Penso che la fragilità interiore, ed esteriore, aumenti. Che si copra, a volte, di aggressività, mentre in altre occasioni sia infermità che piega l’anima in sé e le impedisce di volare, di sorridere, anzi le fa sentire il peso di un mondo che s’abbuia.
Penso che tutto questo avvenga senza comunicare e che a cresca la solitudine, la difficoltà di avere una comunicazione profonda. Forse non è così ma è la sensazione che leggo nella violenza insita nelle immagini, apparentemente innocenti, nelle parole che vengono ritrattate o relativizzate e poi ripetute sino a non distinguere più la realtà. Non la verità che è un processo che si svela ma la realtà, ossia ciò che percepiscono i nostri sensi e la nostra mente interpreta. Nel digerire ogni cosa aumenta la fragilità e la violenza e non c’è bisogno di repressione ma di condivisione etica, di sentirsi nella stessa condizione precaria, di lottare per lo stesso cambiamento sociale. Leggevo oggi la percentuale di anidride carbonica in atmosfera, siamo a valori che superano di molto le 400 ppm, questo indica una irreversibilità progressiva del degrado ambientale che per noi sarà un dato statistico, per i nostri figli e nipoti, una realtà che renderà più fragili le esistenze.
A questo si somma una tensione crescente tra i popoli indotta dalle volontà di potenza, dalla mancanza della percezione che proprio le armi rendono più necessaria la tolleranza e la comprensione della differenza. Un mondo di eguali parte dalla giustizia e dall’equita per stabilire rapporti profondi tra modi diversi di sentire. Tutto questo evidenzia l’umano prima delle idee e rende compatibili le diversità, così si può stare assieme, meno fragili, diversi, sicuri che saremo orientati ad affrontare assieme i problemi di sussistenza della specie. Il contrario di questo è violenza, sull’ambiente, sugli uomini, sulla bellezza, sui deboli, sulla crescita comune interiore ed esteriore. Siamo diventati vecchia plastica, apparenza che si decompone e si disfa alla luce, questa è la fragilità che percepisco e siamo ancora a tempo per mutare, ma non è possibile farlo senza pagare un prezzo che non tocca le esistenze, anzi le rende migliori, è la volontà di dominio che deve pagare il prezzo, l’economia di rapina, la glorificazione della diseguaglianza. In cambio c’è vita e bellezza, rispetto, futuro, questa è l’alternativa che vedo dinanzi.
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lettera dall’insoddisfazione di come cambia il mio mondo
In evidenza
buon giorno Amico mio. Ogni mattina quando leggo i commenti alle “imprese dei nostri” del giorno precedente ho l’impressione di un cupio dissolvi illimitato. All’incapacità di mettere d’accordo ciò che si dice con ciò che viene fatto e di usare parole civetta come costituente per mascherare ciò che non si vuol mutare ovvero la gestione del potere interno e la congruenza di questo con gli ideali professati. Questo mi fa stare male senza ragione che lenisca, nè la speranza soccorre che questo mal stare finisca presto. Appena fuori di queste baruffe banali ci sono questioni grandi e davvero epocali, omesse o affrontate con sufficienza: la fine dellea guerra e la pace come necessità vitale oltre che bene politico comune, il cambiamento dell’atmosfera e il suo inquinamento che mette a repentaglio le specie, anche la nostra, la crescita di un capitalismo vorace, senza limiti, che è più forte di ogni logica, divora diritti, dignità umana oltre alle risorse del pianeta. E poi la corruzione dilagante, sotterranea, fatta di furbizie e di colpevole disattenzione. Ti sei mai chiesto perché le tasse vengono evase in misura abnorme, perché c’è tanto lavoro e prodotto nero non perseguito? Perché è consustanziale al modo di pensare il rapporto con lo stato e con gli altri cittadini, perché i servizi non si vuol capire chi li paga, perché arricchirsi comunque è una virtù sociale. Ma non tutti la pensano così, non tutti si comportano in questo modo altrimenti non ci sarebbe Stato.
Ti sembrerò troppo romantico, ma anche in questa debacle della sinistra, che troppo spesso scambia i diritti per concessioni e usa quella maledetta parola: compatibilità per togliere anziché dare, ancora credo in un paese buono, dove esistono buone pratiche e persone che le perseguono. Dove i peccati veniali per chi crede, sono piccoli rimorsi per chi non crede e li spinge a migliorare. Credo in un paese che vuole cambiare e non sa come, dove le persone non capiscono più chi fa il loro bene ma vogliono vivere ed ogni giorno si misurano con problemi concreti. In più credo che le persone che conosco siano frequentabili, ovvero che abbiano un codice etico simile al mio e che quelli che non ce l’hanno non meritano la mia amicizia.
Ma credo anche che sia stato fatto molto danno dal punto di vista morale e che la maggioranza di questo paese, pur con l’impegno di papa Francesco, abbia sviluppato un relativismo etico importante sui problemi veri e nel rapporto con chi ha meno. Un relativismo che smorza le coscienze e gli atti quotidiani nel decidere, che inficia il concetto di legalità, toglie il senso di appartenere allo stesso paese. Ma ripeto, per me questo non è un paese di malfattori ed ogni giorno nella scuola, negli uffici, negli ospedali, nelle fabbriche, gran parte delle persone fanno quello che serve a mandare avanti la nave. Quella in cui siamo tutti. Credo anche che la sinistra nelle sue colpe e omissioni non abbia intera la responsabilità di ciò che accade a chi è più debole e ti dirò di più, penso non ci siano partiti di malfattori, ma malfattori che si servono di partiti. E che questo, nonostante tutto non sia così forte da essere la prassi che non si può cambiare. In sostanza penso che mettere un’etichetta impedisca di vedere davvero cosa c’è sotto.
