cuore di pezza

Un cuore di pezza, che facilmente s’aggiusta. Ad impunture grosse oppure a serrati punti croce. Un cuore rosso fuoco, morbido al tatto, favorevole alla tenerezza, propiziatorio nel fraintendere, generoso nel darla a bere. Un cuore che si preoccupa dell’altro scegliendo per se solo, che sconta i suoi tradimenti qualche volta verso sera, che trova le sue ragioni e le abbraccia comprensivo. Un cuore che si ripete che la vita è prima di tutto sogno e poi risveglio.

Un cuore autonomo, con sentimenti morbidi, uso all’uso, perché di cuore si vive e prospera. Un cuore che ragiona, confortevole, che scinde mantelli, novello san Martino, ma non scende da cavallo se non c’è motivo. Un cuore che accoglie il razionale, gli riserva il giusto posto a capotavola, si ricorda che rompere è facile, aggiustare difficile, non ferire, impossibile.

Un cuore per l’assedio, la carica e il corpo a corpo, ma anche per l’ozio e la distanza. Un cuore che accolga il nome dell’odio e dell’amore e li distingua bene, ma non dia soverchia importanza. Né all’uno né all’altro. Un cuore che cresca col tempo, che sia portatile e pronto alla bisogna. Un cuore da gettare oltre l’ostacolo per vedere l’effetto che fa.

Un cuore che ben nuota tra i sentimenti, che usa la solitudine come arma, che sa che è cambiato il tempo e dura tutto troppo poco. E allora si fa una ragione prima d’una scelta, perché sa che gli addii sono così frequenti che l’abitudine li rende accettabili. Ma il cuore serve rosso, morbido e presentabile, meglio se con qualche cucitura ben in vista. Serve a far consolare, a rendere definitivo il relativo, eterno il momentaneo, reale l’immaginario. Serve assai un cuore di pezza, peccato che chi lo possiede non lo ceda e chi lo vorrebbe non riesca a costruirlo.

ego ed altri amori


Dominati dall’ego oppure alla ricerca dell’ego, sicuri, insicuri e mai affidabili. Com’erano i tuoi uomini? Quelli che hai amato, quelli che ti hanno amato. E che non sempre sono coincisi. E gli amori sconclusi, asimmetrici, quelli che hanno aperto porte e scavato voragini, e poi, come per magia tutto si è rinchiuso, com’erano? Chi è rimasto dentro, chi ha camminato sopra e avanti?

E com’erano le donne che hai conosciuto? Come ti hanno cercato, tenuto, respinto, amato? Dove finiva la ricerca dell’ego, velato, proposto, sbattuto in faccia, offerto o negato. L’hanno cercato in te, condiviso assieme, oppure accuratamente separato.
Quanta fragilita, fraintendimenti, abbagli dell’intuire, offerte sconsiderate, generosità inverosimili. E riflessioni a posteriori perche cio che è verosimile è logico e non si offre facilmente, ma la logica fa a pugni con l’amore. Quella consueta, almeno.
Cercando di evitare di essere numeri primi, ci si incontra e qui le storie possono iniziare o finire. Ma da allora, comunque,  c’è un prima e c’e un dopo e ognuno scrive il suo, ma prima ci si incontra ed è il momento dell’ego. Della sua epifania.
“Fammi capire, non chi ho davanti e vedo, ma se dovrò subire oppure condividere, se mi verrà chiesto d’essere altro da me. Tu che sai, fammelo sapere, ammaestra per tempo il mio intuito, fallo sbagliare per generosita eccessiva, ma non all’inizio, dopo.”
Bisognerebbe recitare i mantra quando è ora e ad alta voce. Ascoltarsi perche le parole facciano effetto. Sconcertarci perche l’ego emerga e dica qualcosa e poi, prima che l’amore dilaghi, muti i segni delle equazioni, aiuti a decidere se restare o andare, mitigando il fato. Ma in realta non si decide mai nulla, accade e basta. Allora preferisco i generosi agli avari, perche i primi a volte soffrono, sono traditi, ma qualche volta sono felici, i secondi, invece, mai.

c’eravamo tanto amati e adesso?

