borbottio

Anziché parlare ultimamente borbotto, i pensieri mi salgono alle labbra, alla penna e li ascolto. Non ho nessuno in particolare a cui rivolgermi, sono un droghiere che nel suo negozio odoroso di legni, agrumi e vernici, lambicca conti, previsioni, scaffali da vuotare, proposte da allineare. Ci sono molti tipi di silenzio, il borbottio è quello più innocuo, si capisce che qualcosa non va ma non è chiaro cosa sia. Ho sempre apprezzato quelle persone che hanno poche idee ma chiare, che sanno dove dirigersi, quando fermarsi, gli altri si muovono come i gas, sbattono contro le pareti, non si capisce mai per davvero dove sono. Precedono la meccanica quantistica traslandola nei pensieri. Chissà se qualcuno ci ha pensato di verificare se noi, non i computer di nuova sperimentazione, pensiamo quantisticamente, ovvero trasformiamo indifferentemente onde in particelle, pensieri in atti concreti e viceversa. E l’entaglement forse ha un corrispondente nell’emozione simultanea, sia essa un amore o altro, che si comunica a distanza attraverso l’intuizione e l’idem sentire. La telepatia è stata il sogno e l’incubo di chiunque volesse conoscere i pensieri di chi era per lui importante. Sappiamo che sprazzi di coincidenze statisticamente compatibili si verificano assieme a eventi di cui non si spiega la nascita se non con il caso. Ma cos’è il caso che sembra interagire pesantemente con le nostre vite e non trova ragione se non esaminando tutte le forze che contemporaneamente determinano un momento del vivere. Si dice con allegria o minaccia che trovarsi nel posto giusto al momento giusto sia parte del tempo e della necessità, ma questo cosa c’entra con i miei silenzi?

Forse dovrei fare un passo indietro e raccontare ciò che determina il tacere o il borbottio. Detto con parole semplici è il disallineamento tra le attese e ciò che accade perché questo influisce e soprattutto fa comprendere che noi siamo sì signori del nostro destino, ma solo del nostro, nel mentre tutto il resto procede per suo conto e se le cose sembrano condurre verso esiti non desiderati allora diviene evidente quanto e cosa contiamo per davvero. Una ridimensionata all’ego non fa male, ma ci sono altre cose che l’ego sorregge, il libero arbitrio ad esempio. Possiamo essere liberi se non siamo davvero padroni delle nostre azioni e quanto di tutto questo lievita e diviene un insieme che condiziona le vite di tutte. Accade in politica, nei posti di lavoro, nella vita relazionale, negli amori, un po’ dappertutto ciò che è lievitato ingloba la società precedente e la riordina in nuove priorità, in obblighi sconosciuti fino a quel momento, speriamo anche in nuove piacevoli esperienze di vita. Certo che con un pianeta doppiamente in pericolo per la nostra specie si dovrebbe stare cauti nel far lievitare la realtà secondo possibilità negative. Insomma noi siamo contemporaneamente soggetti alla legge di Boltzmann ma anche a un universo reale e deterministico che ci obbliga in una direzione quando troppo trascina da quella parte.

E quando si ha comprensione di tutto questo che si può fare? Qui si aprono due strade o il rifiuto del determinismo, cioè ci si oppone a ciò che sembra rafforzarsi come necessario se questo riguarda le nostre possibilità di vita e felicità. Rifiutare il determinismo significa andare in piazza e dire che non si è d’accordo, che bisogna che le cose cambino, che la vita è più importante di ogni convulsione del potere. L’altra strada è quella del silenzio e del borbottio individuale, ovvero il rifiuto di essere parte di qualcosa di negativo che ci riguarda. Se il nostro cervello funziona secondo le ipotesi della meccanica quantistica non c’è nulla di determinato ma una realtà che è il succedersi statistico di momenti in sequenza. Le cose possono mutare, tornare indietro, essere favorevoli anche se esiste la possibilità contraria. Le cose cominciano dalla nostra testa e da essa dilagano anche senza parlare, conta ciò che facciamo, ciò che rendiamo reale.

n.b. la quantità di forse che costella questa pagina dà misura di quanto poco solidi siano i presupposti e le conseguenze tratte, ma di una cosa sono sicuro: o attraverso il silenzio di massa che pesa come un macigno o attraverso la protesta urlata ciò che sembra determinato ed è esiziale per noi e per le nostre vite può ancora essere mutato, prima di trasformarci davvero in una vibrazione.