Vorrei, non desidererei, dare un senso costruttivo a ciò che faccio assieme ad altri, partendo dalla mia vita, da ciò in credo. Una prospettiva, un orizzonte o cui camminare. Non mi importa di zigzagare, di fare più strada, ma una direzione serve. Questo vorrei e forse molti altri lo vogliono. Io credo in quelli che fanno le cose gratis, che, se hanno obbiettivi personali, sono leciti, e credo siano tanti. Quelli che pensano, come noi, che il bene di tutti non sia una cosa astratta, ma una parte della vita dei singoli, che la vita sia preziosa e che non deve dipendere da un pezzo di carta e che chi condanna a morte chi cerca un futuro per sé e per i propri figli, commetta un assassinio. Mi interessa sempre meno il nominalismo della politica, del Pd o di altro, non mi interessano i congressi in cui non viene proposto un futuro, atti concreti da perseguire per risolvere i problemi quotidiani, mi interessa una ragione al fare e non la mia demoralizzazione quotidiana perché il mondo non è come lo vorrei. Vorrei cambiare, cambiare il mondo, amico mio, un poco, quello che è possibile, non fare il cronista del mio tempo.
sintesi
In evidenza
Le parole sono semplici e vive, spesso gonfie per troppo cammino, ma se ridotte a puro significato, si innalzano e divengono essenza. Diventano lance acuminate di significato, pregne di quella forza che contiene l’emozione. Non serve l’antecedente e il susseguente, si mettono sulla carta, possibilmente con penna e inchiostro perché anche il segno, la sua forza e larghezza, è parte del significato. Sono fonte di meditazione, sino alla sintesi, all’emozione pura. Così si realizza la sintonia tra chi ha tracciato un segno e chi lo legge, ed è una cosa che attraversa la bellezza e va oltre.
La parola si poggia sulla bellezza ma è trasferimento di pensiero, quanto più semplice essa è, ridotta a sequenza minuta, scollegata apparentemente dal tempo e dal contesto, tanto più aumenta il suo potere evocativo. Un dialogo tra menti che non dimostra ma mostra, che non può offendere, che si curva sino a diventare un oggetto intangibile e posseduto definitivamente. Ecco, tutto questo è avventura e influenza la vita, fa essere tra gli altri ma con una dolcezza in più: quella di aver compreso.
nulla è senza prezzo o non avrebbe valore
In evidenza
… se si vuole restituire una dimensione, umana, comunitaria, ecologica, non tanto in senso ambientale quanto psicologico esistenziale, alla nostra vita, se si vuole sfuggire a quello che ho chiamato il “ modello paranoico” che ci costringe a consumare per produrre a livelli sempre più insostenibili, a competizioni sempre più stressanti e ci priva del vero valore dell’esistenza, il tempo, non c’è “bio”, “ecocompatibile”, “we”, “sviluppo sostenibile” che tengano, il solo modo di tornare a “un’economia di sussistenza”, vale a dire, sia pure in modo graduale, limitato e ragionato, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale, finanziario e virtuale…
Massimo Fini ne “ il fatto quotidiano “ del 20-11-2010
Per un mio quasi coetaneo, benestante, realizzato e inquieto può essere facile dire “ torniamo ad un’economia di sussistenza”, in fondo l’aggettivo graduale non inficia né il tenore di vita, né le opportunità residue, e neppure le abitudini vengono sostanzialmente toccate. Le priorità di valori, le necessità si alterano con l’età e si invertono quando si esprimono salendo sulla scala delle possibilità economiche. Vale a dire che a seconda di dove ci si trova nello spazio tempo-sociale si hanno bisogni differenti. Ma ciò non toglie che quanto diceva Massimo Fini mi trovi consenziente, purché non sia un lusso occidentale: il n.i.m.b.y che sposta altrove le nostre difficoltà, senza rinunciare a nulla.
La strada dell’alternativa a questo modello di vivere non può essere indolore, bisogna perdere, rinunciare per avere. Se penso alla mia esperienza di lavoro che cercava di proporre una compatibilità incrementante nell’uso del territorio, una riduzione progressiva dell’impatto della trasformazione di materia in beni, constatavo che nel farlo, non conoscevo la velocità del degrado complessivo e che dovevo, per eccesso di variabili, assumere che alterando di meno comunque miglioravo l’ ambiente. Mi restava il dubbio, che oltre alle parole, vendevo un sottointeso, un inganno. E che il solo motivo per cui venivo creduto era nella parola compatibile, e che la mia proposta non alterava desideri, attese, abitudini, ma semplicemente le arricchiva della speranza di non essere in un treno lanciato verso la catastrofe. Anche una catastrofe non faceva paura, perché si pensava che qualcuno comunque ci avrebbe salvato, la scienza o un evento eguale e contrario che spazzasse via il danno. Comunque c’era una distinzione tra i più forti, i possessori della tecnologia, ma non tra i più deboli.
Meglio quindi appartenere comunque ai primi, lo pensano tutti, anche quelli che si danno da fare per avere un mondo migliore, ci sono solo quelli che davvero scendono negli inferi del disagio, della fatica, che capiscono che il mondo è salvabile ma che deve mutare non per tecnologia ma per convinzione (che in questo caso significa rivoluzione economica) che comprendono il limite della parola compatibile e che non ravvisano più la gradualità come una via d’uscita. Mentre se le cose procedono indisturbate, bisogna trovare la speranza altrove, chiederla a chi conosce il disagio profondo di chi vive la contraddizione tra l’essere uomo e non essere riconosciuto come tale.
