
Coriandoli di lettere, fotografie decolorate, ricordi a flusso senza unità di luogo, tempo, spazio. Sono le sensazioni a rammendare brani di tempo, perché il tempo è una belva che azzanna e disgrega anziché mangiare, ma è anche carezza d’acqua, pensiero che si scioglie, sonno incipiente. Ebbrezza da stanchezza e vizi giovanili, un surfare tra immagini che non ci sono e percezione d’ambiente. Di alcuni luoghi emerge una voce, la pietra calda consumata su cui mi sono seduto, chi era a fianco, l’odore di sudato che accompagnava ogni stanchezza dopo la corsa, le parole dette a bassa voce, l’attesa di qualcosa che doveva avvenire e riscattare il senso di colpa per tutto quello che doveva essere fatto e attendeva.
Non era ancora sera, ma già l’aria rinfrescava, dopo non molto, con l’ombra e il primo accendersi delle luci sarebbe arrivata una malinconia senza oggetto, un bisogno di calore, di cose al loro posto, di voci conosciute, di luci gialle e profumo di cena, ma intanto guardavamo dove un tempo c’era una porta e ora un muro, passavamo le unghie sulla pietra sconnessa dalla malta affrettata, attoniti dal bisogno di murare, di chiudere, di difendere. Erano così anche i ricordi brevi delle giornate perdute di cui non si teneva conto? Il futuro veniva avanti come le onde alte del mare d’agosto : inoffensive e piene di risate contro il cielo azzurro, per questo dissipare era un lasciarsi andare alla corrente, godere di ciò che il momento offriva e le nostre case erano, per noi, senza porte. Venivamo inseguiti dalle voci adulte che ci chiedevano se eravamo nati in barca, e ridevamo sbattendo imposte e lasciando luci accese. Non c’era nulla da ricordare, da murare, se non i segreti, quelli che venivano scordati dopo che si erano definiti tali o raccontati all’amico/a del cuore sotto vincolo di un tacere infinito disposto a durare anche mezz’ora. Non c’era quasi nulla da nascondere se non piccoli tesori di incerta provenienza, tali per rarità e soprattutto per la difficoltà di far coincidere un pensiero con un oggetto. Così nasceva il collezionista di francobolli, di sassi, di monetine, di pezzi di spago, di cartoline. Ho letto migliaia di cartoline non mie, di saluti rassicuranti, di baci senza sensualità e miriadi di così spero sia di te, ho guardato con l’episcopio luoghi immoti e lontani, con persone con abiti fuori moda a passeggio, fontane che avevano gettato acqua per decine d’anni per arrivare a me, terme e località marine, montagne con stelle alpine in primo piano. E dietro le grafie certe, incerte, incomprensibili, piene di sentimenti a mezzo tra convenzione e sentire, tutto era stato gettato, tenuto da parte il tempo necessario e poi consegnato ai pacchi di libri e lettere da smaltire per far posto. Veniva la sera e magari per cacciare le malinconie innominate avrei guardato sul muro le cartoline, oppure ciò che pennini e inchiostro sbavavano con le dita sudate, avrei pensato ai compiti da fare e a quelli fatti e forse in uno slancio di dovere notturno avrei regolato i conti con me stesso, ma a cosa servivano le porte murate?
Quanto abbiamo scritto, ci siamo scritti. E i pensieri, a valanga, inframmezzati da sensazioni sensuali, odori che stavano in qualche parte dell’ipotalamo, ma questo dopo quando eravamo già grandi e scrivere era un altro modo per essere assieme, per sentirci, annusarci nell’ultimo profumo indelebile di vicinanza e di timidezza. Forse abbiamo imparato a scrivere in quei pomeriggi bambini, in quelle pause in cui veniva ricapitolato l’oggi e predisposto il domani, ma per oscure vie in cui il mezzo si confonde con il fine e ciò che sembra collaterale e marginale, usurato, diventa invece vivido. Come i baci e gli abbracci che nelle cartoline erano bena altro: scienza degli addii, mentre dentro di noi erano tumultuosa speranza e desiderio.
Nella sera bambina non faceva ancora freddo, scrivere era un dovere come far di calcolo su vasche da bagno che perennemente si riempivano e che avevano scarichi misericordiosi per non allagare l’appartamento sottostante. Quanta acqua restava mettendo a confronto le portate di rubinetti mai generosi e fori che si era dimenticato di chiudere? Meditare sui numeri fino all’urlo di qualche adulto che chiedeva se ci si erano lavate braccia e gambe e chiuso lo scarico. L’acqua rimasta era poca perché il pensiero s’era perduto nella contemplazione dello scorrere, nelle bollicine e nel flusso, così ciò che lavava era color terra, con sinistre bolle di sapone marroncine, lo scaldabagno ancora non funzionava e l’acqua fredda che avrebbe trascinato via tutto era pronta ad aggredire. Allora, con un compromesso tra il colore dell’asciugamano e la qualità della pulizia l’operazione sarebbe stata chiusa, con brividi che risalivano l’intero corpo, ma senza la gioia del mare, solo freddo e stridor di denti: L’inferno del lavarsi quando non c’era voglia e i compiti erano da fare, la cena in tavola, le cartoline nella scatola da scarpe. Ma perché quella porta era stata murata, le finestre sempre chiuse, ma ogni tanto erano illuminate da luci che si spegnevano presto? Ecco il mistero da risolvere, magari chiedendo, magari durante i compiti, magari prima di dormire.