tornare al rift

La strada che dall’ altopiano dove si trova Asmara conduce a Massaua, corre spesso parallela alla ferrovia che fu realizzata dagli italiani durante il periodo coloniale. La strada è ricca di curve che permettono l’ascesa ai 2300 metri dell’altopiano, la ferrovia era più ardita e spesso si gettava a capofitto verso la pianura. La mattina in cui feci quella strada partendo da Asmara, in una curva a gomito un vecchio camion Lancia, carico di pomodori, si era rovesciato su un fianco creando una larga pozza rossa scivolosa che invadeva l’intera strada e gocciolava oltre il ciglio verso il burrone. Il pulmino oltrepassò il camion e poi l’autista scese a chiedere se serviva aiuto. Ne approfittammo tutti per andare a vedere i tratti di ferrovia che erano oltre il ciglio della strada e ci accorgemmo di quanto ardita fosse stata la collocazione. L’altopiano scendeva per balze scoscese, era una sorta di tronco di cono e sul fondo si vedevano i resti di camion e altre ferraglie indistinte. A qualcuno parve di riconoscere una motrice di “littorina” che era stata trasformata in casa. C’erano piccole aperture nella roccia, caverne che sembravano anch’esse abitate. Attorno al camion si affollavano persone che caricavano ceste di pomodoro e se ne andavano, l’autista, disperato, urlava senza che nessuno gli badasse. Credo fosse contento che il camion si fosse ribaltato verso la montagna e non fosse finito nel burrone e che la sua preoccupazione fosse quella di rimetterlo sulle ruote. Cercava volontari e pali per sollevarlo, quindi il carico era un buon contraccambio per la fatica da compiere. L’impresa mi sembrava pericolosa e disperata, visto il peso e la strada in discesa, così cominciai a parlare con un vecchio signore che parlava italiano e stava seduto su una traversina diventata panca, sotto la pergola di una casa osteria. Anche lui era convinto che l’impresa fosse difficile ma confidava nel buon volere di Allah. Era una mattinata di sole, non faceva troppo caldo e senza fretta, forse, le cose si sarebbero sistemate. Gli chiesi dei camion finiti nel burrone, se qualcuno si preoccupava di soccorrere i camionisti. Mi guardò con gentilezza e mi disse che c’erano almeno 800 metri di salto, nessuno sopravviveva e ai corpi ci pensavano gli animali. Poi qualcuno degli abitanti delle grotte li avrebbe seppelliti. Quando un camion volava giù dalla strada se c’era cibo, in molti avrebbero mangiato, poi sarebbe toccato alle cose caricate e infine, i pezzi di motore sarebbero stati recuperati e venduti a qualche interessato.

Non volevo fare troppe domande, ma gli chiesi quante persone vivevano sul dorso dell’altopiano, la risposta fu che erano molte, poche, dipendeva dal cibo e dal motivo per cui si erano trasferiti lì. Capii che non erano eremiti, ma persone che sfuggivano alla leva obbligatoria, qualche ricercato o chissà chi altro, ma erano cose di cui non si parlava, nelle grotte c’era acqua e tanto bastava. Intanto i lavori di quelli che si portavano a casa le ceste di pomodori e dei possibili facchini, procedevano. Noi risalimmo sul pulmino e proseguimmo verso Dogali e Massaua.

Ho ripensato al Corno d’Africa e alla Dancalia, nei giorni scorsi, quando gli scenari di un inverno nucleare hanno cominciato a farsi più frequenti. Noi qui possiamo manifestare perché tacciano le armi e finisca la guerra in Ucraina, credo sia la cosa più concreta che i popoli possano chiedere a chi gli governa, ovvero portare a un tavolo di trattativa e di pace le due nazioni in guerra. L’efficacia di questa azione sarà proporzionale alle manifestazioni e alla coscienza che un conflitto con l’impiego di armi atomiche non avrebbe vincitori, ma porterebbe alla scomparsa della nostra e di molte altre specie animali e vegetali. Dopo un’esplosione nucleare e dopo la distruzione di uomini e cose, una immensa quantità di polvere si alza verso il cielo e la stratosfera. L’oscuramento della luce solare comporta un brusco abbassamento della temperatura, la fotosintesi viene inibita, ciò che piove è acqua radioattiva, a parte i governi e i privilegiati che potranno andare nei rifugi, il resto di persone, animali, piante non si possono salvare. Uno scenario apocalittico che da solo dovrebbe far mettere al bando ogni arma atomica. Di sicuro ogni civiltà, ogni opera d’arte, ogni bellezza, verrebbe annullata con la vita. Forse, qualcuno sopravviverebbe perché distante dalle esplosioni, perché non troppo colpito dalle piogge radioattive. Per quello ho pensato al Corno d’Africa, alla Dancalia dove la temperatura è di 50, 60 gradi, ma qualcuno ci vive oltre agli scorpioni, ho pensato al Rift da cui l’uomo è venuto e che è ancora abitato con difficoltà. Nessuno di questi uomini sarebbe in grado di dire cosa c’era di bellezza e di tecnologia nel mondo, sono i dannati della terra che sopravvivono in condizioni estreme. Non si pensa mai alla miseria del mondo, degli uomini che potrebbero essere salvati, ma immani somme di denaro sono investite in armamenti, è ora che la civiltà decida di vivere e far vivere. Di aiutare chi è in difficoltà eliminando le difficoltà al vivere. Il bivio è questo e ciascuno può scegliere se essere per una vita migliore oppure aiutare l’apocalisse. Spero ce ne ricorderemo nei prossimi giorni, riempiendo le piazze, manifestando perché tacciano le armi e si arrivi alla pace e al disarmo, perché il tempo a disposizione diminuisce e ancora si può tornare indietro, poi non più e credo che nessuno di noi voglia tornare al rift.

p.s. due giorni dopo tornai all’Asmara per la stessa strada, il camion era ancora su un fianco, i pomodori non c’erano più, qualche tornante più in basso avevamo trovato un secondo camion fuori strada, ma era finito in un fossato. Intorno non c’era più nessuno, neppure il vecchio seduto sulla traversina, solo la macchia di pomodoro, seccata al sole, aveva formato una crosta sull’asfalto che veniva via a pezzi. .

