polvere e profumi d’Eritrea, ovvero il limite del viaggiatore

eritrea 2007 079

Nella via larga che portava al mercato, in cima, sulla destra c’era la moschea. Poco prima, lungo la salita, una grande vasca con acqua non sempre cristallina, e ai lati, le persone salivano, oppure stavano ferme. Da sole o a crocchi. Alcune sedute sul bordo sciacquavano accuratamente i piedi, dopo aver allineato i sandali accanto a sé. Vedevo la cura che ponevano sui loro piedi. Come li guardavano con amore e attenzione diversa da come io li vedevo. A me sembravano simili a terra arsa, percorsi da vene scure sotto il colore caffelatte dei dorsi e loro, forse, neppure coglievano quella differenza di colore della pianta che a noi, bianchi, a volte intenerisce e sempre stupisce, e sta tra il rosato e il marrone chiaro. Un colore che sembra appartenere ad un’altra pelle rimasta bambina, quasi fosse d’altro, mentre per loro, invece, è il luogo del contatto con il mondo, la parte sensibile in cui sentono sacralità a noi sconosciute. Comunque fosse, guardavano i piedi che spuntavano da vesti bianche e sembrava volessero parlar loro, farsi raccontare della terra calpestata con delicatezza, delle asperità superate, dei rovi e dei sassi che s’erano infilati senza ritegno nei sandali, ferendoli, cosìcchè ora sciacquandoli con cura dolce, ne riparavano l’offesa. I più anziani si soffermavano in questa operazione. Assorti, massaggiavano e aspergevano persi nei loro pensieri e di certo non vedevano il mio passo celere, poco elegante e sguaiato verso il tempo che loro sì sapevano scorrere come i corti rosari da preghiera di legno o d’avorio che le dita costantemente pulivano e rendevano lisci o luccicanti. Non mi vedevano davvero perché ero un altro mondo che, per fortuna, non aveva più nulla a che fare con il loro e così, se al mio saluto e sorriso, rispondevano, oltre alle bocche appena accennate, notavo che le fronti non s’increspavano perché non c’era nulla da capire o da pensare.

Oltre la moschea s’apriva una vasta spianata, in parte lastricata, ma percorsa da larghe chiazze di terra bruna rappresa. Probabilmente sotto c’erano pietre o asfalto, scavi di antiche strade che avevano ceduto e formato piccole depressioni in cui si era raccolta quella polvere scura che picchiava sui vetri nei giorni di vento e s’appiccicava ai vestiti, riempiva il viso uscendo all’aperto e s’ annidava in ogni cucitura o angolo da cui non se ne andava neppure strofinando o lavando a lungo e lasciando la sua piccola traccia di possesso perché lei era il luogo in cui si era. Capivo allora che i loro teli drappeggiati sul corpo, sempre così controllati ed eleganti, erano funzionali alla polvere che veniva dalla pianura sottostante e che, anche quelli dei loro che vestivano all’occidentale per un’inutile arroganza di stato, erano fuori posto: era l’uso e la conformità ad esso a fornire pensieri consoni al luogo e al vivervi. E il volersi imporre non aggiungeva nulla ma casomai toglieva coprendo il potere esercitato di un leggero ridicolo. Sulla piazza, quella polvere, si era consolidata diventando dura come il sasso da cui veniva e altrettanto impermeabile. Lo vedevo nei rari giorni in cui la pioggia arrivava  improvvisa, come per caso, e lavava le strade, le case, gli uomini che non aprivano l’ombrello ma al pari delle cose, si lasciavano bagnare senza affrettare il passo, come a ricevere una benedizione che veniva elargita di rado e veniva direttamente da quel cielo, che le diverse religioni a più ore del giorno interpellavano a gran voce riempiendo l’aria di suono ma che però lasciava le cose più o meno come stavano, segno che era giusto così e che quello doveva essere. L’ombrello casomai lo aprivano in certe tarde mattine, in cui il sole sfolgorava implacabile e proprio per il loro incedere misurato e la distanza da compiere, il suo calore diretto sarebbe stata un’ulteriore fatica. Si riparavano il necessario, come nei bar quando sedevano lungo il muro e si spostavano appena il sole diventava intollerabile, nell’ombra temporanea con i loro discorsi e consumazioni, così camminando, aprivano l’ombrello per portare refrigerio al corpo e procedevano verso le loro necessarie mete con un poco di rispetto per esso. Guardavo quegli ombrelli pesanti, con la tela nera di cotone (ché quelli bianchi erano riservati ai preti), con le stecche grosse e piene, i manici di legno curvato a vapore, e mi sembravano una reliquia di un passato di cui avevo qualche ricordo, ma che era stato abbandonato in fretta a favore delle fibre leggere nate con la chimica, così che quegli ombrelli pesanti erano rapidamente spariti, come gli ombrellai ambulanti che da bambino sentivo passare mentre gridavano con una cantilena  il loro mestiere, sotto casa. Lì c’erano ancora quei vecchi ombrelli e anche chi li riparava, e nel Paese pieno di sole, di altopiani e di deserti, venivano considerati un segno di distinzione e censo, riservato agli uomini. Le donne, nel sole eccessivo, alzavano sul capo un lembo del vestito, ma più spesso era lo scialle di garza o di cotone rado con la balza ricamata in colori accesi che si avvolgeva attorno al capo e al collo, disposti con un gesto che mi pareva di una eleganza così squisita e sensuale, da far parte non del mostrarsi ma dell’innato essere.