Ogni anno, con le feste torna c’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Penso che da qualche parte ci sia un programmista RAI, sfuggito al nuovo renziano e che ha più o meno la mia età. Un “comunista” cinefilo, di quelli diffusi fino agli anni ’80, che erano attenti a ciò che accadeva nella realtà ed erano così audaci da proporre una soluzione alle sue storture. Scomparvero travolti da improvviso successo, alcuni, e da stanchezza immane gli altri, ma non il nostro programmatore cinefilo, che nascosto nel suo lavoro e lo usa subdolamente e cosi tra mille porcheriole  continuerà a mandare questo film finché non si accorgeranno di lui, oppure finché non finirà il suo interlocutore, ovvero la mia generazione. Penso sia il suo memento e la vendetta lanciata contro chi ha sotterrato gioventù, passioni e voglia di cambiare.

Premetto che è un film che mi piace ancora molto, e non è l’unico con un soggetto che ricorda come una generazione conquistò, costruì, sperò, e infine si conformò. Anzi ci fu un filone che produsse letteratura, film, saggi, quadri, statue, musica.e che parlava di speranze perdute.

Però questo film che ho visto tante volte, non riesco più a vederlo, mi fa male.

Mi fa male perché racconta delle speranze deluse, delle lotte apparentemente inutili, dei compromessi pagati con il potere, degli abbagli, della buona fede e di quella cattiva, del fallimento e del successo, insomma della vita e dell’amore che sembrano certezze e spesso non sono tali. Già, vita e amore, cose molto concrete quando si mischiano nel costruire le scelte e che fanno volare ma anche molto sanguinare.

Mi fa male perché mi sembra abbiano vinto gli altri, quelli che sono arrivati dove solo l’io conta e il noi l’hanno perso per strada.

Era davvero tutto finto, tutta illusione? Davvero non c’era differenza tra una parte e l’altra?

Non so se il potere sia triste, so che ha la capacità di rendere tristi, so che la poverta non è  mai felice, so che chi crede in qualcosa di piu grande e lotta per darla a sé e agli altri, è felice. Spegnere le speranze è una colpa contro natura, ma è quello che è accaduto per quelle grandi. Ora restano le piccole speranze rintanate in un io che fatica a diventare noi.

Mi pare che quello che non mi piace, sia il prodotto di quelle disillusioni, che la mia generazione abbia trasmesso la propria sconfitta e che così oltre a far vincere i furbi intelligenti abbia reso più difficile l’amore. Ma tutto questo è preistoria, contatto fisico, speranze comuni, attese, lotte, che nel virtuale si chiudono con un mi piace, oppure con uno scontro che si cancella con il successivo. Non so come sarà  il noi al tempo del virtuale e dell’adesso, non so piu che dimensione abbia il futuro che si racconta con i tweet. Non lo so e anche se tutto questo non c’era quando il film fu girato, anche allora si chiudeva con una disillusione triste. Un sentire che conosco ed è forse per questo che non riesco a vedere più il film per intero.

P.s. La canzone partigiana del film era davvero bella e pure la cantammo spesso, solo che non era partigiana ed era nata molto dopo in occasione del film, ma si poteva credere ci fosse continuità e che non fosse davvero finita un’epoca.

essere straniero

Cosa si prova a sentirsi straniero lo conosciamo tutti, fa parte dei ricordi dell’infanzie e dell’adolescenza, è una sensazione che si è rinnovata ogni volta che in un gruppo non si è sentita l’attenzione e l’accettazione. Quindi è esperienza comune il sentirsi intrusi, isolati quel tanto per capire che dopo ogni atto, ogni discorso e incontro, quando la porta si è chiusa, dietro, i discorsi continuano. Si sa che inizia un chiacchiericcio, un manovrare e togliere consistenza a ciò che con fatica è stato elaborato e proposto. Le barriere invisibili, non sono poi tali, si vedono e si sentono. Allora la sensazione è quella di provare passioni inutili, d’essere un ghiribizzo di congiunzioni astrali che hanno portato in quel posto per uno strano scherzo del caso, e c’è la certezza che tutto si ricomporrà appena ce ne andremo.