è tutta una bugia

È tutta una bugia, quella raccontata per anni, che eravamo portatori di valori universali, di umanità, di rispetto della vita. Non è vero, non è mai stato vero. Se andiamo oltre le affermazioni collettive, scopriamo che non crediamo in nulla che non sia il denaro. Le religioni, le fedi sono una consolazione per i delitti e l’ignavia ma nessuno ci crede davvero.

La verifichiamo, questa grande impostura, nei bimbi, nelle donne e uomini, lasciati morire di sete e di fame in mezzo al mare. Ci sono gli avvisi, le richieste di aiuto, ma nessuno risponde. Non i sostenitori della vita e non si dica che non si sapeva, la verità è che impera l’egoismo, e le leggi sono fatte per sostenerlo. Si lasciano spegnere le vite di persone inermi e ci si commuove a una fotografia. No, qui non troverete mai quelle foto che dovrebbero cambiare le cose e invece sono pornografia di morte.

Quante vite si sono lasciate spegnere in mare, nel gelo dei confini di terra davanti alla Polonia, alla Grecia, alla Croazia, all’Italia. Il conto di questa colpa collettiva diventa un numero, tutti colpevoli nessun colpevole, ma nessuna legge giustifica l’omicidio, il lasciar morire l’inerme.

Abbiate la decenza, voi che parlate ai tanti, di non evocare simboli religiosi in favore di consenso elettorale per giustificare od omettere che queste morti non sono uguali alle altre. Non c’è nessuna civiltà, nessun valore in ciò che dite. E non voglio sentir più le parole di chi si tira fuori perché avrebbe detto o fatto qualcosa che non ha cambiato nulla.

No, nessuno è innocente e nessuno può dire che questo non è il mondo in cui chi ha potere uccide. Non raccontate più favole, dite la verità, ditela agli odiatori, ditela a chi ritiene giusto lasciare morire i bambini, ditegli che non c’è speranza e che la disumanita è un tarlo che divora dentro, che toglie una vita che vuole solo vivere e potrebbe essere quella necessaria a salvare il mondo. Non c’è nulla di civile in questa civiltà, solo orrore per noi stessi, per ciò che siamo diventati e se vogliamo un perdono non basta commuoversi, bisogna rimuovere il male che si maschera da legalità.

Oggi Giovanni XXIII non direbbe più come nel discorso della luna, portate ai vostri bambini il bacio del Papa, ma direbbe di portare amore e misericordia agli altri bambini. Quelli che non sono a casa, quelli ricoperti di salsedine e gasolio, quelli che piangono al buio, con le loro madri, quelli a cui viene tolta la vita nel terrore. Portate aiuto, direbbe ogni persona che abbia ancora il senso della pietà, a quelli che non hanno nessuna protezione, nessuna umanità che li accolga, ami, difenda. Ma queste voci sono flebili, non sono il potere e neppure l’istituzione. Che Europa può nascere nella menzogna sui valori, che giustizia, che governi. Nessuno toglierà le colpe collettive nel lasciar dire e fare, il tempo non ci perdonerà.

nessuna novità

È una pressione continua. Una notizia elide la precedente e tutto alla fine si sovrappone, si mescola e sembra uguale al grigio che assorbe i colori. Chi produce realtà sa che bisogna alzare la posta, colpire l’immaginazione e il sentire, perché le notizie vengono e svaniscono subito. Siamo finiti in una dittatura del presente senza futuro.

Sembra che il rifiuto della condizione di incertezza produca una bulimia di nuovo senza conclusione. Ed è aria mossa da chiacchiere che si sovrappongono, di cui non resta traccia se non in quel senso di mancanza che fa capolino quando ci si ferma e sembra che non si sia davvero fermi ma che una ricerca continui sotto traccia. Senza volontà, per disagio, bisogno di completezza, perché la coscienza si acquieti.

. Anche tutto questo connettersi, il mi piace sciorinato perché è più facile dare nulla che essere Inerti. È un gradire senza il contrario, la conversazione momentanea, che è chiudersi al rischio del rapporto profondo, alla domanda del che fare di noi.

Come dire la delusione se il rapporto è talmente esile che non c’è attesa, condivisione, scavare reciproco, realtà. La severa maestra è fuori dal virtuale e quindi non si impara, non si accumula esperienza, ma solo fatti che neppure hanno il pregio della verità anche quando sono veri.

È sommamente triste dipendere dalla velocità di una risposta e dalla riconferma che se l’indeterminato altro esiste allora, forse, anch’io esisto. Ecco l’incosistenza poco virtuosa dell’altro essere.

leçons de ténèbres

La morte e resurrezione colpiscono anche chi non è religioso e ne nega la possibilità. E’ una lotta del buio contro la luce vitale e viceversa. Una lotta che riassume le vite e lascia aperta una possibilità ulteriore oppure la chiude. È la lotta per definizione, che comprende le altre lotte interiori che ciascuno combatte vivendo. Soprattutto è facile nascondere il buio che conteniamo coprendolo e negandolo, anche se inconsciamente sentiamo che le vite sono luce, gioia sperata e vissuta, mentre il buio è la negazione della possibilità di espandere la vita.

