entusiasmi professionali

La giovane psicologa mi conduce nei laboratori dell’interrato della facoltà. Mi spiega che sta facendo il dottorato, ma che vorrebbe fare la terapeuta. La guardo con attenzione come potessi misurarne la capacità d’introspezione. Faccio qualche domanda sulla scuola analitica che l’ attrae, sulle preferenze. Le chiedo se davvero pensa che si possa guarire da se stessi, oppure se questi lunghi percorsi di scavo non siano altro che un tirar fuori continuo  di materiale e che fare il minatore sia, alla fine, lo scopo. Consapevolezza, introspezione, analisi, tutto gestito con una mano che accompagna, ma davvero servirà per camminare da soli, per essere felici, oppure s’impara un “mestiere”?

Mi spiega i limiti, i ruoli, s’infervora, poi s’interrompe, non sono un suo paziente, sono qui per fare la cavia, non domande.  Già, faccio la cavia: ho visto un foglio appiccicato ad una bacheca in strada e ho telefonato. Come volontario mi sottoporrò ad alcune batterie di test. Devo dire che la cosa mi diverte, di analisti e psicologi di varie scuole ne ho conosciuti in vita mia, e m’ ha sempre impressionato che nel colloquio terapeutico si trasformavano, non erano più uomini, ma contenitori pensanti ed era bello duellare d’intelligenza con loro. Ma non è questo il caso, qui niente confronti umani. Mi viene spiegato il fine dei test, firmo qualche liberatoria, inizio. La cosa è rapida, pensavo peggio, ma l’impressione è che i test non siano congrui all’obbiettivo enunciato. Osservo alla giovane psicologa che i test sono incompleti, che trascurano cose importanti, che dalla pratica clinica chi li ha fatti dovrebbe sapere che …

Non sono fatti miei, finisco e taccio.

La giovane psicologa, ribadisce che vuole fare la terapeuta, che la parte di ricerca è un complemento che le è stato imposto, qui, sottoterra, tra cemento e bocche di lupo che guardano tubi e grate. Osservo che qui dovrebbe nascere il rapporto armonico tra l’uomo che apprende, capisce, studia la testa e le motivazioni delle opere dei suoi simili. Invece questo posto è alienante, castigante, inadatto, pur essendo stato partorito dall’ufficio di progettazione dell’università, ovvero da chi doveva ben sapere cosa serviva per insegnare, imparare e trovare il nuovo. L’impressione che ho, è che ci sia un che di punitivo nello studiare, che qualcuno voglia fargliela pagare agli studenti. Anche i docenti non scherzano, non manca la spocchia, il pregiudizio d’ignoranza ed incapacità, e si respirano in battute tagliente, risate velenose, nella scortesia del superiore. Un sistema malato dove si pratica la vendetta della condizione precaria, spesso insoddisfacente.

Le chiedo se vuol fare carriera universitaria oltre che la terapeuta. Mi guarda giustamente come un deficiente: all’università? impossibile, dovrei attendere una vita, fuori avviene tutto più in fretta. E’ compatibile fuori …

Già, è compatibile.