È una pressione continua. Una notizia elide la precedente e tutto alla fine sembra uguale. Chi produce realtà sa che bisogna alzare la posta, colpire l’immaginazione e il sentire, perché le notizie vengono e svaniscono subito. Siamo finiti in una dittatura del presente senza futuro.
Sembra che il rifiuto della condizione di incertezza produca una bulimia di nuovo senza conclusione. Ed è aria mossa da chiacchiere che si sovrappongono, di cui non resta traccia se non in quel senso di mancanza che fa capolino quando ci si ferma. Anche tutto questo connettersi, il mi piace senza il contrario, la conversazione momentanea, è un chiudersi al rischio del rapporto profondo, alla domanda del che fare di noi.
È sommamente triste dipendere dalla velocità di una risposta e dalla riconferma che se l’indeterminato altro esiste allora, forse, anch’io esisto.
p.s. nulla come il walzer, per me, rappresenta il rifiuto di ogni fine. La maschera del momento che dura il tempo della festa.
La roccia è una prora, un bastione che si erge per 900 metri sulla valle dell’Astico. Qui finisce l’altopiano, mostrando la sua natura carsica, fessurata dagli sbalzi di temperatura; non più prati, boschi, cime lunghe e dolci, ma una roccia verticale e scabra, adatta ad alpinismo estremi, che lo limita dalla pianura. Uno zoccolo che si elevava tra le nuvole, così dovettero sentirlo e vederlo gli abitanti dell’ altopiano, così lo videro i granatieri di Sardegna in quella estrema difesa che impedì il dilagare nel giugno del 1916, delle truppe imperiali in pianura e la fine della guerra con la sconfitta dell’Italia. In meno di dieci giorni, si concluse al limite dell’altopiano, quella che gli italiani chiamarono Strafexpedition, e per gli austriaci era il modo per chiudere i conti con quell’Italia che da alleata era diventata nemica. Su quel costone di roccia, sopravvisse un decimo dei rinforzi mandati a tenere la posizione, di 10.000 uomini partiti il 20 maggio, ne tornarono in pianura, 1.000 il 4 giugno.
Percorrendo il sentiero tra le trincee, ho chiesto a un gruppo di scout, cosa si provasse a percorrere questi luoghi, a pensare che chi combatteva aveva la loro età. Ci sono delle foto che mostrano rari momenti di quiete nell’inferno della prima linea: sorrisi, mantelline, piedi fasciati e scarpe chiodate. Le stesse che i ghiaioni continuano a restituire cento anni dopo. Quei visi nelle fotografie, sono adulti, a tratti già vecchi eppure molti avevano 18 anni. Lo scout mi parla della difficoltà di credere che sia accaduto, della insensatezza della guerra. Parliamo degli inglesi che erano poco distanti, dei loro cimiteri così ordinati, gli racconto fatti, storie di famiglie segnate per sempre dalle morti, gli dico dei parenti che ancora tornano a trovare persone mai conosciute. Gli spiego la mia paura che non ci sia più memoria tra noi di questi fatti e che quindi il dolore assoluto scompaia ed emerga l’elegia delle battaglie. Il monte Cengio, dove siamo, non fu una vittoria, fu perduto il 3 giugno 1916, ma le perdite furono così alte da entrambe le parti, la resistenza così accanita, che lo slancio e la furia di morte, si fermò. Ma di quella sofferenza, di quel morire cosa resta ora che allontani definitivamente la guerra? Parlo di questo dicendo che ormai nessuno racconta per esperienza familiare, che si perde l’emozione del vissuto e tutto si allontana. Vedo che qualcuno ascolta, interloquisce, altri sono distratti, aggiustano un auricolare, parlottano guardando la valle.
Sotto di noi ci sono isole di capannoni che riflettono il sole, laghi di luce, il fiume e la piana si perde verso sud: è un territorio ricco ora, un tempo era pieno di miseria. Vicino a noi la roccia si protende nel vuoto, è un balcone che si chiama: ” il salto del granatiere”, Non avevano più munizioni, le ultime trincee furono difese all’arma bianca, con i corpi che si avvinghiavano in una lotta che non doveva avere pensieri se non il vivere o il morire. Ci sono molte testimonianze di ciò che accadde. Racconto ancora qualcosa e poi saluto. Ccon gli anni le storie si depositano dentro e ci si commuove per ciò che accadde. Ma anche ci si indigna per la retorica che rese, e rende, tutto eroico quello che era fatica e dolore. S’è perduta la dimensione della tragedia, anzi si perse subito per giustificare l’imnane dolore che sconvolgeva paesi interi e lo si ridusse a fatto privato. A questo serve la retorica. Ma chi lo provava sentiva la dimensione tragica e assoluta della guerra. Difficile che questa sensazione si trasmetta se non si racconta più. Facile che subentrino altre ideologie. Da tempo sento parlare con noncuranza delle conseguenze rispetto a ciò che ci accade attorno. Anche questo anniversario rischia di diventare un turismo di massa, fatto di cartelli, luoghi, tour, alberghi, menù. E invece bisognerebbe meditare, ascoltare i silenzi, leggere le lettere, pensare a quelle vite. Magari parlando con i coetanei di adesso dei soldati di allora e ci accorgeremmo che li abbiamo attorno e che sono i nostri figli.