Più o meno a questo punto ero giunto anni fa, cercando di contemperare la condizione dell’agnostico e la fede del credente nel desiderio che le vite non siano solo pensiero e che nel rappresentare la luce, in essa si trovi la prefigurazione della vita. Poi, ho capito, almeno in parte, che il dolore nel mondo, faceva parte del racconto della passione del Cristo e che esso era profondamente legato a ciò che Esso aveva predicato in termini di amore, condivisione, rispetto, giustizia. Ho pensato che se il messaggio viene raccolto, se modifica le vite, allora immette una visione etica di ciò che accade e non può vincere definitivamente il male. La lotta tra il buio e la luce, tra la definitività della morte e la vita, è la storia dell’uomo, del mondo possibile e giusto contro quello reale e ingiusto.

Nei riti della settimana santa si coglie questa lotta in un profondo simbolismo e umanità. La vicenda del Cristo, per chi non crede, rappresenta il mondo come dovrebbe essere, il percorso di ciò che è giusto depositato dell’uomo che il potere giudica eversivo è vuole cancellare. Cristo si confronta con il dolore, con la negazione della sua identità, con la solitudine assoluta e il dubbio conseguente. Resta poi a noi ed è una decisione personale, se esiste una speranza, o meno, di uscire da questo buio della solitudine che nega l’essere.

La lotta del bene contro il male, inizia con le lamentazioni di Geremia del mercoledì santo.

Da questa riflessione in musica, nel buio e nella luce del ‘600 (e qui ci sarà chi la pensa diversamente) sono nate le leçons de ténèbres. Ne metto un piccolo esempio, se si ascoltano per intero al buio, è un’ora e un quarto ben spesa. Questa musica si alimenta dal pensiero che riflette sulla propria condizione e nella liturgia del buio progressivo. A partire dal mercoledì, ogni giorno una candela accesa veniva capovolta e spenta, fino al buio assoluto della notte di pasqua, quando la luce veniva tolta anche dalle candele residue, oscurate immagini e finestre. Questo buio era la condizione dell’uomo nella solitudine e nell’incomprensione, e restava tale sino all’ esplodere nel trionfo del Gloria e nell’accensione contemporanea di ogni luce.

Vedere l’ansia e la speranza dell’uomo in tutto questo simbolismo è semplice, anche senza credere in un soprannaturale; e anche cogliere motivi profondi di riflessione personale, non è difficile. Sempre che lo si voglia.L’uomo, unico tra gli animali, possiede la possibilità, attraverso l’intelligere e la scelta conseguente, di avere l’opportunità del ri crearsi, ovvero del cambiare se stesso per volontà e non solo per necessità, quindi in modo reale e non figurato, può ri sorgere dal proprio abisso di costrizione.

L’uomo, unico tra gli animali, possiede la possibilità, attraverso l’intelligere e la scelta conseguente, di avere l’opportunità del ri crearsi, ovvero del cambiare se stesso per volontà e non solo per necessità, quindi in modo reale e non figurato, può ri sorgere dal proprio abisso di costrizione.

Il buio e l’oscurità sono simbolo della discesa nel sé, là dove esiste la ragione del proprio mal essere, e quindi dell’infelicità come condizione. Nel profondo senza luce, dove apparentemente c’è la negazione dell’esistere, è possibile trovare la ragione per riemergere diversi da come si era, ma bisogna fare l’esperienza del buio, della solitudine profonda e dell’assenza di essere compresi per trovarne le ragioni. Quindi superare la condizione facile della superficie e del navigare nella propria insicurezza, è condizione per capire che ciò che c’è sotto non fa paura, ma è parte di noi. E ciò significa anche andare oltre il rabberciare continuo, la superficialità, per cercare il tessuto di cui siamo fatti e cosa lo ingiuria, ferisce, strappa.

L’assenza di luce implica il creare la luce: questa è la comprensione di sé, ciò che porta verso le scelte radicali del cambiarsi. Le scelte che cambiano. Non tutti i mutamenti sono buoni, solo quelli che portano a noi, alla nostra libertà, all’amore, lo sono. Quando nella ricerca ci si riconosce come persona,
ha un senso il dolore attraversato. Nell’umanesimo ci si poggia sull’uomo e non si accetta il male come condizione: la condizione umana può e deve mutare. a partire da se stessi. Chi sta cercando è in grado di capire chi cerca; chi ha trovato o possiede la certezza d’una fede, fa più difficoltà a capirlo. Questi giorni possono valere per i laici come per chi crede, ciò che importa è che la riflessione ci riguardi e sia consapevole che non siamo soli a cercare.

arrivammo

Arrivammo in tarda mattinata. Tirava un vento freddo che sollevava nuvole di polvere dalle stradine senza asfalto. Gli abitanti erano chiusi in casa e il fumo dai camini tentava il cielo ma poi piegava orizzontale e si spargeva tra case e vicoli. Mancavano persino le solite frotte di bambini in cerca di caramelle e monetine. Di certo non eravamo inosservati, il grosso pullman occupava l’intero parcheggio davanti a quello che doveva essere il nostro ristorante. Le rovine erano distanti qualche centinaio di metri oltre la fine delle case, mentre in centro, sotto la scritta museum e una tettoia, c’erano mosaici e resti di statue. Uno dei mosaici, di epoca romana, era molto particolare perché portava l’intero medio oriente con le città maggiori allora presenti, le strade e il mare con delfini e navi che viaggiavano tra Grecia e Syria.

