quisquilie

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Mettere a posto un particolare, una cosa minuta che nessuno noterebbe. Prendere qualcosa da uno scaffale seguendo un pensiero. Accanirsi nel riparare un oggetto che non vale nulla, eppure vale. Cose importanti a noi, in quel momento, urgenze che celano la mania. Qual era la mania che ci avrebbe fatto grandi, quella che se portata a compimento avrebbe colmato quella crepa con il noi  irrealizzato? Ed essa che relazione ha con la felicità? La stessa felicità  che s’affaccia quando tutto va a posto e ritrova un ordine solo nostro, una tranquillità e un deporre le armi.

Quisquilie

cominciamo dalla sfera il divagare

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Materiale composito poroso, bianco. Ottone brunito e piombo. Legno invecchiato dalla luce del tempo, castano scuro. Una sfera, un peso da stadera, una credenza. La sfera è cava, sembra fatta al tornio per le irregolarità delle rigature concentriche, probabilmente è fusa e poi rifinita a mano. È uno spandi profumo acquistato anni fa, il materiale e la forma sono molto efficaci all’uso: l’essenza non ha lasciato macchie sulla superficie e l’aria attorno ne è piacevolmente pervasa. L’odore agrumato si è ben fuso con quello del legno e sente di far parte di quella mistura indefinibile che è il profumo di casa. Credo sia per questo che la sfera sembra molto compresa nel suo lavoro: la sfericità è concentrazione. Rappresenta un’autosufficienza monodica, che trae la polifonia dal riflesso, è come per il gregoriano che si avvale degli echi e della fusione delle voci per acquistare una sostanza inattesa, colora il buio, s’alleggerisce nella luce, ma alla fine torna a sé, punto di partenza e di arrivo.

La mia sfera bianca non ha altra fungibilità che essere ciò che è e sembra cosciente e orgogliosa di servire solo a quello per cui è stata fatta. Chi ama la geometria, nella perfezione di questa sfera potrebbe trovare una sottile bellezza, con quelle rigature che non toccano la forma. Volendo investigarne qualche esoterico significato dovrei trovare dei numeri.

S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, d’ambo i lati calpestio rimbomba 4/3 pigreco erre tre.

Calcolarne il volume e poi cercare lettere rivelatrici che la mettano in relazione con me. La Kabbala fantasiosa delle coincidenze suggerirebbe l’espandere delle previsioni sullo status e sulla coscienza di sé. Una scelta inconsapevole di forma e utilizzo che porta verso il profondo, l’intimo. Cosa molto emblematica nel passato: non a caso la sfera orna i frontali dei palazzi storici della città e si ripete negli appoggi, nelle volute delle scale. Discreta e presente, col suo rappresentare rammenta il coincidere di coscienza e perfezione del proprietario: Non nobis Domine, ma sappiamo chi siamo. Dovevano scrivere così sul timpano delle porte, bastava la prima parte il resto si vedeva.