Tutto tornerà come dovrebbe essere: tra noantri. In quell’immoto equilibrio in cui si aprono voragini domestiche, destini e stelle cadenti, ma tutto in un microcosmo dove le cose devono avvenire. Eppure lo straniero porta sempre un’altra visione delle cose, non ha le stesse abitudini, ha libertà non ancora adeguate alle consuetudini. Dovrebbe essere tenuto in buon conto, spinto a dire, fare, capire, non isolato ma reso parte. In fondo lo straniero è una ricchezza possibile, e i forti, quelli che davvero governano le cose, lo sanno e s’appropriano del nuovo che ne viene. Persino i pupari utilizzano il nuovo che porta lo straniero, perché sanno che egli è debole, non ha reti, né sodali in grado di difenderlo, si muove con ingenuità intelligente perché ignora le regole non scritte e vuole apprendere.

Questa sensazione dell’estraneità mentre rafforza la volontà di fare, però stanca. Ci si chiede ragione della fatica (questa è la domanda di chi non ha ambizioni personali), si punta sul lavoro, sul suo successo, sperando che tutto vada per il giusto verso. È un navigare in un mare infido e quel giusto verso è sempre controcorrente, fa i conti con una vischiosità reale di cose non dette, di doppiezze nel dire, pensare e fare. Insomma navigare stanca.

Lo straniero non è migliore, è semplicemente una diversa visione delle cose e se questa viene composta in un diagramma delle forze, la realtà futura sarà diversa, altrimenti ripeterà se stessa. E il diverso, checché se ne dica, è sempre migliore della monotonia atona di ciò che non muta.

un albero

Ti sei lasciato scavare, piano, con gli anni, da uccelli che inseguivano insetti,

insetti che volevano cibo e poi talpe, topi,

animali che correvano e lenti innamorati.

Questi ultimi toglievano un po’ di pelle, scrivevano date, promesse, tracciavano cuori.

Era corteccia, ma era pelle, respirava,

ricca d’amore, sensibile al vento e alla pioggia, si godeva il sole e l’ombra che arrivava nel giorno,

fino al fresco della notte.

Rabbrividiva, nel sentire una schiena che si posava,

e una parola incisa la faceva trasalire. 

E in questo imparare, il corpo s’è curvato ad accogliere,

a tenere, aria, vita, acqua, amore.

Di questo essere, vorrei dar testimonianza,

del tuo accogliere,

ed essere storia d’abbracci, senz’altro dire. 

Perché l’abbraccio è da solo una lingua,

una pazienza,

una forma dell’ amore.

ma dove stiamo andando?

Qualche giorno fa sentii una delle poche analisi davvero nuove sui fatti di Parigi. Un orientalista e politologo francese, Olivier Roy , (allego il link)  diceva che non era lo jihadismo, la radice di questa violenza inusitata e cieca, ma la rivolta generazionale dei figli musulmani (o anche atei) contro i padri e la loro quieta e integrata religione portata in occidente. Per questo i terroristi avevano spesso un percorso che passava dall’ essere prima conformi alla società in cui vivevano, in pratica, buoni figli che passavano alla negazione e alla ribellione assoluta, con una deriva nichilista che era strumentalizzata dai movimenti estremisti, ma che era anche il rifiuto della vita propria e altrui.

Le vite degli altri perdevano senso perché la propria vita aveva perduto senso, questo motivava la determinazione sistematica dell’uccidere senza emozioni per togliersi, infine, ala vita senza paura.  E questo fenomeno non riguardava solo l’Europa, ma gli Stati Uniti (a partire da Colombine), la Norvegia di Breivik con la strage di Utoya, il Giappone e l’attentato alla metropolitana di Tokio, quella di Madrid, la strage del teatro a Mosca, quella di Beslan in Ossezia del nord  e chissà quanti altri luoghi diversi da quelli in cui il senso comune non si preoccupa di indignarsi in Africa, Medio Oriente, Filippine, Pakistan ecc. ecc..

Quindi da tempo un nichilismo serpeggia per il mondo e prende varie forme, ma ha giovani come protagonisti. Il rifiuto dei padri e di ciò che essi avevano prodotto. Una richiesta non espressa di cambiamento radicale. Questo non giustifica nulla, ma pone un dubbio sull’efficacia dell’affrontare le crisi con la sola forza. Cioè se si distruggerà il califfato dell’Is, se in Libia si riporterà una parvenza di ordine e così in Somalia, questo basterà per eliminare il problema oppure si deve vedere cosa non sta funzionando in una visione globalizzata del mondo che rende tutto, fintamente, occidente?