La carne da cannone non è mai morta definitivamente e si riproduce ovunque, al ritmo necessario per il suo consumo da parte delle élites. Se si diviene consapevoli di tutto ciò, cosa se trae se non la percezione delle proprie contraddizioni e inanità. E per sfuggire all’apatia o alla disperazione del fare, quale strada resta a disposizione? Trascurando i cambiamenti da catastrofe, resta la via del cambiamento delle coscienze, il proporre, l’essere conseguenti e l’attuare stili diversi di vita, ma anche il richiedere cambiamenti radicali e immediati. Rifiutare per resistere, praticare ciò che è compatibile con sé stessi, approfondire le analisi e le compatibilità con il vivere, ma resistere alla suasion che modifica, approva, rende compartecipi dei magnifici destini del comportamento prevalente, della moda dei consumi, della scienza orientata a trovare soluzioni a ciò che si altera in un percorso infinito di rottura e riparazione.
Resistere significa essere conseguenti, maturare consapevolezze allegre, essere progressivamente innervati di priorità diverse, di cultura che conosce l’altra faccia della realtà e non ne ha paura, ma cambia in conseguenza. Resistere significa essere con i giovani, senza la maggioranza di essi non si cambia e non si vince. Ma i giovani sono la parte più difficile di un mutare collettivo, anche se lo portano innanzi, perché devono ancora consumare, temono di perderne possibilità in una concezione del mondo che appare “pauperista”, meno ricca di opportunità di star bene, di avere. Restare in un ragionamento riduzionista è castrante, riconduce a gruppi piccoli, religiosi, mentre serve una laicità del crescere differente di massa, che si alimenti di selezione e non tolga possibilità, anzi aggiunga incessantemente e con evidenza, qualità al vivere. Non è facile, anzi, la deriva moralistica, il vedere la propria necessità diventare norma, toglie la capacità di cogliere i problemi, le difficoltà del mutare abitudini, le implicazioni di un modello che si basa su una libertà di scelta apparente, ma sostanziale. Rinunciare all’auto per andare a lavorare a piedi a 3 km di distanza non è una grande fatica, ma se il lavoro fosse a 30 km? E in una società basata sulla sussistenza ci sarebbe lavoro per tutti, e con quali garanzie? L’industria ha creato lo stato sociale, l’agricoltura non era in grado di farlo. Il commercio mette in relazione il mondo, ma ha bisogno di una moneta comune non del baratto. Immaginate un mondo in cui gran parte delle cose che fate, avete, usate, non abbiano più significato comune, un mondo artigiano in cui la tecnologia non ha serialità, una tecnologia resa solo funzionale, quasi domestica. Il progresso che rallenta perché non servono in continuazione nuove “release” di software o di hardware. Immaginate un mondo con il manifatturiero ridotto, un mercato basato praticamente sull’uso e non sul possesso. Immaginate che questo commercio svuoti le scelte nelle vetrine e nelle bancarelle. Immaginatelo questo mondo che colloca le persone e le cose al centro del loro significato quotidiano, esisterà una via aurea per combinare tutto questo con questo mondo senza critica in cui viviamo. La domanda che si pone è: ma davvero vogliamo questa via e questo mondo e cosa siamo disponibili a pagare per averlo?
tornare al rift
La strada che dall’ altopiano dove si trova Asmara conduce a Massaua, corre spesso parallela alla ferrovia che fu realizzata dagli italiani durante il periodo coloniale. La strada è ricca di curve che permettono l’ascesa ai 2300 metri dell’altopiano, la ferrovia era più ardita e spesso si gettava a capofitto verso la pianura. La mattina in cui feci quella strada partendo da Asmara, in una curva a gomito un vecchio camion Lancia, carico di pomodori, si era rovesciato su un fianco creando una larga pozza rossa scivolosa che invadeva l’intera strada e gocciolava oltre il ciglio verso il burrone. Il pulmino oltrepassò il camion e poi l’autista scese a chiedere se serviva aiuto. Ne approfittammo tutti per andare a vedere i tratti di ferrovia che erano oltre il ciglio della strada e ci accorgemmo di quanto ardita fosse stata la collocazione. L’altopiano scendeva per balze scoscese, era una sorta di tronco di cono e sul fondo si vedevano i resti di camion e altre ferraglie indistinte. A qualcuno parve di riconoscere una motrice di “littorina” che era stata trasformata in casa. C’erano piccole aperture nella roccia, caverne che sembravano anch’esse abitate. Attorno al camion si affollavano persone che caricavano ceste di pomodoro e se ne andavano, l’autista, disperato, urlava senza che nessuno gli badasse. Credo fosse contento che il camion si fosse ribaltato verso la montagna e non fosse finito nel burrone e che la sua preoccupazione fosse quella di rimetterlo sulle ruote. Cercava volontari e pali per sollevarlo, quindi il carico era un buon contraccambio per la fatica da compiere. L’impresa mi sembrava pericolosa e disperata, visto il peso e la strada in discesa, così cominciai a parlare con un vecchio signore che parlava italiano e stava seduto su una traversina diventata panca, sotto la pergola di una casa osteria. Anche lui era convinto che l’impresa fosse difficile ma confidava nel buon volere di Allah. Era una mattinata di sole, non faceva troppo caldo e senza fretta, forse, le cose si sarebbero sistemate. Gli chiesi dei camion finiti nel burrone, se qualcuno si preoccupava di soccorrere i camionisti. Mi guardò con gentilezza e mi disse che c’erano almeno 800 metri di salto, nessuno sopravviveva e ai corpi ci pensavano gli animali. Poi qualcuno degli abitanti delle grotte li avrebbe seppelliti. Quando un camion volava giù dalla strada se c’era cibo, in molti avrebbero mangiato, poi sarebbe toccato alle cose caricate e infine, i pezzi di motore sarebbero stati recuperati e venduti a qualche interessato.