In quel fazzoletto di terra, eravamo all’inizio della guerra civile in Syria, non erano ancora arrivate le battaglie, ma a qualche chilometro di distanza iniziavano le oltre cento città morte che nacquero e si spensero nell’alto medioevo. Dopo il pranzo, il villaggio si animò, arrivarono i venditori di reperti e cartoline. Oltre c’erano altre persone intente ai loro lavori, vivevano di pastorizia e agricoltura, non di turismo. Mentre mi incamminavo verso le rovine della chiesa e altri mosaici, pensavo che in tre generazioni, erano passate per quelle case almeno cinque diverse dominazioni e poteri. Che quelle persone erano diventati cittadini dell’uno o dell’altro stato, cambiando sistemi politici e continuando a fare quello che potevano, cioè vivere. In quel vivere c’erano state le stesse emozioni degli uomini delle grandi, civilizzate città d’occidente : amori, dolore, piccole gioie, feste, fatica, ma anche fame e morte. Non erano indifferenti quelli che vedevo, forse sapevano delle guerre mondiali, intanto guardavano e aspettavano che ci fosse qualcuno che li avrebbe fatto vivere meglio. E se guardavano con distacco ciò che accadeva in quel momento, probabilmente lo facevano anche quando il clamore era ben maggiore, al più immaginando la fuga e il suo dolore nel lasciare. Sapevano che il potere non sarebbe durato. Nessun potere. Solo le cose buone sembravano dare riposo e durare e loro attendevano quelle per lasciare la paura.

Però m’illudevo, il mio era il pensiero dell’occidentale che ha vissuto la pace per molti anni, loro, gli abitanti, avevano viste così tante invasioni che le avevano considerate parte delle vite e avevano resistito all’inimmaginabile. Si erano spostati solo un po’ oltre la collina, ma erano sempre rimasti, facendo largo a chi invadeva e voleva restare, restando fedeli ad una patria. Non so cosa sia la patria per un invasore, di sicuro non è un concetto praticato dalla geopolitica, però è qualcosa di radicato negli uomini che hanno bisogno di terra, di odori, di alberi e di punti di riferimento, di colori, di cibo cotto in un certo modo e di rumori diurni e notturni che sono suoni per chi ascolta. Questo sentire andrebbe rispettato perché è parte di quelle persone e senza esse sono molto meno. Il concetto di buono, di relazione, diventa labile quando manca la libertà di essere in un luogo. Il buono diventa impotenza e rabbia che cresce se porta via la terra, il lavoro, la sussistenza. Allora nasce la rivolta che vuole cessi la sopraffazione, la sottrazione di identità.

Ecco credo che allora pensai esattamente ciò che penso ora, il potere non dura, gli uomini restano, i valori profondi che una civiltà riesce a distillare, restano. E questi, se vengono ripuliti dalla retorica, danno la vera misura del valore, enunciano con verità gli obiettivi comuni, che poi sono semplici: vivere con dignità senza essere oggetto d’ingiustizia. E uniscono questi obiettivi, rispettando i vivi e morti, ma soprattutto conservano la dignità di essere ciò che non può essere tolto: essere uomini.

Lo penso in questi giorni in cui il vento non è più quello del deserto, sono in una casa calda, se fuori piove la mia città riluce ed è più antica di quelle città e anche se è stata distrutta è poi risorta più bella. Lo penso perché venti di guerra si gonfiano e non vedo preoccupazione sufficiente per la pace, non sento umanità per chi è stato privato di tutto e ora è ostaggio della carità dell’occidente. Lo penso perché ci sono indifferenza e inanità mescolate, perché le elezioni si vincono indicando un nemico e allora la guerra diventa plausibile. Ma ora questa guerra si avvicina e fosse pure per egoismo, servirebbe la pace, per chi muore e per chi ha timore che tutto questo non abbia una ragione sufficiente a evitare una catastrofe planetaria. 

Ma anche questa è brutta retorica.

 

racconti per notti di vigilia: approssimazioni 1

Quando cerchi qualcosa in questa casa non la trovi mai. Vorrei delle viti autofilettanti da ferro, 1.5 x 0,3 testa piatta. Sarebbero meglio inox, ma non si può avere tutto. Mi basterebbero le viti. 3 o 4 e attacco la stella al porta vasi esterno. Una stella luminosa, unico arredo esterno per una festa che dice, anzi chiede, e lascia larghi spazi di vuoto.

Mi succede ogni anno da quando ho smesso di credere nei significati religiosi del Natale, però mi sono tenuto il pensiero di una bellezza infantile. Un clima caldo dentro casa, l’albero e le palle colorate, l’attesa di un regalo che allora c’era sempre, la responsabilità di preparare la tavola e mettere una letterina sotto il piatto.

A volte c’era la neve fuori. Mi piaceva la neve a Natale, mi piaceva nonostante il freddo che entrava nei cappottini più pesanti che caldi. Il freddo che arrivava nei maglioni fatti in casa che pizzicavano la pelle, le scarpe che si bagnavano e che poi avrebbero fumato, piene di giornali vicino alla stufa. Mi piacevano gli amici alla messa con le luci sfolgoranti, il coro. Mi piaceva cantare nel coro. Cosa cantavo… adeste fideles. La canticchio anche ora che cerco le viti e dallo sgabuzzino è emersa una scatola di libri che non mi ricordavo più di avere. Libri di fotografia, tecniche vecchie, ma come stampavano un tempo? Quadricromie costose che ora virano verso i rossi e gli aranciati. Bei tagli. Chissà quanto hanno lavorato in camera oscura, mica erano tutti Cartier Bresson che stampava l’intero fotogramma e fotografava senza farsi vedere. Sì, ma chissà quante ne ha buttate via di foto Cartier Bresson. Che faccio con questi libri, fuori non c’è più posto quindi di nuovo in scatola. A dormire. Usciranno alla prossima ricerca di viti.