Nonostante la spocchia che gira oggi, anche nella forma delle cose, comunque la sfera è un po’ negletta, troppo severa e rigorosa per essere un simbolo attuale, sembra arcaica nella sua perfezione, e sopratutto porta al meditare per superare il mito dell’innocenza e trovare l’autosufficienza. Oggi nessuno persegue l’autosufficienza e la gara è tra l’essere sul transatlantico oppure finire sulla zattera della medusa, la dimensione è l’apparire più che l’essere sufficienti a sé. La sfera sfugge allo schiacciamento della bidimensionalità che evoca la facilità del pressapoco. Aborre l’imprecisione, accetta di essere messa da parte piuttosto che ridimensionata. Il suo cercare l’equilibrio e la profondità ricorda che si perde spessore nell’approssimazione. È più facile toccare, assaggiare piuttosto che sentire e gustare a fondo, ma lontana dalla ricerca dello spessore anche la libertà è compromessa e nell’homo aeconomicus, lo diceva, anche Marcuse, ci si appiattisce e si perde orizzonte proprio perché manca lo spessore e la varietà che conteniamo dentro, e in esse la libertà e il riconoscere l’altrui dimensione, possibilità e libertà. Ma chi si ricorda più di Marcuse e di tutta la Scuola di Francoforte? Che poi mica parlavano di sfere ma di rapporti umani e di spessore necessario alla loro crescita. Ma torniamo alla nostra sfera, oggi negletta al pari di altre forme geometriche: il cono (algida a parte), la piramide, ad esempio, tutte poco frequentate, anzi dimenticate a favore del più banale parallelepipedo. Il loro essere generose e incuranti dello spreco di spazio le ha ridotte a curiosità nella nostra consuetudine di vita. Provate a cercare attorno quanti coni e piramidi vedete e anche nell’abitare osservate quanto poche siano le forme che non sono ritte e piane. Pensiamo tanto allo spazio ma solo perché si compra non per la sua utilità o bellezza, pensate al piacere di avere un bow window, alla luce che attornia da più lati. La sfera sarebbe perfetta per questo e le cupole geodetiche ne sono una bella approssimazione, peccato che non abbiano preso piede come modalità del costruire, avrebbero cambiato pensiero e percezione del vivere.
E se ci si pensa davvero si capisce che la bellezza non ha molta relazione con lo spazio, ha bisogno di compiutezza per cui essa si può realizzare nell’infinitamente piccolo, oppure nel senza limite per grandezza. Tra una reggia e una casa ci può essere la stessa sensazione di bellezza se c’è unità della proporzione e dell’armonia, del genio del rappresentare icastico ed evocativo e insieme la semplicità della linea. La sfera si pone alla bellezza come esempio arduo, difficile e compiutamente conclusa in sé, si approssima, si usa, è esercizio di profondità ma non si potrà mai rinchiudere nel costo dello spazio.
E la mia piccola sfera di materiale composito poroso bianco cosa c’entra con tutto questo? Nulla se non per la sua capacità di generare pensiero, di far emergere le sue sorelle di cristallo immerse tra solidi trasparenti nelle vetrine, di far proseguire il racconto verso il conoide della stadera, ma questa è un’altra diversa storia che continuerà il divagare.

caffè quasi alla turca

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Due cucchiaini ben colmi di caffè, macinato grosso, per persona. Il caffè si può bere da soli oppure in compagnia, ma la preparazione è la sapienza di uno solo. E ognuno ha la sua, esattamente come la preferenza. Ristretto o lungo, all’americana, con la moka, la napoletana, espresso. Sul caffè si sono costruite fortune e create culture, l’illuminismo è un prodotto del caffè. Magari non è proprio così ma è bello pensarlo. Comunque sia, come per la cioccolata, la Chiesa si esercitò nel proibire, capendo che dietro al caffè c’era il comunicare intimo, il pensiero raccolto, l’allegria del condividere. Il piacere insomma. E questo era eversivo. Lo è tuttora, ma con le distrazioni di massa lo si è diluito in mezzo a una miriade di possibilità e piaceri che poi non si rivelano tali perché fugaci, portatori di energia verso l’esterno, mentre il caffè porta all’interno, induce alla visione di un sé acuito e personale e, fatto singolare, mette nella condizione di condividerlo o meno. Secondo estro. 

Mettere così tante parole per un piacere che parla silenziosamente da solo è un cercare di prendere per la coda un motivo più profondo che si rintana. Come un giustificare una predilezione. Forse la cosa più onesta è dire che mi piace il caffè, che lo bevo da solo e in compagnia, che mi piace prepararlo e che non finisco mai di sperimentare potendo poggiare su basi sicure di abitudine. Stamattina il terzo caffè sarà quasi alla turca, l’acqua appena bollita inonderà la polvere che attende, resterà in infusione per 8-10 minuti, finché scrivo. È il suo tempo. E poi verrà versato in una tazzina media, meglio se a bocca larga, farà il suo mestiere profumando l’aria, riempiendo di gusto la bocca, metterà una pausa, guardando fuori dalla finestra, ascoltando con un’attenzione dolce ciò che c’è attorno, parole comprese e alla fine, volendo, si potranno leggere disegni e vaticini nella polvere che s’è asciugata. C’è il sole, il caffè è buono, silenzio quando serve, le abitudini sono senza fretta, non male per un giorno di vacanza. 

