Ogni giorno uguale ha sparso stanchezza e sabbia,
chinato gli occhi senza vedere il selciato,
così s’annodano l’utile all’inutile
e restano grumi di vissuto,
scene contemplate e nebbia.
È tempo di riscrivere parole per un sentire nuovo,
che luccica e chiama a essere raccolto,
La mattina riemersa dalla stanca notte
si è cibata di castagne e uova cotte nella cenere.
Nessuna apparente traccia di ciò che ha lasciato il giorno,
l’aria distratta non ha conservato impronte,
né sospeso il sudore o suoni strappati come fogli.
Delle parole a pezzetti è rimasta l’attesa del vento,
del loro gioco, carnevale in volo,
ora c’è la sete che prende la mattina:
è lo scuro che non s’è visto,
che ha trasfigurato sé in lampi per la mente,
quelli che aprono labbra
e promettono alle lingue.
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bisognerebbe parlare solo di ciò che si conosce
Bisognerebbe parlare solo di ciò che si conosce. Ciò che si sente è un’area grigia dove la logica si perde. A maggior ragione ciò si capisce nella sfera del religioso e del credere. E chi non crede che fa, viene espulso dall’umano? Pur tra i tanti fondamentalismi, il poter esprimere l’onestà del sentire e non la convenienza, ha la possibilità di una carica di verità che fa onore alla civiltà. La civiltà del dubbio e del relativo ammette, quella delle certezze, esclude. Vale anche per i nuovi teismi, per le fedi scientiste, per la sopravvalutazione del reale, inteso come unico. Ripensando al racconto evangelico dell’ultima cena mi chiedevo se la storia comprendesse un’ inclusione, un’apertura, oppure se già ci fosse la differenziazione tra un noi e un voi. Non è cosa da poco perché si sono impiegati 2000 anni per arrivare alla distinzione tra errante ed errore nella chiesa cattolica, ma non era questa distinzione, che comunque conteneva una superiorità, che m’importava, mi chiedevo se la storia così come narrata e privata dell’alone dell’assoluto e del divino, contenesse un messaggio così universale da essere fondamentale e tolto dal tempo. Il prima della narrazione del Cristo è fatto di inclusioni, il discrimine è il credere come termine della salvazione, l’accoglienza del messaggio umano, comportamentale. Questo è ben più difficile del credere divino perché induce una prassi di vita e di relazione. E’ ben più facile credere alla salvazione piuttosto che praticarla con i gesti quotidiani. Ma si può credere anche solo nell’uomo che salva se stesso e gli altri? Penso sia indispensabile che sia così, per responsabilità, per restare umani. Per cambiare in positivo il mondo.
La storia dell’ultima cena viene letta conoscendone già la fine, ma io voglio pensare che se essa ci fu non fosse così triste, che ci fosse la convivialità e l’amicizia come dato prevalente e che solo il Cristo sentisse il peso della possibilità di una fine. Una fine che l’aveva seguito per tutta la predicazione, che l’aveva accompagnato nella rottura delle consuetudini, nell’inclusione dei pubblicani, delle prostitute e dei peccatori, Era questo lo scandalo per l’ortodossia. Scandalo che si riproduce tal quale nell’ortodossia della nuova chiesa, quella generata da un messaggio che dovrebbe essere inclusivo, badare all’uomo, e che invece punta a Dio, alla sua difesa dal dubbio, dalla ragione, dallo stesso uomo. Come se la divinità fosse più importante dell’uomo stesso. Ma è questo che diceva il Cristo? La condivisione è comunicazione profonda, amore e questo segue l’uomo che ama e condivide secondo possibilità ed errore. La possibilità di amare è per sempre, amore è momento, condivisione profonda, scelta che si ripete, non per forza ma per libertà.
Mi piace pensare che quella sera ci fosse il rito, l’allegria inconsapevole dei discepoli, la preoccupazione del Cristo e anche il suo vivere assieme a loro. Ciò che viene dopo riguarda ancora di più l’uomo: l’angoscia, la tortura, il supplizio, la morte, sono gli elementi di una storia ripetuta infinite volte e che ancora si ripete. Qui mi fermo perché il passaggio successivo esige convinzioni e analisi che non ho, in fondo a me interessa l’umanità che esprime il messaggio cristiano non il dogma, ed è lo stesso interesse che emana da altri messaggi che riguardano l’uomo. Neppure mi interessa il sincretismo tra religioni, è la storia di una positività di pensiero umano che riguarda la comunicazione profonda e l’amore che m’interessa, perché questa agisce sul reale, sul presente e non ha bisogno di credere ma di essere profondamente umani.
