D’autunno e in primavera il rapporto tra apparato digerente e cuore si fa più stretto e il primo può attivare delle “spine irritative” che innescano altre disfunzioni. Meglio proteggere.
Così ha detto: spine irritative.
Me le sono figurate lunghe, acuminate come quelle dell’albero di Giuda o di certi cespugli apparentemente inestricabili e invivibili e che invece sono albergo condiviso di rettili, uccelli, piccoli animali da sottosuolo. Mi sono ricordato di mio padre che nelle stagioni di passaggio sentiva acutizzare l’ulcera, regalo di guerra, e mangiava poco, piegava la bocca per il dolore e taceva più del solito. Queste due parole, quasi ossimori, perché la spina non solo irrita ma fa male, conducevano al pensiero che siamo noi a portare dentro le cause, e a contenerle assieme agli effetti. E, pensavo, che ciò accade ovunque ci sia un rapporto in noi, di piacere e dolore, anche nei sentimenti, anche negli amori che pur quando passano, poi i ricordi riacutizzano. Come le stagioni di passaggio che, indecise sul da farsi, intanto cominciano a mettere in discussione equilibri, propongono svolte ancora indeterminate, scuotono tra euforie e depressioni il quieto vivere deciso. Le stagioni del dubbio e della relazione non possono che produrre malesseri irritativi, mi dicevo.
Sono spine irritative che producono effetti altrove – pensavo – complessità di gangli nervosi, circuiti, tutto questo meraviglioso gravame di connessioni, interno e interagente con l’esterno, di cui non si può cogliere davvero la causa ma solo l’effetto. Noi siamo quello che mettiamo in noi, ma non è a costo zero, perché siamo davvero molto più coesi e complessi di quanto pensiamo ed è in noi che il battere d’ali lontanissimo provoca uragani incontenibili.
Così pensavo, camminando sotto i vecchi portici che conosco dal mio sempre. E intanto notavo un nuovo finger food nella strada che un tempo portava al monte di pietà. Lì c’era un artigiano che un tempo mostrava il suo lavoro nel farsi, circondato da attrezzi, con una vetrina scura pena di oggetti da cui lo si vedeva lavorare. Ora era arrivato Hopper senza essere Hopper e la vetrina era molto illuminata, con quella luce fredda che consuma poco e non riscalda il cuore , ed esibiva una scritta da fantasia liceale: idem con patate. Burger, würstel e cartocci di patate con salse varie-gate. Così diceva ed era un locale che si giocava l’apparenza dell’anonimato, ostentava colori indecisi come il crema e il marrone, tagliava la lunghezza della stanza con un bancone spoglio. Sembrava che l’unica gloria fosse il luccicare dei forni. Guardavo curioso la solitudine del rosticciere, l’oro fritto che s’ammosciava nella patata in attesa, le pareti che già cominciavano ad invecchiare nel pulviscolo d’olio. E sentivo la consistenza della spina irritativa, quella che volevo raccontare al medico e che non dipendeva dalle stagioni, ma era fatta di un disfarsi dei ricordi, delle parole, del linguaggio, delle abitudini, delle qualità. Confondendo la bulimia con il desiderio della pienezza, del benessere perenne, la quantità diviene spina che lancia segnali al cuore -pensavo- e il degrado non è cambiamento, è indecisione del prendere in mano i destini. Vigliaccherie per interesse, ignavia, e così le passioni si deterioravano in una luce senza sole. Volevo dire al medico del disgusto crescente che prendeva quando si guardava il vuoto senza essere vuoti, volevo narrare la difficoltà di dare nome proprio alle cose, di essere precisi e insieme dubbiosi. Volevo dirgli che scomporre le passioni in coriandoli non ha mai giovato a nessuno. Ma come fare, come dire il disagio che non impedisce di vivere ma lo disorienta?
Spine irritative, dentro, fuori, e acuzia di stagione. In fondo è ottimistico pensare che sia la ciclicità della natura che ci richiama, che basti un gastroprotettore per rompere un legame doloroso e intanto attendere, pazienti, le infinite rinascite che riparano alle vite ammalorate.
Rassicura pensare ci sia sempre una soluzione che non svolta davvero, la possibilità di attenuare il dolore che non guarisce, infine trovare un equilibrio con ciò che vorrebbe scelte e attenzione.
E allora, camminando, pensavo che dovremmo trasformarci in quei piccoli uccelli che vivono tra i rovi e trattano le spine come consigliere e volano e tornano felici, in quei percorsi che solo loro sanno.
Solo loro e nessun altro.
molto bello il tuo racconto, lo sento anche mio perché soffro anch’io di qualche malanno di quel tipo e allora preferisco concentrarmi su Hopper ; sai che nell’estate sono stata a vedere una sua mostra?
https://unospicchiodicielo.wordpress.com/?s=hopper
Fantastico! …Buon lunedì Will
Ciao @Willy, da quanto tempo non ci sentivamo ??? Un’ immensità … se penso a quanto mi manchi la tua poetica saggezza, il tuo veder la vita ( la tua e quella altrui … ) da un punto di vista assai simile a quello degli uccellini che trattano le spine acuminate come strumenti d’ armonia !
Ho visto che t’ affacci talvolta da @Aquilanonvedente, un mio grande amico, un Maestro di vita e di ironia, che naviga da qualche tempo nell’ infido mare del dolore reiterato e senza sbocchi !
Conoscendolo, gli farà bene la tua presenza NON virtuale, il tuo continuo incoraggiamento !
Ciao Cavaliereerrante. E’ vero, non ci sentiamo da parecchio, spero tu abbia un po’ di serenità. Ho letto di Aquilanonvedente e se gli facciamo sentire che gli siamo vicini sarebbe una gran cosa e finalmente un buon utilizzo della rete.
Credo abbiamo visto la stessa mostra in luoghi diversi, Alidada, comunque l’amore per Hopper è comune. Buona settimana 😊