Non volevo fare troppe domande, ma gli chiesi quante persone vivevano sul dorso dell’altopiano, la risposta fu che erano molte, poche, dipendeva dal cibo e dal motivo per cui si erano trasferiti lì. Capii che non erano eremiti, ma persone che sfuggivano alla leva obbligatoria, qualche ricercato o chissà chi altro, ma erano cose di cui non si parlava, nelle grotte c’era acqua e tanto bastava. Intanto i lavori di quelli che si portavano a casa le ceste di pomodori e dei possibili facchini, procedevano. Noi risalimmo sul pulmino e proseguimmo verso Dogali e Massaua.
Ho ripensato al Corno d’Africa e alla Dancalia, nei giorni scorsi, quando gli scenari di un inverno nucleare hanno cominciato a farsi più frequenti. Noi qui possiamo manifestare perché tacciano le armi e finisca la guerra in Ucraina, credo sia la cosa più concreta che i popoli possano chiedere a chi gli governa, ovvero portare a un tavolo di trattativa e di pace le due nazioni in guerra. L’efficacia di questa azione sarà proporzionale alle manifestazioni e alla coscienza che un conflitto con l’impiego di armi atomiche non avrebbe vincitori, ma porterebbe alla scomparsa della nostra e di molte altre specie animali e vegetali. Dopo un’esplosione nucleare e dopo la distruzione di uomini e cose, una immensa quantità di polvere si alza verso il cielo e la stratosfera. L’oscuramento della luce solare comporta un brusco abbassamento della temperatura, la fotosintesi viene inibita, ciò che piove è acqua radioattiva, a parte i governi e i privilegiati che potranno andare nei rifugi, il resto di persone, animali, piante non si possono salvare. Uno scenario apocalittico che da solo dovrebbe far mettere al bando ogni arma atomica. Di sicuro ogni civiltà, ogni opera d’arte, ogni bellezza, verrebbe annullata con la vita. Forse, qualcuno sopravviverebbe perché distante dalle esplosioni, perché non troppo colpito dalle piogge radioattive. Per quello ho pensato al Corno d’Africa, alla Dancalia dove la temperatura è di 50, 60 gradi, ma qualcuno ci vive oltre agli scorpioni, ho pensato al Rift da cui l’uomo è venuto e che è ancora abitato con difficoltà. Nessuno di questi uomini sarebbe in grado di dire cosa c’era di bellezza e di tecnologia nel mondo, sono i dannati della terra che sopravvivono in condizioni estreme. Non si pensa mai alla miseria del mondo, degli uomini che potrebbero essere salvati, ma immani somme di denaro sono investite in armamenti, è ora che la civiltà decida di vivere e far vivere. Di aiutare chi è in difficoltà eliminando le difficoltà al vivere. Il bivio è questo e ciascuno può scegliere se essere per una vita migliore oppure aiutare l’apocalisse. Spero ce ne ricorderemo nei prossimi giorni, riempiendo le piazze, manifestando perché tacciano le armi e si arrivi alla pace e al disarmo, perché il tempo a disposizione diminuisce e ancora si può tornare indietro, poi non più e credo che nessuno di noi voglia tornare al rift.
p.s. due giorni dopo tornai all’Asmara per la stessa strada, il camion era ancora su un fianco, i pomodori non c’erano più, qualche tornante più in basso avevamo trovato un secondo camion fuori strada, ma era finito in un fossato. Intorno non c’era più nessuno, neppure il vecchio seduto sulla traversina, solo la macchia di pomodoro, seccata al sole, aveva formato una crosta sull’asfalto che veniva via a pezzi. .
Elogio del piccolo
Le cose che facciamo non sono quasi mai importanti in assoluto. Non per tutti almeno, e non allo stesso modo. Però continuano ad essere per noi importanti, e ciò che riguarda molti, si allontana da noi, come superfluo. Sembra che ci sia stata tolta, chissà quando, la possibilità di essere davvero attori di cose grandi che riguardano tutti, e che il futuro comune si sottragga alla nostra possibilità di influenza, al più, pensiamo, di subirne le conseguenze. Così si torna al nostro piccolo importante, anche per fuggire sensazioni d’impotenza o d’inutilità.
L’opinione sulle proprie capacità cambia con queste sensazioni, anche se i principi restano, non si spiegherebbe altrimenti il rientrare di molti, per stanchezza prima che per comprensione o età, all’interno di silenzi collettivi. Se poi le sconfitte sono state così ripetute e forti da far rintanare la voglia e la fiducia di poter influire, allora subentra la consapevolezza che ciò che facciamo può essere importante a noi e a chi ci sta vicino, ma che non abbia altri effetti che in noi stessi. Si perde una dimensione e se ne enfatizza un’altra.
È bene o male?
È così, e però non vorremmo negarci un modo per rappresentare la nostra singolarità e per proiettarla verso l’esterno. In fondo il discrimine è tra atti pubblici, che riguardano altri, e atti privati, che riguardano noi, e lo scrivere, il dipingere, fotografare, fare giardinaggio o qualsiasi altra cosa che per noi abbia importanza è un messaggio privato, sintetico, che descrive una singolarità complessa, ma a suo modo esplicita, fatta di cura e di rappresentazione. E così il piccolo cessa di essere tale e diviene grande, perché ciò che facciamo ha sempre una sua grandezza. Forse ci rattrista un poco che questo modo piccolo di esserci, non venga colto, che si pensi ancora di prenderci in giro raccontandoci storie sulla capacità di fare cose grandi assieme. Epperò nessuno le addita più, si mette insieme a noi a costruirle, non si considera che sono tanti piccoli comportamenti a costruire il cambiamento vero. Si preferisce il racconto del futuro che magicamente si compie piuttosto che farlo. E tutto questo diventa rumore, chiacchiera.