In fondo so ben poco e bisognerebbe parlare solo di ciò che si riconosce in sé che ci assomiglia.
difficile e predittivo l’inizio
Difficile e predittivo l’inizio, diceva la mia insegnante di lettere, poi il resto è opera d’artigiani del pensiero logico. Ed io facevo inizi folgoranti, salvo poi seguire le mie fantasie per pagine tortuose. E’ questione di pazienza, le dicevo, se si legge abbastanza magari non si coglie il senso dello svolgimento rispetto al tema, ma quello della testa, sì. ( Non mi pareva vi fosse eccessivo interesse per la mia testa). Mi consolavo, pensando che le migliori cose sono quelle fuori tema e visti gli insuccessi del folgorante, ero passato all’inizio ansante, quello che sembrava un cagnone accucciato un poco enfisematico, un inizio senza corsa, fatto di pennellate rapide, convulse, come se il passato fosse davvero già avvenuto, mentre chi scrive sa bene che il passato è davvero avvenuto solo quando lo si è scritto, prima è una sequenza di fatti, di fotogrammi con precario filo logico (il filo è sempre nel futuro, perché lì si capisce cos’ è accaduto davvero) e solo la logica delle parole può dargli un senso. Insomma io scrivevo storie che promettevano molto e poi menavano il can ansante per l’aia. Non mi capiva nessuno, neppure l’insegnante di lettere, che pure mi elargiva bei voti d’incoraggiamento e mi diceva, ma cosa volevi davvero dire? Io facevo il misterioso, alludevo, le parlavo della festa della sera prima e di quella della sera dopo, così lei capiva che ero festaiolo e un pochino m’invidiava, perché diceva, bella età, ma poi i nodi vengono al pettine.
Ecco questa dei nodi che vengono al pettine mi è sempre parsa una partenza fulminante, per niente scontata, perché per me era il pettine che veniva ai capelli. Faccenda questa dei nodi anche un tantino pericolosa, io avevo i capelli ricci e i nodi si scioglievano passandoci le dita aperte, ma forse si trattava di nodi più difficili e dolorosi rispetto ai miei. Cadevo nel dubbio, si avvicinava la fine della fatica scolastica e i nodi restavano. E se per caso fossi caduto nella configurazione topologica gordiana, la cosa sarebbe diventata critica, un qualsiasi Alessandro il grande(ne avevo più d’uno tra gli insegnanti) con un colpo di spada avrebbe sciolto il nodo, ma si sarebbe fermato a tempo? Ecco, queste cose mica le potevo spiegare alla mia insegnante di lettere, al massimo potevo dirle che i nodi non mi piaceva scioglierli e subire il rischio che ancora una volta lei non capisse nulla di quell’allievo che molto prometteva e nulla manteneva,
Fu allora che determinai che in ogni storia che si rispetti, anziché mettere in premessa ciò che poi sarebbe venuto, l’inizio sarebbe stato un parlar d’altro, e che il senso l’avrei criptato e nascosto tra le frasi del testo successivo. Pezzetti d’una storia che non finiva in un comporre chiuso, ma diveniva una sciarada che continuava a svolgere il suo senso.
Devo dire, sommessamente, per chi avesse capito l’andazzo linear circolare dello scrivere mio, che mica ne posseggo la soluzione, al massimo ne intuisco il divenire. Turing, genio assoluto e co-inventore con Newman di Colossus, la macchina per decrittare i codici che i tedeschi creavano con Enigma, mi avrebbe sputtanato in un attimo e m’avrebbe raccontato per filo e per segno la storia, quella che ancora non so come vada a finire. Ma la mia insegnante non era Turing, era bella e discuteva volentieri e forse per questo perdeva il filo del mio discorso.
Lei spiegava benissimo, molto e d’altro, ma chi m’affascinava era Gadda, chi volevo essere era Boccaccio, per via degli ormoni giovanili applicati alla letteratura, entrambi mi sembravano perfetti. Glielo dissi, lei mi rispose che c’erano altre sorprese nella letteratura. Non le credetti che al 78%, finché non scoprii Calvino. Lui non lo sapeva, ma alla stregua di Borges e della riscrittura del Don Chisciotte, la lezione di “una notte d’inverno un viaggiatore” io l’avevo già svolta, solo che non l’avevano capita.