Ogni attentato è il rifiuto della speranza di cambiare davvero, come far capire che esiste la possibilità di un mutamento e che questo può essere non violento?

http://www.internazionale.it/opinione/olivier-roy/2015/11/27/islam-giovani-jihad

care amiche e cari amici

Care amiche e cari amici, vorrei ringraziarvi per un numero che è apparso tra le statistiche, ossia che i commenti sono più di 10.000. È un numero un po’ farlocco perché da esso dovrei togliere il circa un terzo di risposte mie alle vostre considerazioni. Non lo faccio anche perché senza le vostre considerazioni sarei rimasto al mio testo e invece, sempre, mi avete portato un po’ più avanti di esso. Il fatto di saper bene di poter al più esprimere un punto di vista, mi rende prezioso il vedere degli altri. Tutto questo mi spinge a ringraziarvi di più e anche se non ho sempre risposto (il rapporto non è 50-50) comunque avete continuato a suggerire, dire, comunicare.

Appartengo ad una cultura in cui il comunicare ha sempre qualcosa di chi comunica, per questo anche non conoscendo quasi nessuno di voi, personalmente, non riesco a sentirvi virtuali e ogni volta che ci si incontra con le parole, mi piacerebbe proseguire, capire di più, prendere un caffè assieme. Questo vi fa essere importanti per me e se anche borbotto per mio conto, il fatto che ci siate mi rende importante.

A volte penso che in questo luogo, ho attese. Non è lo stesso ovunque, anzi, solo qui il discorso si approfondisce, scava, cerca. Non sempre ciò che per me è importante, lo è anche per voi. Questo mi fa pensare e pormi domande: a chi sto parlando? chissà chi ascolta? e se scuote la testa ha ragione oppure no? Vi sembrerà strano ma queste domande non mi lasciano indifferente, anche se scrivo quello che penso e parlo con me stesso anzitutto. Significa che ci siete anche silenti.

Bene. Grazie a tutte e tutti, si continua, sperando di non perdere troppe presenze lungo il cammino.

uggia

Oggi la giornata è particolarmente uggiosa, cielo grigio su, foglie gialle giù.  E non sogno California.

Ma cos’è l’uggia che è uscita dalle parole usate e dalle possibilità reali delle vite di corsa? È una condizione umorale del flâneur, del rentier, del fannullone che oggi si chiama neet, oppure essa è scomparsa con l’età ed è stata riservata ai bambini, che corrucciano il labbro, diventano insofferenti e gridano : mi annoio!

Di cosa, di che?

Oblomov frequentava l’accidia, che è anch’essa scomparsa dai vizi, ma era comunque più attiva dell’uggia. Perché l’uggia è l’ombra degli alberi che ammalora le piante sottostanti. Cioè toglie loro la luce e la possibilità di crescere appieno, di godere della propria natura. Se poi l’uggia la portiamo nel sentire, essa diventa la noia che si accompagna ad una leggera inquietudine. Un non saper che fare accompagnato da un senso di incompiutezza. E quindi, forse, colpa. Ma è tutto leggero, può mutare se qualche sole si accende e ciò che non è concesso alle piante, il muoversi, a noi è dato, quindi per uscire dall’uggia è necessaria una luce. Quale essa sia ciascuno può scegliere. Un piacere momentaneo, un’attenzione improvvisa, un cercare nel sensibile oltre l’apparenza.

Non avendo ricette, mi tengo la parola e la scavo per coglierne l’essenza, vedo che essa mi riguarda quando il tempo dell’impegno si sospende, quando esso s’associa al mettere da parte e al tempo stesso attendere una soluzione che mi illumini. Devo mettere argine prima che questo sentire diventi molesto, cerchi colpe dove non ci sono. Abbandono le cose che non attraggono, non devo stare qui, esco e qui l’uggia aumenta. Sono le luci di natale che ormai invadono ovunque. Non è la luce che cerco, sento odore d’affari, di festa fasulla. Il kitsch è così sparso da suscitare repulsione. Capisco che l’uggia si dissolve e sta mutando in rivolta, non sopporto, ma neppure mi rintano. Sono costretto a cercare più a fondo. M’innamoro di un libro, lo apro tra l’odore di carta delle piccole librerie, e trovo :

se un giorno, all’improvviso,

un’anima ordinaria- per ragioni

imperscrutabili- si inceppa,

il canto di lode verso

il mondo più non sale.