Ecco, il nostro piccolo importante include l’amore, non la chiacchiera. Non è difficile capirlo
il vaso dell’orrore non si colma
Da qualche giorno i telegiornali li guardo di sfuggita, ho la sensazione di un’informazione che scivola nell’eccesso e poi nel pornografico. Era già accaduto con il covid, che esiste ancora ma ormai si fa finta di niente, prima ancora c’era stato il mostrare altri profughi e un altro cimitero fatto di barconi affondati e acqua. Esiste ancora, ma non fa notizia. Ancora prima le scene dell’aeroporto di Kabul, le notizie di eccidi, ancora immagini terribili e pornografia dell’orrore che rende la morte qualcosa di distante, privo di significato umano. Tutto è ancora in corso ma non fa più notizia come accade allo Yemen e alla peggiore catastrofe umanitaria per uomini, donne e bambini del nuovo millennio. In Yemen c’è una tregua di un mese, la notizia è stata data con pochissime parole e alla fine di un telegiornale. Questa incapacità di reggere i telegiornali nasce dal fatto che per giorni ho sperato che la guerra finisse, che l’orrore non fosse tale, che non fosse uno schierarsi di esperti e tifoserie. Speravo che si ritornasse al tema, ovvero che le morti derivano dalla cecità di chi non pensa che una guerra ha come effetto collaterale, la morte del nemico e dell’amico, dell’innocente e del reo. Poi ho capito che non era la guerra la notizia, ma che era riemersa potente la ferocia, l’istinto a uccidere e distruggere, ciò che sembra non avere valore: la declassificazione dell’umano a cosa.
Questo mi rende consapevole, se ce ne fosse bisogno, dell’assoluta malvagità della guerra, dove l’eroico non esiste in quanto esso stesso portatore di morte, mentre predominano gli atti di ferocia che essa porta con sé. E ancor più mi rendo conto che dietro ogni vita spezzata c’è una responsabilità: poteva non accadere e non è frutto del caso. Questo non mette tutti nello stesso piano, chi intenzionalmente uccide è certamente malvagio, chi si difende è trascinato in qualcosa in cui la sua capacità di bontà è fortemente ridotta. Quello a cui non riesco a togliere il pensiero, è la vita spenta di chi non c’entra, ucciso accanto a un cartoccio di cibo e una bicicletta, col suo pensiero interrotto per sempre, gli affetti recisi, e tutto questo nell’indifferenza con cui ciò è avvenuto.
La somma di ciò che sentiamo, affetti, desideri, progetti, amori, vita è uguale ovunque e quando essa viene spenta si crea un vuoto che nessuno può riempire. Neppure il pentimento o la responsabilità. Per questo la mano che spunta tra la polvere, i corpi buttati come fagotti e lasciati per giorni nelle strade, gli stessi soldati uccisi da un cecchino o bruciati in un carro armato, devono riportare la guerra sui sui effetti sull’uomo.
Di queste persone, chi pensava per davvero che la vita potesse finire in quel modo e quelle persone su cui indugia l’obbiettivo, due mesi fa avevano altri progetti, attese, pensieri, speranze. Neppure dieci minuti prima di morire, lo pensavano anche se ormai erano preda della paura, cercavano di farsi coraggio e di avere speranza. Innocente è colui che non solo non ha colpa ma che si fida dell’umanità altrui. Per questo ci sono morti che pesano di più, perché contengono la fiducia nel vivere. Adesso è tutto un dibattere sulla tecnicità, sull’efferatezza dei crimini, come se una scheggia o una sventagliata di mitra fossero tollerabili. Ciò che non si vuol capire è che scompare la vita e quello che essa contiene, una vuoto che non potrà essere colmato. Chi è per la pace, non è equidistante e soprattutto non è insensibile alla vita. C’è un aggressore, una responsabilità, un aggredito che si difende, ma ciò che non dobbiamo scordare è che sono le vite a contare, che non si cancella un futuro senza che vi siano dolori immani e conseguenze che mutano il corso delle famiglie e delle loro storie. Questo è il tema vero: gli uomini non sono mai numeri e tantomeno oggetti. Ogni vita che è stata troncata conteneva un futuro, come ogni umano desidera sia per sé. Un futuro che le immagini non evocano, perché si pongono il fine di suscitare l’orrore non di far pensare e di provare dolore. L’orrore non ha un avvenire, spesso diventa voyerismo e non cambia gli uomini, solamente li incattivisce e li rende insensibili. Pensate alle tante immagini iconiche che si sono succedute in questi anni: quanto ci hanno cambiato? Bisogna tornare all’uomo e al valore della vita, perché sono necessari per convivere e si sono persi entrambi . Anche dentro di noi abbiamo lasciato che la distanza rendesse meno tragico ciò che accadeva, che i morti e le torture altrove, gli effetti collaterali fossero tollerabili.