monte Cengio

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La roccia è una prora, un bastione che si erge per 900 metri sulla valle dell’Astico. Qui finisce l’altopiano, mostrando la sua natura carsica, fessurata dagli sbalzi di temperatura; non più prati, boschi, cime lunghe e dolci, ma una roccia verticale e scabra, adatta ad alpinismo estremi, che lo limita dalla pianura. Uno zoccolo che si elevava tra le nuvole, così dovettero sentirlo e vederlo gli abitanti dell’ altopiano, così lo videro i granatieri di Sardegna in quella estrema difesa che impedì il dilagare nel giugno del 1916, delle truppe imperiali in pianura e la fine della guerra con la sconfitta dell’Italia. In meno di dieci giorni, si concluse al limite dell’altopiano, quella che gli italiani chiamarono Strafexpedition, e per gli austriaci era il modo per chiudere i conti con quell’Italia che da alleata era diventata nemica. Su quel costone di roccia, sopravvisse un decimo dei rinforzi mandati a tenere la posizione, di 10.000 uomini partiti il 20 maggio, ne tornarono in pianura, 1.000 il 4 giugno.

Percorrendo il sentiero tra le trincee, ho chiesto a un gruppo di scout, cosa si provasse a percorrere questi luoghi, a pensare che chi combatteva aveva la loro età. Ci sono delle foto che mostrano rari momenti di quiete nell’inferno della prima linea: sorrisi, mantelline, piedi fasciati e scarpe chiodate. Le stesse che i ghiaioni continuano a restituire cento anni dopo. Quei visi nelle fotografie, sono adulti, a tratti già vecchi eppure molti avevano 18 anni. Lo scout mi parla della difficoltà di credere che sia accaduto, della insensatezza della guerra. Parliamo degli inglesi che erano poco distanti, dei loro cimiteri così ordinati, gli racconto fatti, storie di famiglie segnate per sempre dalle morti, gli dico dei parenti che ancora tornano a trovare persone mai conosciute. Gli spiego la mia paura che non ci sia più memoria tra noi di questi fatti e che quindi il dolore assoluto scompaia ed emerga l’elegia delle battaglie. Il monte Cengio, dove siamo, non fu una vittoria, fu perduto il 3 giugno 1916, ma le perdite furono così alte da entrambe le parti, la resistenza così accanita, che lo slancio e la furia di morte, si fermò. Ma di quella sofferenza, di quel morire cosa resta ora che allontani definitivamente la guerra? Parlo di questo dicendo che ormai nessuno racconta per esperienza familiare, che si perde l’emozione del vissuto e tutto si allontana.  Vedo che qualcuno ascolta, interloquisce, altri sono distratti, aggiustano un auricolare, parlottano guardando la valle.

Sotto di noi ci sono isole di capannoni che riflettono il sole, laghi di luce, il fiume e la piana si perde verso sud: è un territorio ricco ora, un tempo era pieno di miseria. Vicino a noi la roccia si protende nel vuoto, è un balcone che si chiama: ” il salto del granatiere”, Non avevano più munizioni, le ultime trincee furono difese all’arma bianca, con i corpi che si avvinghiavano in una lotta che non doveva avere pensieri se non il vivere o il morire. Ci sono molte testimonianze di ciò che accadde. Racconto ancora qualcosa e poi saluto. Ccon gli anni le storie si depositano dentro e ci si commuove per ciò che accadde. Ma anche ci si indigna per la retorica che rese, e rende, tutto eroico quello che era fatica e dolore. S’è perduta la dimensione della tragedia, anzi si perse subito per giustificare l’imnane dolore che sconvolgeva paesi interi e lo si ridusse a fatto privato. A questo serve la retorica. Ma chi lo provava sentiva la dimensione tragica e assoluta della guerra. Difficile che questa sensazione si trasmetta se non si racconta più. Facile che subentrino altre ideologie. Da tempo sento parlare con noncuranza delle conseguenze rispetto a ciò che ci accade attorno. Anche questo anniversario rischia di diventare un turismo di massa, fatto di cartelli, luoghi, tour, alberghi, menù. E invece bisognerebbe meditare, ascoltare i silenzi, leggere le lettere, pensare a quelle vite. Magari parlando con i coetanei di adesso dei soldati di allora e ci accorgeremmo che li abbiamo attorno e che sono i nostri figli.

auto recensione

Leggo abbastanza addietro e trovo una scrittura puntuta, asciutta. A tratti nervosa. Ricca di insoluti. Un pensiero che borbotta tra sé e poi esce per incontinenza. Più sotto, sento il raffrenarsi perché dire troppo non conviene mai. Spesso le chiusure si sospendono, lasciano i compiti per casa, le soluzioni aperte. E cosa c’è di meglio di una chiusura che apre?