Scorre questo tempo tra piccole, nuove abitudini, rumori inconsueti, pensieri senza contesto. Anche i sogni sono differenti. Ogni volta che si cambia letto accade, come fossero le cose l’unione tra diverse vite, e cambiandole mutassero le une e le altre. I giorni dell’ozio sono una fantasia dei poeti, la mente è sempre altrove, una passione, un desiderio, comunque tolgono dal contesto mutato, c’è un perseguire l’equilibrio, la corsa, lo stare ansante dopo di essa, il vivere come ricerca d’essere se stessi e quindi altro.
Tempo di vacanza, refoli di tempo differente, anche se siamo noi a dargli senso, egli per suo conto appena ci bada: quello che gli serve per manifestare la propria esistenza e il suo imperio.
C’è viaggio e viaggio. L’uomo ha dentro di sé la spinta a viaggiare, l’umanità ha popolato il mondo in questo modo. Non è solo spirito d’avventura, volontà di conoscere, sperimentazione di se stessi, queste sono cose che subentrano o collaborano con necessità primarie quali l’ insoddisfazione del luogo in cui si è, il sentirlo minaccioso, insufficiente, angusto. Si va perché manca l’aria, anche se non è facile lasciare un luogo pensando di non tornarci più. Eppure questa ė una costante nella storia dell’umanità e questo porta alla mescolanza dei popoli, che diventano tali in forza della cultura non del transitorio potere che possono esprimere. Non parlo solo dei migranti che ormai sono un dato strutturale dell’Europa e di molti altri paesi, mi riferisco invece proprio alla spinta ad andare insita nell’uomo e alla difficoltà che altri uomini hanno a riconoscere quella spinta, fino a scambiarla per una minaccia e non un valore. Molti preferiscono viaggiare solo nella fantasia di andare, di fuggire da una situazione in cui si sentono prigionieri, salvo poi difendere tanto strenuamente la piccola patria in cui vivono, a cui pensano di appartenere e che coincide più con un recinto che con un territorio libero. Così ci si confina nell’insoddisfazione. Si resta fermi e insoddisfatti perché si teme di non tornare, di non trovare ciò che si è lasciato e quella forza che dovrebbe rassicurarci di noi mentre andiamo, diventa paura di perdere. Cosa? Chi?
Se non riusciamo a convincere un vicino, a confrontarci con una cultura differente, se abbiamo così poca fiducia in quello che sosteniamo e che dovrebbe difendere le leggi che riguardano tutti allora cosa abbiamo creato veramente? Le domande le abbiamo dentro e coltivano la nostra insicurezza, non sono fuori di noi e sono esse che ci impediscono di capire e di vedere ciò che davvero ci attornia. Andare e tornare questa dovrebbe essere la normalità di un mondo che ha questa spinta a muoversi, altrimenti saremmo ancora un branco di ominidi dispersi tra il rift e gli altipiani etiopici.
Leggo abbastanza addietro e trovo una scrittura puntuta, asciutta. A tratti nervosa. Ricca di insoluti. Un pensiero che borbotta tra sé e poi esce per incontinenza. Più sotto, sento il raffrenarsi perché dire troppo non conviene mai. Spesso le chiusure si sospendono, lasciano i compiti per casa, le soluzioni aperte. E cosa c’è di meglio di una chiusura che apre?
Gli aggettivi non ridondano, c’è una ricerca delle parole nella memoria, non nel vocabolario, si sente che esse portano ad altro e affascinano. Mancano, o sono rare, le similitudini e quindi è attenuata la voglia di trarre un insegnamento generale dal particolare. L’aforisma però è presente, la sua asciuttezza ammalia lo scrivere. È pur sempre un po’ moralistico, ma ha la funzione di mettere in ordine le idee e aiuta chi si contrappone: a nettezza si risponde con nettezza.