Uscire dalla guerra ora è una necessità per non moltiplicare l’orrore, ma uscire dalle giustificazioni della guerra è un processo che è personale e collettivo, una consapevolezza comune che la considera come un male assoluto perché è assoluto ciò che provoca. Per questo non basta schierarsi, ma capire che eradicare la guerra riguarda tutti, chi è in guerra e chi la guarda.
facilmente la notte scivola nel giorno

Nell’abitudine a togliere il fastidio del ricordo c’è il senso degli anni bianchi, nascosti accuratamente assieme alle passioni e ai sentimenti d’allora. Aver deciso significava prendere una strada, non eliminare i desideri e ciò che promettevano nel mutare la vita, è il timore d’aver sbagliato che fa dimenticare? E perché ha trascinato con sé l’attesa e la gioia delle estati calde e fresche d’acqua di canale o di mare, le primavere disposte attorno a una Pasqua ricca di verde e di paure per la prossima fine della scuola. Come se lo scegliere allora avesse sporcato la coscienza e reso il dimenticare lieve e pervicace per non tenere come riferimento il piacere mischiato alla paura di crescere. E’ stato un ripulire il pensiero che eccede il presente a difenderlo dal senso d’aver perduto anziché vissuto.
Le notti erano brevi senza ora legale, interessanti e ricche di fresco e di profumi, di pietre calde e di scalini in cui sedersi a parlare o stare a guardare le nuvole gialle illuminate dalla città. Attorno c’erano persone che s’alzavano molto presto, prima dell’alba erano in piedi con pane e caffelatte sulla tavola, la porta chiusa piano, l’odore dei corpi che dormivano nelle stanze sempre troppo piccole. Erano autisti d’autobus, ferrovieri, facchini, macellai, spazzini, baristi di bar per pescatori e i cacciatori di valle. Il chiarore distante non diceva loro, nulla della fatica che attendeva il giorno. Per me tornare all’alba o alzarsi a quell’ora, era una libertà, un andare altrove, per loro era la vita assegnata e mai scelta. Conoscevo una città diversa, strade vuote, portici immersi in laghi di buio con le piccole luci dei campanelli, fornai con la serranda a mezz’aria, la porta semi aperta da cui usciva il profumo del pane. Bastava battere sulla serranda, una moneta e la crosta calda e croccante del pane riempiva l’olfatto e il gusto. Attorno vedevo la doppia luce, quella del giorno che si alzava e quella elettrica della notte che voleva un luogo per rintanarsi a meditare tra il silenzio e le case immote. I fari delle rade auto e la luce delle biciclette che correvano al lavoro evitando una rotaia o una buca, erano l’annuncio di una confusione che ci sarebbe stata ma ancora dormiva.
Ti raccontavo di queste persone e mi vergognavo supponendo la noia dei miei discorsi, sembrava t’interessassero per riderne, gli ultimi approcci alle prostitute, la faccia o il vestito di chi ancora era alzato per un desiderio, ma il resto che mi prendeva dentro, lo perdevi in quello sbadiglio da tavolino di bar, tondo e freddo come il cicaleccio che c’era attorno. Di notte non parlava nessuno o quasi, chissà come si poteva descrivere bene, il silenzio fresco in cui c’erano solo ordini, gridi improvvisi, rumore di ferro, di freni, odore di gomma mescolati nell’aria che portava i rumori. Tolta la civiltà c’era il profumo degli alberi che fiorivano nei giardini segreti di questa città così gelosa dei suoi spazi e delle proprietà. La luce lasciata accesa, il movimento dietro le tende di una finestra, le case che non dormivano.
Come c’era qualcosa allora che urgeva, rendeva difficile il sonno e mi spingeva fuori, ci fu poi una svolta che con la biacca ha accuratamente cancellato quelle notti, il sentire, le paure di un crescere che si spartiva tra la necessità e la libertà. Ciò che ora emerge dalle crepe che la vernice del dimenticare non riesce a nascondere, sono tracce di colore. Il blu del minio, così simile a quello del cielo di notte che avrei trovato in quella scuola mai desiderata, il suo stendersi sottile sul piano di ferro levigato a specchio, la prova del lavoro fatto e l’insoddisfazione perché c’era sempre un eccedere che si mostrava per essere tolto. Era un provare in cui i desideri dovevano combaciare con il fare, i miei non combaciavano mai. C’era il grigio e l’odore del ferro, il rumore strusciato della lima da mazzo, quello discreto della lima piatta, l’odore della stoffa della tuta con l’afrore acido del grasso e del metallo. Era un attendere di uscire e poi fuori, all’aria, correre verso qualcosa che fosse diverso. Dalla biacca emerge il sapore delle lacrime, il cuore stretto dal buio, la sensazione di essersi perduto. Non smarrito, perduto a se stesso, la necessità di una riva, di qualcuno che ti creda, che non ti tiri un pugno o dei sassi, che non s’avvinghi in una lotta dove la camicia bianca diventerà marrone di polvere. Dalle crepe emerge un odore di sera e di soldi risparmiati e scialati per un poca d’amicizia che arrivi a fine settimana e forse oltre. La pizza bollente, la mozzarella, la bocca sporca di pomodoro e attorno tutto un mondo di grandi che fanno altro, si muovono, chiedono di essere lasciati in pace. Il freddo del pavimento della chiesa, le parole del prete, il gioco, la lotta a non farsi trascinare dove c’era buio, paura e sporco. E di giorno la scuola e la paura di crescere dove non c’era la giusta terra. Pianta senza criterio, destinata ad essere potata senza remissione, senza un fine che capisse. Così si capisce che avevo chi mi amava ma ero solo. Non capito, sconcluso, portavo pesi che non erano miei, ed ero solo. Fuorché la notte e con i sogni, lì ero libero e vorrei ricordarla bene questa libertà ch’era un andare, un fuggire senza il coraggio di non tornare. Vorrei riportarla fuori da quello strato di vernice che l’ha occultata quella libertà, anche se sento che ha spinto verso dentro il sentire e l’ha mescolato con lo scorrere successivo dei fatti della vita, invece emergono frammenti, colori che stranamente si combinano subito con ciò che sono. Persino gli odori trovano le corrispondenze, ma non basta perché non è tornare indietro e rimettere in ordine le scelte, fare altro e altrove. Questo è sogno e utile com’esso sa essere ma il kairos, d’altro parla, per questo odora sempre di futuro e d’intuito nel cogliere l’occasione. E forse per questo si bianchettano pezzi di vita, anni, perché in altra forma si ripresenteranno, ci meritiamo infinite occasioni e sarà quello il momento di decidere se c’è del nuovo in noi oppure è davvero passata la notte.