Gli aggettivi non ridondano, c’è una ricerca delle parole nella memoria, non nel vocabolario, si sente che esse portano ad altro e affascinano. Mancano, o sono rare, le similitudini e quindi è attenuata la voglia di trarre un insegnamento generale dal particolare. L’aforisma però è presente, la sua asciuttezza ammalia lo scrivere. È pur sempre un po’ moralistico, ma ha la funzione di mettere in ordine le idee e aiuta chi si contrappone: a nettezza si risponde con nettezza.

Complessivamente è il giorno a fare da padrone: ciò che accade urge e trabocca. C’è un piacere nell’urgenza, ovvero quello del consumare perché il tempo lineare non concede ripetizioni. Emerge la necessità di avere più tempi a disposizione, e lasciare che ognuno possa dare ciò che può. Sono scritti notturni o diurni, formazione che è salita, con gioie e fatiche inattese. Insoddisfazione, che implica necessità di soddisfare. Perfezione e innocenza per andare oltre alla realtà, così imperfetta e complicata di colpe non sue. Autoironia e consapevolezza dei limiti messi in una tensione febbrile, vissuta molto più dentro che nelle parole che anzitutto parlano al sé. Priorità, per fortuna, alterate rispetto a ciò che conviene ed è utile. La ricerca di un equilibrio non è pace, ma oltre. E in questo oltre c’è il futuro.

volo di notte

Resistere al sonno della ragione, alla tentazione di far diventare passato il presente.

Devo.

Togliere consistenza alla lettura dei fatti, usare l’ironia che è senso della misura, relativizzare, svuotare ciò che si vede dal suo carico predittivo.

Devo.

Limitare l’acuzia dello scorgere e deldell’intuire, 0trattare cio che emoziona come un indistinto ondeggisre di realta che si elidono, che non hanno attracchi, che si rifugiano nel luogo comune per dare un significato.

Devo.

Questo è il dramma del pensare a sinistra, della mente e dell’azione che vuole mutare e non s’accontenta, del vedere secondo i canoni di un’ umanesimo che non è piu tale nel pensiero politico, perché la sinistra ė l’unica ideologia negletta, gettata nel fango dai suoi stessi epigoni che non osano, non sono, non vogliono rivendicare una storia che nel sangue non ė meno fulgida delle altre ideologie rimaste. Eh si perché le altre ideologie ci sono tutte, vive e vegete: il liberismo, il capitalismo, la destra nelle sue infinite varianti tra il nazi fascismo e la reazionaria quiete del conservatorismo. Nei giorni scorsi si è arrivati a chiamare un nuovo partito: conservatori e riformisti. Meglio non vedere, non sentire, non capire se ciò che si dovrebbe opporre a tutto questo con la nitidezza delle analisi, con la convinzioni dei principi, con quel piccolo inesauribile breviario di umanità e lotta politica che si riassume in libertà, eguaglianza e solidarietà, sono poi i socialisti europei che si vergognano d’ogni pensiero che non sia conforme ad un liberismo che neppure vede l’uomo.

Così il presente lo sorvolo e aspetto passi. E penso che solo l’ umanesimo ci possa salvare, diventare luce, pensiero positivo del fare, insomma dare appartenenza al presente e relegare quella pletora di segni di piccolezza a quello che sono: infingardaggine, furbizia, pusillanimita.

Ritrovare, finalmente un senso alla fine della notte, al futuro.

Devo.

struscio dell’anima

Si muovono prevedibili i corpi impagliati nei gesti,

nella fannullona convinzione del consueto

attraversano vie pedonali,

si fermano davanti a vetrine,

sostano seduti,

sorseggiano abitudini liquide.