In quella piazza, oltre a due vecchissime corriere, c’erano carretti con le stanghe rivolte al cielo e asini attaccati alle semplici staccionate di pali che delimitavano lo spazio davanti alle botteghe. Su un lato della grande piazza, rialzato e delimitato da strade strette, stava il mercato centrale. Era coperto da un grande tetto a falde piramidali che si fermavano a meno di tre metri dal suolo e pavimentato di cotto. Sotto ad esso si apriva un dedalo di sentieri tra banchi fissi e mobili, con la luce che diminuiva man mano ci si inoltrava, per cui al centro c’era la penombra che governava i colori delle merci esposte. Si vendeva di tutto, dalla verdura alla carne e al pesce essiccato o affumicato, dai mobili usati fino agli argenti e gli ori rossi per gli orecchi e le dita delle donne. C’erano vecchie radio, macchine da scrivere monumentali, biciclette, libri, immagini sacre e profane, quadri con soggetti del villaggio e delle processioni rituali, vecchi o dipinti da poco e tutti più o meno uguali.

E c’erano i banchi delle spezie. Queste erano in barattoli di latta e di vetro oppure disposte in piramidi colorate di polveri sui tavoli che eccitavano gli occhi prima di pensare ai gusti forti che avrebbero messo nelle bocche e nell’odorato. Ero affascinato dagli aromi. Mi mettevano tra le dita bacche da schiacciare e annusare, polveri che passavano dai polpastrelli al naso e poi alla punta della lingua. E tutto questo in un’ordalia di afrori che si sommavano fino a non capire più le sottili differenze, che pure c’erano, visto che me le raccontavano nella loro lingua ricca di vocali e di consonanti aspirate e che era essa stessa un degustare le parole, inghiottirle o girarle in bocca per sentirne il profumato suono. Non capivo  e cercavo di interpretare dalle inflessioni, dall’accentuarsi, come se la parola dovesse descrivere con il suono, prima che col significato, il dolce e l’amaro, il piccante, il sapido, l’acuto nelle sue gradazioni fino alla morbidezza dei gusti avvolgenti che sembravano riempire la bocca ed erano solo polvere. E accanto alle spezie c’erano gli incensi, le radici disseccate, l’ambra delle resine, qualche acqua dal riflesso colorato, di cui mi facevano sentire il profumo e che immaginavo prodotta macerando fiori colti in particolari momenti della fioritura o forse di notte quando più acuto è il profumo per ringraziare il fresco che arriva con l’oscurità. Essendo un forestiero, ero una facile preda  e di quei banchi ho ancora qualche acquisto dentro vasi di vetro, che raramente apro per annusare il ricordo. Mi davano le spezie o le bacche o le radici avvolte in carta di giornale. Non so per quale misteriosa ragione, quella carta piena di segni in tigrino o in arabo, che pur sembrava di poca qualità, sembrava non assorbisse i colori, ma al più conservava un lievissimo alone e il ricordo di un profumo, tanto che quando trasferivo i contenuti in sacchetti e barattoli, mi veniva da lisciare la pagina e, guardando i caratteri di quei fogli, così inusuali e privi di fotografie, poi annusavo il dorso della mano perdendomi in fantasie (e capivo perché era stata inventata la carta aromatica di Eritrea). La contrattazione dei prezzi esposti durava il giusto: prima lo sconto su ciascun acquisto e poi lo sconto sul totale. Erano cifre ridicole per un occidentale e il piacere era nella contrattazione e nel trovare il punto di reciproca soddisfazione o il minimo dell’insoddisfazione comune che poi si sarebbe chiuso con un gesto di richiamo alla furbizia dell’altro, fatto con la mano. Gesto che muoveva il sorriso di entrambi ed era ben compreso e restituito.

Queste sortite lasciavano una gran soddisfazione. Come fossi entrato davvero nella comunicazione che dovrebbe accompagnare il viaggiatore. E la provavo più nei mercati che visitando palazzi o chiese. Neppure nei negozi che attorniavano la piazza e che erano spesso botteghe d’artigiani, avvertivo la stessa sensazione del mercato,  che mi accompagnava a lungo con un senso di appagamento. E capivo che era scollegato dalle meraviglie inutili che avevo nella borsa di tela, ma era l’idea di essere entrato per un attimo, nell’anima impenetrabile del Paese. Quello che pestava radici, macerava fiori, raccoglieva resine da piante che affondavano le radici nel deserto, come quei piedi che avevo guardato salendo e che portavano inscritte le geografie misteriose dell’uomo che viene segnato dalla terra. Una sorta di relazione mistica con tanti aspetti che interagivano e di cui portavo con me una traccia fatta di colore, di profumo, di rapporto. Un patto tra terra e uomini che riguardava loro e di cui, per una minima misura, ero stato ammesso a far parte. E di ciò rendevo grazie. Questa è la soddisfazione: rendere grazie.

2 pensieri su “polvere e profumi d’Eritrea, ovvero il limite del viaggiatore

  1. Bello e ricco diario di viaggio
    Entrare in sintonia anche per un attimo con le persone del luogo credo sia il modo migliore per conoscere l’altro è la sua terra
    Grazie

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