La casa è piena di carabattole, di oggetti che potrebbero servire a tre vite e invece ne ho una. Però ho una buona memoria. Infatti ecco il barattolo delle viti. Un giornale e poi si rovescia l’intero contenuto. Me l’ha insegnato mio cugino. Belli quei tempi quando avevo un’officina dove portare l’auto, e dove avevo pure lavorato. Si fa per dire lavorato. In officina mi ero sporcato di nafta e morchia. Ero un ragazzino e più mi sporcavo più mi pareva di dimostrare impegno nel lavoro. Mio cugino era ordinato. Le chiavi e gli attrezzi a posto, non come qui dentro che ci sono cose per attrezzare una fabbrica ma nessuna si vede. Però mi ha insegnato come si trova quello che si cerca in un barattolo: è semplice, non bisogna avere paura della quantità, si rovescia sul tavolo e si separano le cose con la punta del cacciavite, o con la pinzetta a becchi lunghi da officina. Giornale e barattolo rovesciato. Viti di tutti i tipi, alla fine tre uguali ci sono, la quarta è un po’ più lunga e larga ma non si vedrà da fuori. Solo che sono vecchiotte. Taglio e non testa a croce. Serve il cacciavite giusto.

Prima mi faccio un caffè. Polvere, acqua, e dieci gocce per dove finirà il caffè, non bisogna bruciarlo appena esce. E fuoco basso. Intanto cerco il cacciavite, è nella cassetta degli attrezzi, assieme ad altri dieci compagni: perdo memoria delle cose che compro, ma quando le vedo ricordo il periodo. Mi piaceva fare il bricoleur, dovevo dimostrare qualcosa, adesso faccio meno del necessario e m’ illudo di saperlo sempre fare. Bah, mica è vero, ci provo e mi trovo sempre nei guai con tempi sballati, con impegni che si sovrappongono e quello che doveva essere fatto in 10 minuti, dopo un’ora è ancora malfatto e incompleto. Penso sempre che sia un problema di attrezzi e invece è incapacità di valutare le proprie forze. Delirio di onnipotenza. Succede in molte cose. Magari si chiama ottimismo della volontà, ma in realtà quelli che sanno fare sul serio, hanno misura di sé, si muovono con i tempi giusti e hanno il necessario. Il caffè sta uscendo, si sente il profumo. Mettendo il fuoco al minimo sin dall’inizio, esce piano e aprendo il coperchio il profumo esplode nell’aria. Aver vissuto per anni vicino a una torrefazione mi ha condizionato, ne sono certo. Mi mandava mia madre a prendere il caffè, non potevano vendere al minuto ma me lo davano lo stesso: un chilo che macinavano al momento. Finché guardavo i forni dove tostavano i grani, mi regalavano un caffè fatto da una Cimbali enorme. Un caffè buonissimo che non riuscivo a trovare al bar. Ristretto, profumatissimo con un retrogusto rotondo e dolce. Questo magari fosse così. Ci si accontenta col tempo magari vantadosi di essere gourmet. Però il caffè si beve seduti. Sul tavolo ho giornali di due settimane, devo trovare il tempo per liberare. Fosse facile… Ogni volta che vedo qualcosa di scritto m’interessa. Caffè e biscotto caramellato, inzuppare con calma. Il caffè si beve con calma, poi inizierò. Intanto fuori la luce cala in fretta e farà pure freddo.

Trapano, punta da 2,5, fori sul portafiori. Fatti i fori, il prossimo anno basteranno le viti. Sembra semplice, ma fa freddo davvero, le dita si ghiacciano e il metallo non è facile da forare. O è la punta? Primo foro per la stella, poi per fare il secondo dovrò decidere come butta la coda, la mando in orizzontale o verso il basso? Orizzontale. Servirebbe una bolla, ma vado a occhio anche perché il portavasi non ha tutto questo spazio di libertà. Con due fori fatti la stella e la coda sono già a posto. Basterebbe così, aggiungiamo il terzo foro per preziosismo. Mi fermo a guardare il tramonto, in questa parte del mondo il sole fa meraviglie quando scompare dietro ai colli. Però fa davvero freddo e bisogna finire. Mi pare di fare le cose per bene, non è così, però se tutto è accettabile, chi se ne accorge a parte me e la mia insoddisfazione. Ormai è notte e sono pieno di freddo. Potevo farlo stamattina, mi dico, anzi lo dico proprio così lo capisco meglio, e invece rimando finché non ci sono più scuse.

La stella è a posto, il portavasi e le piante pure, e adesso serve il filo elettrico da portare dentro. Una prolunga e si accende. Lo so che questa cometa è una cosa banale, una pacchianeria. Me lo dico da quando l’ho comprata. Il cinese m’ha assicurato che è per esterno. Magari sarà vero, ma speriamo non piova e che non prenda fuoco. Però adesso si accende e potrebbe pure lampeggiare. Sarebbe troppo, un cattivo gusto aggiunto al cattivo gusto. Farei fatica a dormire col pensiero della stella fuori che lampeggia. Siamo sempre prigionieri di quello che pensano gli altri ma questo lo penso anch’io.