Il segreto si nasconde nei dettagli, parimenti al buon diavolo, oppure nella pancia dove sembrano dormire le parole, e il rasoio di Occam serve a far la barba più che a scegliere, l’inizio è solo un inizio a cui se ne sovrappone un altro, così in sequenza perché se è vero che se si vuol sapere “dove vuole arrivare questo scemo” (Totò), ci sarà sempre uno che capisce e dice: “ma mi faccia il piacere” (idem).
il tango del tempo
Per scoppi, come se nel ventre oscuro s’accumulasse un’infinita bolla che deve uscire, così lo specchio nero del mondo sale. Per vie oscure sublima in rocce polite, in creste taglienti, il mondo ci attraversa lo sguardo e l’anima, è indifferente, guarda sé, neutrino che segue un pensiero senza limite. Non si cura, non ascolta se non per sue vie che radicano infinite, che non fanno domande, non si voltano e procedono mentre attendono un passo da noi, indecisi su dove andare.
Mai è il suo nome mentre interroghiamo il caso, seguiamo la possibilità e la chiamiamo speranza. Mentre parliamo al suo posto, mettiamo in bocca le battute al mondo e attendiamo parli, finché il silenzio diventa insopportabile e allora di nuovo la parola, la nostra, riempie un luogo, risuona nelle nostre orecchie. Miracolosa la parola fino a un nuovo silenzio, fino ad un’abitudine interrogante che tace e rapprende il poco che resta nell’aria e in noi.
Così il silenzio accompagna a lungo e quando trasuda in timore significa che non è finito a tempo debito per carenza di ascolto, di empatia.
Il tempo non ha debiti, casomai crediti e chiede conto mentre, in disparte, s’accumula il non fatto o ciò che dev’essere ripensato e ripreso nell’ interminabile gioco dove ciò che si scarta è sempre maggiore di ciò che si sceglie e però, il tralasciato, non scompare, sta quieto in attesa.
Di grandi coni d’infiniti grani è fatto ciò che resta in disparte. Ne vidi di enormi nei porti, si stagliavano contro il cielo, limitati solo dalla gravità e dall’attrito tra particelle. Potevano essere zolfo, e allora il colore giallo riempiva l’aria d’indebita allegria, oppure erano carbone lucente e grasso che assommava all’aria, polvere e piccoli mulinelli, che tingevano cupi il cuore, o erano minerali di ferro, rame e manganese che beffardi riflettevano la luce in caleidoscopi rivolti al cielo, o ancora coni di rottami tagliati da trance impietose, ridotti a parvenza di ciò che erano stati funzionanti, ma ancora vivi nelle tracce dei colori che li avevano vestiti. Erano arlecchini di passato, e mentori e presaghi, indicavano ciò che il desiderio sarebbe diventato.
Quei coni enormi, nati da benne indifferenti, erano acquattati in attesa d’un nuovo essere. Così è il tempo che non si compie, che non ha fine e linea di percorso: è granuli e gravità che rotola in nuovi equilibri e leviga le forme. Capsule d’attesa in un porto e possibilità scartate prima che divengano rimpianti.
Anche il cuore è un cono che si staglia verso il cielo e ha innumeri grani che danzano nel silenzio d’una musica d’attesa: un tango per il tempo che promette, accenna e non si compie.
il tango del tempo
Perché ora ti fidi, hai detto che non finiresti più.
Forse era la sfrontatezza sicura di chi attende,
o la luce che sorride dell’ignota possibilità
e del segreto d’una scaramanzia in attesa d’avverare.
Allora, nel suo fidarsi, il corpo s’è disteso:
dismessa l’arroganza il seno
il viso interrogava in attesa d’espressione,
e intanto, in un silenzio sorridente, hai porto la guancia,
perché era ora d’andare.
E di scoprire almeno il poco e l’importante
di ciò che s’era trascurato nel mettere da parte.
scritture con tratti grossi e sottili

Come l’ uccello femmina che si tuffa nel profondo, senza timore cerchi, trovi, e riporti in superficie ciò che s’era nascosto.