Complessivamente è il giorno a fare da padrone: ciò che accade urge e trabocca. C’è un piacere nell’urgenza, ovvero quello del consumare perché il tempo lineare non concede ripetizioni. Emerge la necessità di avere più tempi a disposizione, e lasciare che ognuno possa dare ciò che può. Sono scritti notturni o diurni, formazione che è salita, con gioie e fatiche inattese. Insoddisfazione, che implica necessità di soddisfare. Perfezione e innocenza per andare oltre alla realtà, così imperfetta e complicata di colpe non sue. Autoironia e consapevolezza dei limiti messi in una tensione febbrile, vissuta molto più dentro che nelle parole che anzitutto parlano al sé. Priorità, per fortuna, alterate rispetto a ciò che conviene ed è utile. La ricerca di un equilibrio non è pace, ma oltre. E in questo oltre c’è il futuro.
Libera i nostri occhi dal calzino bianco nella scarpa nera, dai sandali col fantasmino, dai calzoncini al ginocchio e dalle loro gambe bianchicce e magre.
Suggerisci la libertà della noncuranza elegante che allieta l’anima e il suo trasparire.
Fa che i corpi stiano bene negli abiti senza voler dimostrare nulla.
Lascia che i colori riposino nel pantone, che gli abiti lascino guardare i visi, che la bellezza trovi se stessa senza assomigliare a chi non è.
Difendici dai pois e dai quadri scozzesi messi nei posti sbagliati.
Tieni a bada i colori forti nelle città che si sciolgono e portali in vacanza verso il mare.
Fa che i cappelli siano sbarazzini e sobri.
Difendi l’estate dei nostri corpi dal cattivo gusto e toglici dal suscitar ridicolo in chi ci vede.
Fa che lasciamo tracce leggere con le nostre parole, perché esse, come alito, se profumano di menta e di fresco, rendono più bella la vicinanza.
C’è un piccolo cuore di stagnola che attende nel vicolo. Luccica nel buio, si sta attenti a non pestarlo e nessuno lo raccoglie. Neppure gli spazzini l’hanno toccato: chi sposterebbe un cuore?
E’ un notturno urbano, molto italiano e poco americano, con le finestre che guardano la notte e un alito di vento incostante che muove gli oleandri, tra scrosci brevi di pioggia. Fuori dalle case il buio si separa da quello delle stanze. Luci diverse, piccole quelle di casa, grandi e sguaiate quelle di strada, ma pozzanghere di nero mostrano la forza della notte. Quella che solo i sogni rendono giorno. Assieme a quel piccolo cuore di stagnola.
Tutto dorme fino al canto dell’allodola, poi ci sarà lo stridio del nibbio che cerca nella luce ciò che può ghermire.
E ciò sembra dimostrare che non è nei sogni che alberga la violenza.
Le due foto che mi ritraggono, ricevute da mio figlio, hanno in comune il viso serio ( allora un po’ troppo magro), la barba completa e lunga. Ancora pepe e sale, non bianca come ora. La cravatta, la giacca, si intravedono e sembrano un tentativo di leggerezza, essendo la prima chiara e la seconda, scura. Uscire dalle divise e mantenere i ruoli è stato un impegno costante. La scheda allegata, spiega che vengono dagli archivi Rai e da un telegiornale regionale. Si parlava di imprese e di crisi. Sono passati sei anni da allora, mi sembra un’epoca per me e per il Paese. Nel bene e nel male, le crisi sono rimaste, ma l’Italia sembra mutata. Profondamente. Ascolto le persone e sento pareri preoccupati, la speranza, è quella dei naufraghi che sperano di salvarsi e che di questa lunga notte resti il ricordo quando si sarà più sereni. Non è la speranza che davvero spinge in avanti, quella fiduciosa del fare e della crescita, questa è l’attesa volenterosa che muti l’aria, quasi un farsi esterno alle volontà. In fondo questo Paese ama gli uomini della provvidenza, quelli che dovrebbero risolvergli i problemi che sono stati creati perché non si affrontano i nodi del giusto vivere assieme.
In quelle immagini, ritrovo un ottimismo della volontà, che ha radici lontane. Credo che la mia generazione abbia avuto molto e che molto dovrà dare facendosi in disparte. In me scopro intolleranze antiche, sopite per lungo tempo dalla necessità di compore le cose attorno. Non si fa sempre così, forse? S’impara nella famiglia e nella scuola, il senso di responsabilità diviene il modo per farsi una ragione di molto che non vorremmo, lo mettiamo ovunque, dal lavoro ai sentimenti, ben oltre il limite di una dialettica naturale. La generazione dei figli non ha questo diffuso senso di responsabilità collettiva, lavora per vivere, spesso non vede la funzione sociale del lavoro, così si disaggregano i luoghi comuni disciolti da un perché? Perché dovrei farlo, perché dovrei avere una funzione, perché dovrei interessarmi? Tutto sembra svolgersi lontano dalla propria capacità di influire, come se il potere si fosse definitivamente distaccato dalla democrazia.