Adesso da dentro si vede la stella cometa illuminata, a frammenti, tra le piante, fuori è intera. Ho preso freddo e ormai è notte piena. Ho preso troppo freddo, come un imbecille. E la casa è rovesciata. Comincio a mettere a posto, mi fermo spesso perché trovo cose inaspettate. Intanto la stella è accesa. Scendo a vederla intera. Non è male. Pacchiana ma un po’ fa festa. Poi quando andrò a letto, chiudo la porta e la spengo. Se non prende fuoco prima.

E’ quasi Natale, quasi, manca il resto.

i venti dell’est

Il sole, ormai sbieco, illumina la stanza. Rovista indiscreto, impudico rivela e mostra. Insegna e di tanto groviglio dipana, semplificando come usa col taglio netto, la svolta. Esserci senza impegno di fare, agire costretti, eppure esserci. Giungere alle parole per significare, con quella limpidezza che incute rispetto ed esaurisce le domande. Risulta chiaro dove si è, a cosa si dà importanza, a che serve l’impegno senza interesse personale e solo questo è un vivere definito e libero che può dire o tacere, studiare e cercare vie nuove senza l’ansia del giudicare e dicendo: appartengo a me stesso e a ciò che amo, con i miei errori e la mia voglia di giustizia, di vita e d’infinito.

Di questa stanza ormai c’è solo un insieme di rovine, Martini ad Aleppo era un ristorante- locanda con secoli di voci e sorrisi accumulati, mobili antichi e il patio interno coperto da una vetrata a riquadri. Sarà caduta alla prima granata, le pareti divelte assieme ai marmi dei pavimenti e poi il silenzio. Sui muri che avevano stratificato le presenze, ascoltando discrete le lingue che si sommavano, guardato curiose le vesti diverse che entravano, sentiti i fruscii delle sete pesanti per l’inverno. Gli occhi rossi dei bracieri si saranno consumati attendendo le mani che portavano il freddo esterno e si preparavano al cibo e agli sguardi. La scala interna che puoi vedere riflessa sullo specchio, i suoi legni intagliati, gli scalini arrotondati dall’uso, mostravano le venature del sole antico ricevuto e il segno impercettibile delle babbucce. una discesa e un salire discreto con gli occhi che parlavano. Un salire e scendere come se il tempo fosse percorribile dai soli istanti che ci appartengono e poi passi leggeri che scivolavano sul pavimento prima di sedere nella bellezza di esserci.

Tutto si conserva come radiazione nell’universo che ci racchiude e ritorna. In qualche modo ritorna anche se non si parla più della Syria, anche se nulla si vuol conoscere dei Curdi. Tutto il passato è racchiuso in una noce di presente che attende il suo momento e accumula energia. Non c’è il caso ma stati progressivi dell’universo e noi siamo in questo stato irripetibile come tutti gli altri, ma consapevoli della spinta di tutto ciò che ci ha preceduto e gentilmente ci chiede conto e al tempo stesso propone di essere felici del molto che possiamo condividere.

Ci si deve compromettere, le scelte sono necessarie, farlo con la bellezza che si possiede, con ciò in cui si crede, con le passioni che ci animano, i desideri che ci scuotono è comunque una sequenza di no e pochi sì, ma è necessario perché la bellezza non si perda e non diventi oggetto di derisione e rovina. Io l’ho vista la rovina, ho visto il Mantegna, il Guariento e il Semitecolo polverizzati agli Eremitani, li ho visti crescendo nella grande fabbrica che ricostruiva il possibile e ricopriva il grande spazio con la carena rovesciata di una nave. Quel soffitto era il paradigma di ciò che era avvenuto, una nave si era rivoltata e di essa erano rimaste solo gli irti frammenti del legno antico, ora bisognava ricreare il possibile di quel passato che comunque non voleva sparire. Forse per questo la grande chiesa priva di gloria è così piena di tempo indeciso, così forte nel chiedere che i vuoti restino silenzi dell’anima. Crescendo ho capito che quando Lutero si era fermato a dormire in quel convento, in cui avevo giocato, qualcosa aveva lasciato. Qualcosa che si scriveva con inchiostri strani, qualcosa che era coscienza d’essere in un luogo dove le cose avevano spinto in avanti il mondo e non era stato pacifico tutto ciò, come non era pacifica la distruzione che annullava, anzi pensava di annullare ciò che era stato. Non è così, per fortuna, ma bisogna scegliere, non scordare la bellezza e non scordare gli uomini. Mai come ora è necessario, mai come ora siamo inconsciamente coinvolti in ciò che deve essere il futuro come piccolo passo di questo presente che gioca sull’orlo del vulcano.