Al mio richiamo non rispondeva, non c’era, non era, sembrava un abbaglio. Accade di vedere con la coda dell’occhio l’amore che fugge, il cielo senza luce.
Nel silenzio delle notti estive una voce d’aria, pare sussurri parole desiderate, ma accendere la luce, illuminerebbe solitudini difficili.

Eppure, credo, e tu lo confermi, che il nome di ciò che si sente è ciò ch’esso contiene, e che non sia perduto, ma attenda la giusta voce, lo sguardo che ama, la mano che, in punta di dita, accarezza.
Leggero il polso, sublime il tatto, scrive parole grosse e sottili che si stendono, restano, penetrano, sollevano. E in quell’attimo infinito pare ci sia la felicità.

in parole povere
Quando si conclude la lettura di un libro ben scritto resta un senso di assenza, quasi un dispiacere. I libri che lasciano traccia, che spingono a pensare, che fanno scattare l’identificazione, non sono molti nella lettura contemporanea e non sono privi di conseguenze. Il primo effetto è che annullano molto di quanto si è letto recentemente. In un certo senso, ricollocano i valori e danno una dimensione a chi si è letto. Non si tratta di un giudizio, quello già nasce durante la lettura ed è legato al piacere di essa, ciò di cui parlo è che perdere qualcosa di scritto bene è vissuto (lo vivo) come una perdita interiore. Qualcosa che poteva farmi fare un passo avanti l’ho accantonato in favore di altro che mi ha lasciato com’ero. Il secondo effetto è che chi legge a volte scrive, non pochi di quelli che leggono si sono formati un’autostima su quello che, con fatica e piacere, è uscito dalla loro testa. questo è un processo personale che ha almeno due aspetti: la soddisfazione di un bisogno e la sensazione di avere un pensiero originale che può essere tradotto in parole. Entrambi gli aspetti sono positivi e credo vadano perseguiti come meglio ciascuno crede. Per quanto mi riguarda, mettendomi nella parte bassa dei bisognosi dello scrivere, dopo aver letto qualcosa di importante e bello, considero che le mie sono parole povere, che possono essere scritte ed espresse ma devono avere la loro dimensione di familiarità. Scrivere quasi per se stessi, per i pochi che avranno la pazienza di leggere, pubblicare a proprie spese ciò che di sé verrebbe disperso, è un’azione misericordiosa nei confronti di quel poco che si riesce a trarre da ciò che si è. C’è una dimensione tra l’ascolto e il dire che ci riporta dentro di noi, che ci fa riflettere e a volte prepara una risposta, ma i grandi libri e il conversare profondo non producono risposte, ci mettono davanti alla profondità di ciò che non abbiamo esplorato e mentre cechiamo una mano da stringere, un pensiero che ci accompagni, subentra una grande gratitudine perché la bellezza del mondo è stata riconosciuta. Non scritta da noi, ma riconosciuta e questo non può che renderci un po’ felici di esistere.
storielle d’universi paralleli
Da tempo, (si dice così per rappresentare un farsi dei pensieri, un ruminare che per motivi estetici diventa rimuginare, ed è un mettere assieme pezzetti sconnessi di parole, senso e tempi diversi. Tutte cose che una scatola di lego fa molto meglio di noi, solo che quando si è adulti e si vuol dare un senso preciso alle cose, si resta con il mattoncino tra il pollice e l’indice e ci si chiede come meglio approssimare la realtà, notoriamente curva, con qualcosa che è un parallelepipedo) ovvero stamattina, ho sentito una riflessione sulle parole e sul loro approssimarsi e approssimarci dentro di noi. Tiziano Scarpa descriveva il farsi della parola e la sua imprecisione e che quando essa veniva usata era come portarsi all’orlo del precipizio (del senso, immagino). La cosa mi ha colpito perché per me le parole sono contenitori e come usano gli illusionisti, dal contenitore vengono estratti fazzoletti di seta multicolori annodati, conigli, cappelli, magari anche l’assistente, l’illusionista è particolarmente bravo, ma il tutto ha comunque un legame che pur approssimando descrive l’illusione di dare un nome al mondo. Proseguendo nei pensieri, mi è tornato a mente, un blocco di parole che in un romanzo russo contemporaneo, descrivono l’attività soddisfacente di una protagonista. La signora in questione, si chiama Elena, fa la disegnatrice tecnica di motori per carri armati ed è felice che con tre proiezioni assonometriche, finezza di segno e quote, possa essere descritto compiutamente qualsiasi pezzo che diventa da quel momento riproducibile e quindi privo di equivoci. Insomma acquisisce una identità perfetta. Lei pensa che anche le frasi abbiano una loro particolare prospettiva che dà loro senso di cosa ed è somma compiuta di singole rappresentazioni.