Ieri era una splendida giornata di sole, le foglie sulle viti cominciano a virare dal verde al bruno e le punte sono già bruciate. La vite non è una pianta che susciti pensieri di bellezza, non ha maestosità, si arrampica selvatica, oppure si muove ordinata a pettinare campi e colline. E’ l’uomo che esalta la sua utilità, la manipola e l’ asserve a sé, facendone un emblema di stagione. Almeno qui, in quest’area mediterranea delle culture della vite e dell’ulivo, non a caso piante longeve, con frutti dal cui succo viene altro che si conserva a lungo. Lo stesso ha fatto con i cereali, altro cibo che si conserva a lungo. Nel sentire quanta conoscenza e sensibilità ci sia nel coltivare il riso, si capisce che ciò che è stato mutato aveva un significato profondo, un colloquio, non era un semplice piegare e domare ciò che era selvatico. L’uomo l’ha fatto con ogni cosa che gli serviva, animali e piante, così come le conosciamo, compresi cani e gatti, non esisterebbero senza l’uomo. Non è un giudizio negativo, questo subentra quando l’uomo cerca di asservire, in qualsiasi modo, l’uomo. Lo facciamo un po’ tutti, non si parte così anche nei sentimenti e poi si prosegue nelle cose? Forse è questo un argine educativo che proprio a partire dai sentimenti e dalla loro educazione, potrebbe permetterci di capire che il dominio dovrebbe avere un limite nella libertà dell’altro. Pensieri oziosi, facile essere d’accordo, difficile farlo: meglio soffrire.
Il più bel paese del mondo, ha definito l’Italia, ieri sera, il nostro Presidente del Consiglio. Non so se sia il più bel Paese al mondo, di sicuro non è un Paese felice. Eppure sia alla festa del riso, a Isola della Scala, sia a Borghetto sul Mincio, una folla di uomini, donne, bambini, si assiepavano sotto il sole in cerca di gelati, bibite, risotti. Un flusso interminabile di pensieri e desideri semplici. Non potendo governare i primi, forse ai secondi si potrebbe prestare attenzione. Cosa serve davvero? Sembra sia una domanda priva di risposte, eppure ciascuno di noi un’idea ce l’ha, sembra manchi quella operazione simpatica delle medie, il minimo comun denominatore, che nessuno ci ha mai spiegato che aveva un forte riferimento con le nostre vite assieme.
In questo trionfo di colori che mutano posso pensare di poter scegliere se stare da solo o in compagnia, se non fisicamente, mentalmente, eppure qualcosa in comune lo devo mettere a disposizione. E’ la mia responsabilità sociale. Quello che mi è mancato, come a quasi tutti, è il limite della responsabilità, ovvero cosa di me devo mettere assieme e dove comincia invece la generosità. Riguardando quelle foto, distolgo lo sguardo, pensando al molto di inutile che si è perduto. Assieme ad esso c’erano volontà ed utile. La forza dell’uomo è la sua inesauribilità nel provare, ciò che non è stato fatto da qualcuno verrà fatto da altri. E se applicassimo a noi stessi questa forza che accadrebbe? Le vite comincerebbero in continuazione, ci sarebbero più volontà di cambiamento, il mondo si aprirebbe a nuove prospettive. E’ come se il tempo si fosse radicato in noi e producesse stanchezza e pesantezza, anziché voglia di andare. Che un tradimento consumato contro noi stessi sia diventato una condanna a essere diversi da ciò che si potrebbe essere.
Sei anni fa pensavo, in modo differente, cose analoghe, pensavo ci sarebbe stata una soluzione basata sulla volontà, a partire dalla realtà per giungere ad un’altra realtà più confacente e positiva. Ma era in un ambito ben differente, con responsabilità diverse, eppure, anche se molto è mutato, le domande generali restano le stesse, quindi anche le risposte non mutano poi troppo. Vorrei che ci fosse davvero stato un obnubilamento di tutti, che ora ci svegliassimo man mano con una coscienza di dove siamo, per dare senso alla responsabilità, alla generosità, allo stare assieme. Un progetto, ecco, un progetto comune in cui ritrovarci.