Ci sono cose che sembrano indifferenti
e il loro suono è vuoto
come una lingua priva di sorrisi,
solo la paura impedisce di scorgerne in noi
la luce.

riassunto

Rimettere in ordine ciò che si è scritto, discernere quello che resta da quello che era transitorio e trovarsi davanti a una consapevolezza e a una determinazione. Questo scrivere è stato un diario non autorizzato dalla razionalità, una sequenza interminabile di stati d’animo, di percezioni, di sguardi, di emozioni. È stato l’apocrifo racconto d’una vita nel suo farsi e contemporaneamente rifrangersi. Come accade a tutti penso. Le urgenze, l’ascolto, il raccontarsi d’altri vissuto come emozione e lasciato frammischiarsi al proprio.

Chi ha la pazienza curiosa dell’ascoltare capisce cosa sia un interesse determinato, colto negli occhi dell’altro, indagato nei moti del viso e del corpo, atteso nella scelta delle parole.
Trovare e condividere la consonanza, ovvero la capacità di essere veri dove l’apparenza e le sue finzioni non sono richieste, fa parte di questo comunicare.
E parlare di sé è parlare d’altro, in ordine inverso, nell’audacia onnipotente del passare dal particolare al generale.

Di molte cose avverto il limite (ecco il biografismo) ma mai degli abbracci, anche di quelli dati a chi ha tradito. C’è un’ accettazione inerme nell’abbraccio che purifica il passato e il futuro. È una terapia che rimescola le carte, ci riconfigura ma dopo, molto dopo. Accade anche nell’ascolto che deve abbandonare la facilità del giudizio e affidarsi allo stupore dell’altro da sé. L’abbraccio e l’ascolto sono un far proprio che lascia integra la libertà. Anche del tradire.
E che dire degli abbracci mancati? Dell’ascolto negato?
Qui, rileggendo, il pensiero si vela di scuro, porta il rimpianto di una possibilità negata, coinvolge l’esame di una scelta che poi magari si relativizza in giustificazioni oppure si assolutizza nell’assenza della perdita.
Beati quelli che rimuovono, oppure beati quelli che sanno abbracciare e se lo tengono per sempre quell’abbraccio.

pubblicato in willyco.blog il 7 dicembre 2016

parliamo di sinistra

C’è chi si ferma sui numeri delle amministrative, chi fa confronti con le europee o con i sondaggi, chi rileva che gli accrocchi della politica politicante non funzionano più. Non pochi si soffermano sullo spettacolo indecente del Senato che esulta perché la “tagliola” grazie a Renzi ha funzionato sulla legge contro l’odio per i LGBT. Tutto parzialmente vero ma questo non spiega perché un popolo che ha problemi di lavoro, un benessere decrementante, una povertà crescente, scelga, indipendentemente da ogni valutazione etica, la destra più aggressiva da quando è nata la Repubblica. Siccome è ciò che pensa l’elettore che fa testo cio che più mi convince è che manca una risposta ai bisogni tradotta in politica riformista di sinistra che non sia subordinata al liberismo. Cioè la sinistra esprime una politica che non migliora il presente ed è senza speranza di cambiamento.

Allora vorrei soffermarmi su una parola molto usata: compatibilità. È una parola che si declina attraverso le leggi, unicamente verso il basso, cioè si chiede ai poveri o a quelli che stanno per diventarlo, di essere compatibili con i ricchi o gli straricchi. Questo evidentemente provoca un risentimento nei confronti di chi per compatibilità nega l’equità. Altera una seconda parola che spesso si usa in politica, ed è conflitto. La radicalizza. È un presente che non coinvolge solo l’Italia, ma la compatibilità rende logico il conflitto nella sua accezione di scontro. Di fatto è una specie di guerra che rompe le appartenenze, i vincoli di solidarietà, rende logico il passare indifferentemente dall’una o dall’altra parte in attesa, non di un futuro migliore ma di un presente accettabile. Questa conflittualità estrema rende credibile ogni notizia, toglie valore all’etica sociale, decriminalizza i comportamenti illegali.

Naturalmente non tutti sono così, ma mai come ora si è accettata la conformità alle parole che si vogliono sentire e si è annullato il passato. È la dittatura del presente in cui alberga di tutto. La glorificazione del furbo ad esempio, la menzogna sui bisogni, oppure la logicità dell’esercizio del potere senza regole, l’irrisione della cultura, la mercificazione del consenso attraverso il privilegio.


Risalire da questa condizione implica che quelle due parole, compatibilità e conflitto devono essere riportate nell’ambito dell’equità e delle regole comuni, ciò non si fa con i pannicelli caldi dei pochi centesimi erogati o con il mancato aumento di beni che necessari non sono, e neppure senza un travaso di ricchezza tra chi ha troppo e chi non ha a sufficienza. Questo implica una rivoluzione interiore nel riformismo di sinistra che deve rendere compatibile e premiante la solidarietà rispetto alla furbizia, deve integrare ciò che è possibile nelle migrazioni, imporre che i nuovi poveri non facciano sentire ancora più poveri quelli lo sono da prima, deve investire in ciò che crea lavoro stabile e fa crescere le aziende senza depredare l’ambiente e schiavizzare i lavoratori.
Insomma non è possibile combattere la disgregazione senza mettere assieme, far sentire le persone parte di un cambiamento che li riguarda senza renderli protagonisti. E qui la compatibilità si rovescia e il conflitto sceglie i suoi avversari: non è tutto uguale. Neppure il presente lo è e bisogna che questo venga dimostrato con le leggi e il fare. Non vedo altra soluzione se si vuole evitare che il paese continui a smottare verso la destra. La peggiore destra da quando è nata la Repubblica.