistribuivano. Ero affascinato dal suo muoversi controllato ed essenziale, che non era un riassunto, ma il senso per quanti erano sordi. Le sordità e l’indifferenza senza gesti che le richiamino alla coscienza sono nei fatti, sinonimi. Adesso l’oratore parlava delle ultime, ancora più inutili stragi, delle torture efferate che si erano svolte in un palazzo poco distante, e le mani riportavano a sé quel dolore che le parole dovevano esprimere. Non erano cose lontane, in altri luoghi stava accadendo lo stesso. Resistenza e libertà, venivano prima l’una e poi l’altra e non erano gratuite.
Bisognerebbe avere coscienza che gli uomini sono unici quando viene praticata l’eguaglianza, l’asservire toglie ad essi la loro unicità ancor prima della libertà.
Le parole e i gesti della traduttrice aiutavano a riflettere, a considerare che fruivamo di un privilegio che non era costato nulla ai figli e ai nipoti ma molto ai padri.
La religione della libertà di Croce mi è tornata a mente quando è stato evocato il nome di Antonio Gramsci, il cervello a cui doveva essere impedito di pensare, secondo lo stesso Mussolini.Oggi è l’anniversario della sua morte, ma quel cervello non smise mai di pensare, restò libero preparando la libertà di altri.
Così la cerimonia ufficiale finiva tra battimani e fanfare, si formavano i capannelli di persone che si conoscevano da sempre. Molti sorridevano perché si era sentita una giornata differente. Guardavo la traduttrice che ora parlava con le autorità, c’erano molti militari sul palco e pensavo che le sue mani, ora quasi ferme, avrei voluto spiegassero di nuovo quel gesto che aveva fatto alla fine. Sì, quando era stata chiesta, per la pace oggi minacciata, un’ azione agli uomini liberi, lei con le mani, aveva mimato la colomba che vola verso il cielo e mi era sembrato bellissimo.
La sublime sventatezza delle tue parole mi spinge a scattare foto di piccoli bianchi fiori,
di mischiarli col verde e col giallo del campo,
e perdendo lo sguardo nell’azzurro,
tra gonfie nubi nel cuore tutto si fonde.
Quel cuore che si vorrebbe pervicacemente rosso e forte, ma anche tenero e dolce.
Quel cuore che trova un cremisi e lo riconosce
e aspira, si rende ape e poi uccello, ma non smette di battere con te che togli e aggiungi senza posa.
A me che sono implume a primavera, orgoglioso d’ogni estate
e ogni inverno mi metto in disparte,
In attesa di vita, come l’eterno.