Un malessere molle

e penetrante la invade –

corpo e sensi, una nausea

indefinibile l’assale.

(VIII- Franco Marcoaldi, Il mondo sia lodato ) 

Allora non sentendomi più solo, leggero, cerco il senso, non dell’andare, dell’essere, del fine, ma quello semplice dell’essere insieme purché anche in silenzio ci si parli. E per miracolo, l’uggia scompare e resta solo la parola.

https://www.youtube.com/watch?v=0peXnOnDgQ8

sono grato

Del grande e glorioso cuneo di terra tra veloci strade ,

del campo dissodato a grosse zolle brune,

della vista che finalmente corre

fino alla lontana fila di casette,

e oltre,

sono grato.

Anche delle distanti linee nette,

degli sbilenchi ricoveri d’attrezzi,

del necessario costruir di bimbi corrucciati di fatica,

sono grato.

Del riposo da una civiltà violenta,

dal profitto esagerato, 

nel bruno di quelle zolle sento la rivolta ,

e nel loro spaccarsi nell’imminente freddo

il ribollir d’attesa di paziente vita,

di questo sono loro grato.

A chi non ho modo di sapere, 

al resistente che difese la terra violata dall’asfalto,

ad un fienile, ad una stalla, ad un silos da riempire di grano,

sono grato.

Di questa vista che finalmente corre più dell’auto,

in un mattino limpido e chiaro,

in un silenzio che respinge il rumore dei motori, 

della gioia immotivata,

della diversità che essa muove e spera, 

sono grato.

del rapporto

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del rapporto si conserva il giusto, apparentemente nulla, a volte. ad un certo punto le braccia si sono fatte dure, stecchi rivolti a un cielo che non preannuncia. La ginnastica del cuore riabilita la morbidezza. Ne tiene in giusto conto, il limite. Non s’arrovella sul passato che giace, orologio rotto, ai nostri piedi. Abbiamo, non abbiamo, fatto il necessario? C’è una teologia del fare e del possibile speculare a quella dell’attendere un fato.

Scrivere mantra è sempre un utile esercizio per dare un senso alle spirali che percorriamo. Qual è il loro senso, verso l’esterno infinito oppure nel profondo, all’indietro, verso l’origine?

Lì un giorno sono stato, eppure di quel giorno è rimasto non il luogo, ma la presenza. Come i viaggiatori dovremmo davvero innamorarci dei luoghi e delle persone, non lesinare gli addii della voce, se questo era già scritto. Tenere il molto che riceviamo invece, nel cuore, con la cura degli oggetti che prefigurano divinità. E lasciare ch’ esse agiscano nel profondo. Ma non possediamo la sublime modestia del viandante, il suo acume quieto. Così quando leggo di un disagio che prende alla gola, che le persone si allontanano, e si preannunciano stanchezze interiori, foriere di giorni grigi e inconosciuti, vorrei dire che ci sono sempre braccia attente, che ciò che è in pericolo, di fatto se n’è già da tempo andato, che tenere è un’arte difficile perché non trattiene ma custodisce.

La domanda forse era: perché tutto ciò accade? Perché è la vita ed essa impone, quasi sempre, il suo tempo al nostro. Perché non sappiamo davvero nulla che ci ponga al riparo dal disamore, non abbiamo ricette e le soluzioni sono sempre parziali, ma l’esserne consapevoli fornisce qualche strumento in più. Di qualcuno ho ammirato svisceratamente il coraggio, di altri sento, nelle parole, la paura che precede l’ignavia, in altri ancora una consapevolezza dolorosa che getta dentro un vortice da cui certo si esce mutati nel profondo. Volevo dirlo, con parole di vicinanza e non ci sono riuscito. Ho tenuto cari pochi amici, di loro posso dire che non cessa il confronto sul presente e sul futuro. Altro non so, ma chi non ho trattenuto dialoga con me e se non penso sia una questione di reciproche responsabilità e colpe, so che potrà accompagnare il ricordo d’aver vissuto. Non altro, ma è già davvero molto.