Questo produrre cose e dare loro un nome, ha anche un processo nell’immateriale, ovvero descrive l’indescrivibile e allora approssima, ma non per questo diventa incapace di suscitare sia l’immagine di ciò che descrive, sia il suo senso profondo emotivo in grado, miracolo, di mettere in sintonia persone che non si conoscono oppure di approfondire in modo vertiginoso la conoscenza tra chi si crede di conoscere. E tutto questo con un mezzo imperfetto che sostituisce la mera indicazione di un dito e di un suono più o meno preciso che diventa quella cosa. Il fatto è che noi il multiverso e il meta verso lo possediamo in noi e che tutto quello che la tecnologia ci può dare è la rappresentazione imperfetta del sogno e del suo sconfinare nel risveglio. Quindi lo sconnettere la precisione dalle parole sarà seguita dallo sconnettere identica precisione dalle cose e dalla loro immagine. In definitiva possiamo descrivere o compiere o fare entrambe le cose, magari riassumerle in un processo strano che chiamiamo poesia e che ha potenza evocativa formidabile quando è buona. Oppure possiamo usare un’altra notazione e leggere musica, persino scriverla o cantarla e poi riascoltarla indefinitamente e scoprirne ogni volta sensi nuovi. E se alla musica uniamo le parole ottenere insiemi così potenti che in alcuni casi possono sollevare passioni oppure quietarle e sempre con gli stessi segni su un pentagramma se siamo in occidente. In oriente qualcuno o qualcuna, piangerà o si sentirà pieno di vita per parole differenti e accordi meno usuali di quelli che si frequentano nell’altro emisfero, però, e qui concludo, è proprio quell’approssimare che va dritto al senso, differente per ciascuno di noi e che ciascuno costruisce come fosse un castello di lego dove la fantasia rende i vuoti, stanze e i pieni, mura, ma l’insieme è un brulicare di possibilità di accadimenti che hanno come riferimento ciò che ci sembra di conoscere: le vite.
Scrittore
Scrittore. Una parola che significa qualcosa se ciò che scrivi interessa qualcuno.
Scrittore. Quando si inizia a mettere insieme delle lettere, formarne parole e farle corrispondere a delle cose. Inizia per fatica e per gioco, per comunicare si adoperava altro e a provare sentimenti si era iniziato prima, ma non c’erano le parole giuste. Le emozioni, invece, le parole le avevano, ed erano associate al pianto, al riso, alla testa altrove.
Scrittore. È qualcosa che inizia per bisogno, per scherzo, per euforia, per narcisismo e per disperazione. È qualcosa in cui bisogna credere e mentre ci si crede si sa che non ci si crederà mai per davvero, però diventa una droga e non si riesce a farne a meno. Si scrive per assuefazione e per saturazione interiore.
Scrittore. Prendere in mano un vocabolario e cercare una parola, vedere la successiva e poi un’altra e sentire che esiste un mondo che non si conosce e magari ti descrive, ma è sempre parziale, imperfetto, come la lotta contro il significato profondo della parola da estrarre e della frase da comporre. Non sono mai come dovrebbero. Se può consolare si capisce che ciò che dà un dizionario un vocabolario digitale non lo darà mai: la curiosità del dopo e della sequenza insperata.
Scrittore. Pensare che una parola suoni per come la scrivi e usare la lentezza necessaria, osservare come l’inchiostro si assorbe nella porosità della pagina, lasciare che il pensiero divaghi dentro la parola scritta, dentro le lettere e osservare che le t non vengono sempre tagliate, le e e le a si assomigliano troppo, le asole si restringono o si allargano con l’umore. Sono solo diversivi per lasciare che la parola parli.
Scrittore. Scrivere così in fretta per timore che scappi la giusta sequenza delle parole che si sono formate da sole in testa. Bisogna far corrispondere le parole a quello che si genera dentro.