correzioni di rotta
Cara L. credo tu sia in qualche parte degli Stati Uniti o magari in un’isola del Pacifico in qualche base astronomica. Di fatto, a parte qualche accenno di comuni conoscenti, non so più nulla di te dal viaggio a Lviv, e dal tuo stage in Germania presso il Comune gemellato. Conoscevi il russo e questo te lo invidiavo molto, pur sapendo che era stata una fatica non da poco per un’americana. Eri la nostra interprete della delegazione che ci vide assieme a Lviv. Ora anch’io la chiamo così, allora era per me Leopoli ed ero sicuro che fosse il nome giusto per una città che aveva un leone nello stemma e che aveva cambiato nome spesso girandoci attorno. Mi piacerebbe adesso sapere cosa pensi di questa guerra in corso e cosa di essa arriva dove sei. Mi dicono che negli Stati Uniti è percepita come lontana e che altri sono i problemi che attraggono l’opinione pubblica che ragiona di se stessa e del proprio Paese. La pandemia ad esempio, so che è al centro di non poche discussioni e attenzioni e così l’attesa delle elezioni di medio termine. Insomma la considerate una questione europea e vi immagino alla finestra in casa e guardate fuori ciò che accade. E così vedete l’Europa, terra di vacanze ora rarefatte dalle limitazioni del Covid 19, ma anche abitata da popolazioni strane e poco comprensibili nelle loro litigiosità. In fondo se voi siete gli Stati Uniti d’America, noi, Inghilterra a parte, non siamo mai riusciti metterci assieme per davvero pur avendo ben più interessi di voi per farlo. Anche la lingua comune che manca non ci ha aiutato e tutti siamo gelosi dei nostri dizionari. Ne parlavamo allora e io ti dicevo che questa era una ricchezza non un limite, adesso la tecnologia ci aiuterebbe a essere diversi eppure assieme. Ma non è di questo che volevo parlarti, credo che siamo stati sempre distanti e che le cose non si misurano con la bellezza posseduta o con la potenza militare, ma con il sentire comune. Se non riusciamo a sentirci noi vicini, come possono farlo gli altri? Poi per partecipare alle vicende di un continente non è solo questione di sensibilità, ma di distanza e ci deve essere una legge emotiva per cui la partecipazione diminuisce con il quadrato della distanza fisica. Se insegni Tedesco o germanistica in qualche università, probabilmente sei informata e attenta per ciò che accade in Europa, ma se la tua passione è rimasta per l’astrofisica, allora non credo che siamo particolarmente interessanti.
Assistemmo nel teatro dell’Opera di Lviv a un Barbiere di Siviglia, cantato in russo. Il baritono era bravo, il conte d’Almaviva appena sufficiente, Rosina discreta e poco birichina. Fu una piacevole sorpresa essere in un edificio progettato da un italiano e immergersi in una realtà che era così differente da quella che conoscevo. Non c’erano che pochi vestiti da sera e l’odore di naftalina si mescolava con il taglio un po’ d’epoca, ma il teatro era gremito e l’attenzione e il calore, altissimi. Guardavo le persone, nel foyer, mi sembravano tutti russi, anche se i lineamenti erano sia europei che euroasiatici, forse era perché parlavano russo quando lo feci capire tutti si affrettarono a spiegarmi che non era così, che le etnie erano differenti e forti, ciascuna orgogliosa della sua cultura e lingua ma tutti erano ucraini. Fosse solo per le religioni presenti: tutti cristiani ma Uniati o Orientali i cattolici, gli ortodossi reduci da uno scisma recente tra russi e greci, poi evangelici e protestanti di varie confessioni. Solo gli ebrei erano pochi, in gran parte finiti nello sterminio della Shoah o emigrati. Mi sembrava strano tutto questo fervore religioso per un Paese che aveva avuto l’ateismo di stato come interpretazione delle questioni spirituali, fino a pochi anni prima. Le chiese erano piene e la domenica mattina i fedeli erano in gran numero sin nel sagrato che ascoltavano le messe. Cose mai viste in Italia e neppure da te, mi dicevi. C’era stato un riavvicinarsi alle questioni spirituali che forse per chi abitava la città era naturale, per me era la reazione a tanti anni in cui era mancata la libertà di risolvere i propri problemi spirituali, pubblicamente e appartenendo a qualcosa.