E parlano e sorridono forte

cacciando le tristezze in agguato,

bastano dei passi da soli, un silenzio più lungo

per mostrare sui visi la violenza

delle solitudini incerte.

Non c’è nulla di nuovo in questo ronzare di pensieri zippati,

è vuoto di futuro il luccicante frigidaire

che allinea il giorno,

e pure la notte.

Non c’è brivido nel torpore d’attese,  

nelle passioni d’un attimo,

nei tacitati ideali:

l’avversario s’è ridotto alla fatica

di  tenere vivere e andare.

Dove e quando osare,

per cosa, per chi?

Più in alto 

è l’incompresa fatica dell’esplorar salendo,

del ritrovare sé nella passione d’esistere

magari ancora più soli,

ma noi, non d’altri,

noi.

solo sfortune?

L’aumento vertiginoso dei compro oro testimonia la miseria crescente e la grande quantità di contante che esiste ed è altrettanto presente. In altre mani naturalmente. Così piccole antiche fortune, momenti di tenerezza tangibile, affetti oggettivati, vanno sul bilancino e cambiano proprietario. La pubblicità di un orologio famoso, e caro, dice che non lo si possiede mai interamente, ma lo si trasmette, adesso non è più così per un italiano su quattro che affronta i problemi momentanei con quello che ha e aprendo la porta di un compro oro, ma non risolve la sua condizione che ha bisogno di ben altro intervento. Anche di consapevolezza. C’è una solitudine emblematica in chi entra in questi luoghi, invero squalliducci ed è quella di non essere assieme sui problemi veri. Ci si diverte assieme e si soffre da soli. Verità polverose, ma come mai emergono tutti questi soldi per comprare, e che fine farà tutto quell’oro, quegli oggetti, quelle pietre? Sembra non ci sia nulla di speciale, è tutto alla luce del sole, anzi pare serva una autorizzazione della Banca d’Italia, per fare questo lavoro. Sì, ma da dove viene tutto questo denaro?

Un paese sano è quello che conserva le proprie fortune, che costruisce su di sé e quindi tiene nelle case le testimonianze dei sentimenti e del benessere raggiunto con fatica. Un paese sano aiuta i propri cittadini a non scivolare nella miseria. Un paese sano segue la ricchezza e il denaro e chiede da dove proviene. Invece oggi più di ieri, sembra emergere una visione di potere del denaro e di equivalente debolezza di chi può contare solo su di sé. Si sono comprate anime, vite, adesso oggetti che verranno fusi, solo ciò che è più pregiato resisterà intero e verrà rivenduto come oggetto. Anche gli uomini? Miseria e ricchezza, impotenza e potere, possibile che non ci sia nulla da dire?

tempi di ferro

Sono tempi di ferro: ideali pochi, troppi interessi personali che si contrappongono. Come nelle fasi dure della storia le persone si dividono, non hanno prospettive, puntano sull’oggi. E da soli perdono la nozione della comunità, della giustizia, del bene comune. Prevale l’interesse immediato. Eppure quelli che sperano non sono pochi. Sono quelli -e sono tanti- che operano ogni giorno perché è giusto farlo, compiono il loro dovere, credono che ci sia un domani migliore dell’oggi che ci riguarda. Sono in prima fila, dove arrivano gli sputi e il rischio, eppure non si tirano indietro. Molti di questi sono anche dentro al mio partito, il PD, e non sono ciechi esecutori, no, sperano e operano conformemente alla speranza. Sono stati fatti molti danni alla politica di cambiamento e di sinistra, in quest’ultimo periodo, i 101 non sono mai emersi, non hanno mai messo la faccia sul loro voto contro Prodi, ma io continuo a pensare che se c’è un senso nella storia, questo è rappresentato dagli uomini, da quelli che si fanno carico. Non so se il PD resisterà alla doppia prova del governo in un momento difficile e con gli attacchi del Pdl preoccupato non del paese, ma della sorte del suo capo, però vorrei che, se questo sogno di mettere assieme le anime del cambiamento italiano finirà, fosse come avvenne per il Partito d’Azione. A testa alta, con quella gloria che c’è nella consapevolezza di chi non sopporta di veder ridurre i propri ideali oltre il limite della dignità e che conserva come un senso alto del bene comune. Per queste persone se un luogo finisce, non finisce un’appartenenza, perché l’agire segna nel profondo. Ci saranno altri luoghi dove portare ciò che si fa e si pensa giusto, perché questo possa continuare a rappresentare una strada, un orizzonte.