Mi piacerebbe sapere cosa pensi ora dell’Ucraina oggi. Eravamo assieme all’università americana, quella più a est, dicevi con orgoglio, quando iniziarono le manifestazioni e gli scontri con il movimento arancione. Ci capivo poco perché parlavo con professori universitari, con persone di cultura e artisti che avevano stipendi davvero ridicoli, ma una serie di servizi gratuiti, compresa la casa, anche se mancava la manutenzione dappertutto e gli infissi, i muri, avevano bisogno di cura e l’acqua non c’era tutto il giorno dappertutto. Pensavo, quando parlavamo nei bar con i nomi italiani e il caffè espresso, che giustamente l’occidente che vedevano attraverso le televisioni o nei film, era un eldorado per chi faceva fatica ad arrivare alla fine del mese. Ma l’Università privata costava 10,000 dollari all’anno e non capivo come si sarebbero potuto avere un diritto allo studio per tutti. C’era molta corruzione e molte rimesse dall’estero, ma poteva bastare per costruire un paese? E quali erano le idee che non lo rendessero un paese in cui trasferire le lavorazioni a basso costo e nocive approfittando della quantità di manodopera a basso prezzo? Poi c’è stato un po’ di tutto, rivolgimenti, rivoluzioni vere o fasulle, interessi crescenti che trasformavano il Paese. In meglio o peggio, non so, ma certamente in fretta. Sono tornato altre volte, ma il mio progetto non reggeva la situazione e certamente non ero all’altezza di portarlo avanti, però vedevo le cose cambiare, ho ascoltato altre opere a teatro e le mise erano più eleganti. Insomma non era la musica ma anche una nuova agiatezza che voleva mostrarsi. Le auto erano tedesche e c’era una notevole presenza di grandi società occidentali. Non faceva per me e ho cambiato itinerari.
Ora sono impaurito e perplesso di quanto accade in luoghi che ho un po’ conosciuto. Impaurito perché capisco che le cose sono sfuggite di mano e che gli interessi e la partita tra una concezione del mondo basata sui poteri e le sfere di influenza si svolge altrove. Un gioco fatto di azzardi come negli scacchi, che possono sacrificare l’uno o l’altro pezzo in vista della vittoria finale. Negli scacchi la vittoria o la sconfitta vede sempre la scacchiera con pochi pezzi, ciò che manca è davanti a ciascun giocatore e servirà per la prossima partita, ma per il momento sancisce ciò che è già avvenuto sul campo. In questo trae origine la mia paura, che l’intera Europa da pezzo fondamentale, da Re, sia diventata una componente del gioco che è sacrificabile in vista di un vantaggio futuro. E l’Ucraina è solo un pezzo della scacchiera.
La perplessità, invece, si alimenta con la differenza tra ciò che vedemmo di quel Paese e la rappresentazione che ora ne viene data. Di certo l’aggressore è la Russia e ciò che viene invocato a giustificazione non ne ha ed è enormemente sproporzionato al costo di vite, sofferenze, distruzioni che stanno avvenendo. Chi viene colpito non c’entra nulla e se non si è voluto risolvere diplomaticamente le questioni in campo, sicuramente c’era un elemento che ha a che fare con il potere e la sua capacità di ignorare gli uomini che verranno sacrificati. Se come penso è una dottrina condivisa tra concezioni diverse del potere, allora m’impaurisco ancora di più perché quando verrà risolta questa guerra, le case ricostruite, pianti mai a sufficienza i morti, non ci sarà una ragione che s’acquieta ma il tutto sarà vissuta come un episodio di qualcosa che continua e che usa sempre gli stessi mezzi per essere risolto, cioè le armi.
Tu mi parlavi dell’oscurità che aveva seguito la seconda guerra mondiale quando il riordino delle capacità delle singole nazioni di essere Stato e di vantare reali libertà erano state subordinate a un nuovo ordine mondiale con un confine dove si scontravano due sistemi economici: gli alleati nemici, li chiamavi, e pur facendo affari tacitamente, tenevano come propri e coincidenti, mercati e potere d’influenza. Insomma una lotta tra botteganti o tra bulli che volevano avere il predominio sull’intero quartiere il tutto governato dal denaro e dal potere che consentiva di farlo. La dissoluzione dell’ U.R.S.S. come potenza ideologica aveva reso appetibili gli immensi mercati dell’est. Per me la cultura era un bene imprescindibile, unificante che doveva unire i popoli mantenendo le diversità. Tu sorridevi e mi dicevi ch’ero un sognatore. Mancava molto a questa prospettiva, gli stipendi in Ucraina erano a 100 dollari al mese, ma c’erano già le caffetterie piene di persone a qualsiasi ora, si facevano affari senza ancora un codice commerciale, per acquistare una casa bastava pochissimo oppure serviva tantissimo, dipendeva da chi si conosceva. Avevi ragione, credo che in questi anni le cose si siano normalizzate e occidentalizzate, un Paese che aveva il 50% del PIL assicurato dalle persone che erano emigrate pur essendo il granaio d’Europa e avendo risorse minerarie e industria pesante, doveva riassestare in fretta la propria composizione sociale e assomigliare a quei paesi in cui badanti e operai lavoravano e mandavano a casa buona parte di ciò che ricevevano. Ora però il mondo è cambiato e c’è chi pensa di conquistare il mondo con la tecnologia e con i mercati e pian piano rende tutti dipendenti oltre a togliere ambiente e aria, terra e acqua. Non so come l’Ucraina entri in tutto questo e neppure capisco dove sarà la prossima crisi, per questo mi interesserebbe capire cosa ne pensi, cosa pensano i tuoi colleghi nella tua Università o i vicini di casa. Se sanno come il tuo Paese si muoverà in questa nuova scacchiera che non ha più gli stessi pezzi. Ora le pedine sono antichissime e hanno un suono secco quando vengono messe sul terreno di gioco. Anche la scacchiera ha un’estetica e un legno che la esalta come se ciò che si gioca lo meritasse, non come noi straccioni europei che andavamo a giocare alla guerra con le scarpe di cartone. Sarà il mahjong o forse qualche altro gioco, ma in cui non mi piacerebbe essere né giocatore né giocato.