p.s. lo so che questi discorsi sembrano enfatici e lontani, che è più semplice parlare di sentimenti, ma voi credete che il sentire tra chi si vuol bene non sia influenzato dal provare passioni civili forti? Pensate davvero che sia tutto eguale e ci si possa chiudere nelle proprie vite ritenendole il massimo che si può vivere? E quando un torto vi sarà fatto, che forza avrete per chiedere aiuto se ora si lasciano prevalere le visioni di parte e le leggi ad personam?

Se le nostre passioni usciranno dalle case, cambierà ciò che abbiamo attorno e anche noi cambieremo.

entusiasmi professionali

La giovane psicologa mi conduce nei laboratori dell’interrato della facoltà. Mi spiega che sta facendo il dottorato, ma che vorrebbe fare la terapeuta. La guardo con attenzione come potessi misurarne la capacità d’introspezione. Faccio qualche domanda sulla scuola analitica che l’ attrae, sulle preferenze. Le chiedo se davvero pensa che si possa guarire da se stessi, oppure se questi lunghi percorsi di scavo non siano altro che un tirar fuori continuo  di materiale e che fare il minatore sia, alla fine, lo scopo. Consapevolezza, introspezione, analisi, tutto gestito con una mano che accompagna, ma davvero servirà per camminare da soli, per essere felici, oppure s’impara un “mestiere”?

Mi spiega i limiti, i ruoli, s’infervora, poi s’interrompe, non sono un suo paziente, sono qui per fare la cavia, non domande.  Già, faccio la cavia: ho visto un foglio appiccicato ad una bacheca in strada e ho telefonato. Come volontario mi sottoporrò ad alcune batterie di test. Devo dire che la cosa mi diverte, di analisti e psicologi di varie scuole ne ho conosciuti in vita mia, e m’ ha sempre impressionato che nel colloquio terapeutico si trasformavano, non erano più uomini, ma contenitori pensanti ed era bello duellare d’intelligenza con loro. Ma non è questo il caso, qui niente confronti umani. Mi viene spiegato il fine dei test, firmo qualche liberatoria, inizio. La cosa è rapida, pensavo peggio, ma l’impressione è che i test non siano congrui all’obbiettivo enunciato. Osservo alla giovane psicologa che i test sono incompleti, che trascurano cose importanti, che dalla pratica clinica chi li ha fatti dovrebbe sapere che …

Non sono fatti miei, finisco e taccio.

La giovane psicologa, ribadisce che vuole fare la terapeuta, che la parte di ricerca è un complemento che le è stato imposto, qui, sottoterra, tra cemento e bocche di lupo che guardano tubi e grate. Osservo che qui dovrebbe nascere il rapporto armonico tra l’uomo che apprende, capisce, studia la testa e le motivazioni delle opere dei suoi simili. Invece questo posto è alienante, castigante, inadatto, pur essendo stato partorito dall’ufficio di progettazione dell’università, ovvero da chi doveva ben sapere cosa serviva per insegnare, imparare e trovare il nuovo. L’impressione che ho, è che ci sia un che di punitivo nello studiare, che qualcuno voglia fargliela pagare agli studenti. Anche i docenti non scherzano, non manca la spocchia, il pregiudizio d’ignoranza ed incapacità, e si respirano in battute tagliente, risate velenose, nella scortesia del superiore. Un sistema malato dove si pratica la vendetta della condizione precaria, spesso insoddisfacente.

Le chiedo se vuol fare carriera universitaria oltre che la terapeuta. Mi guarda giustamente come un deficiente: all’università? impossibile, dovrei attendere una vita, fuori avviene tutto più in fretta. E’ compatibile fuori …

Già, è compatibile.