Scrittore. Leggere molto e capire che quello che durerà di tante parole, sarà nulla o quasi, che di valore c’è la fatica e che questa è dentro un processo economico. Ma se lo scrivere è disinteressato, allora perché scrivere? Sapere che è un bisogno non basta, si pensa che ciò che si scrive durerà più a lungo di noi, che comunque sarà una traccia. In fondo, a parte pochi fortunati o fantasiosi, c’è talmente poco di ciò che ci ha preceduto che scrivere diventa un messaggio in bottiglia che qualcuno potrebbe trovare interessante.
Scrittore. Si rivolge a qualcuno che non è mai reale fino in fondo. La stessa realtà in cui avviene la scrittura non è reale allo stesso modo per chi legge e per chi scrive, tantomeno se non viene letta. Ad esempio: dico che ho sognato e ne ho la traccia vivida al mattino, non mi viene chiesto cosa sogno, eppure i sogni dicono molto. Bunuel nel racconto del soldato in uno dei suoi film più belli, mette una realtà parallela a confronto con quella apparente e tutti lo ascoltano. In ogni libro sacro ci sono tracce di sogni e del loro racconto, come premonitori oppure come parte della stessa realtà che modificano. Il sogno è un racconto per eccellenza, sfrenato e ricco di parole con profondità inaudite, con un legame che si definisce simbolico ma è coerente con ciò che è relazione e profondità. Uno scrittore dovrebbe tenere in gran conto il sogno e raccontarlo.
Scrivere. Mandare lettere a persone, su carta bianca e con penne e inchiostro. Mentre si scrive chi leggerà prende forma nella mente, suscita emozioni, porta a chiedere e a raccontare di più. Se si ha confidenza la scrittura a mano, libera il sentire, fa dire cose difficili e mentre si scrivono le fa capire, solo le convenzioni, il pudore, il timore di eccedere fermano la scrittura diretta.
Scrivere e pensare di essere capiti, letti. Anche tra le righe. Anche dove viene celato ciò che per essere detto attende un permesso. Superare la riga che limita e scrivere senza altro scopo che mettere insieme l’immagine e la sostanza. Non la storia, quella serve per tenere l’attenzione, ma il racconto, dove viene chiesto aiuto, amore, plauso, comprensione. E non sapere se questo avviene. Per questo scrivere è un gesto gratuito e insieme necessario, ha in sé l’inutilità dell’incompiuto che cerca i pezzi che gli mancano ed è felice di qualcosa che s’aggiunge.
cuore d’intendimento
Cuore di intendimento, quasi comprensione, paludata sintesi per mettere una conclusione ad un sentire aperto. Un pertugio spalancato come una bocca che cerca parole anziché aria e le sente offese perché inesatte.
Non vengono, viene luce ed evidenza, pulviscolo e acari. S’inghiottisce il pulviscolo? E cercando a ritroso la mente qualcosa ritrova; non è esattamente ciò che accadrà. E’ accaduto, un po’ c’assomiglia a questo presente/presentire/presumere e così anche il capire s’assomiglia, si confonde e scioglie nella luce di un desiderio. Come se ciò ch’è avvenuto bussasse, chiedesse educatamente udienza e poi, poco a poco, diventasse arrogante. Ecco, le parole sbagliate sono arroganti, ma non ciò che si sente ed è incompiuto, no, quello ha una gentilezza che viene dalla propria incapacità. Può chiedere e non essere esaudito e comunque non sarebbe ciò che aveva sognato.
scrivere frasi corte

Scrivere frasi corte, pennellate, fotogrammi, associazioni di pensiero, ricordi e futuri mescolati. In un fotogramma ci sono talmente tante cose che non si notano, clandestini beffardi rispetto al pensiero. Animaletti, oggetti utili all’interrogarsi sul perché c’erano. Nessuno li aveva chiamati eppure assistevano ed erano protagonisti rispetto al focus che doveva essere unico. Per questo i professionisti mettono uno sfondo neutro, ma anche loro non vedono tutto ciò che entra, un dente che sorride, una piega dell’orecchio immodificabile, la disposizione delle scarpe che si intrecciano, affiancano, sovrappongono. Per loro conto le cose operano, almeno in parte.
Scrivere frasi corte senza un significato immediato. Chi non segue, non si sforza, è in attesa d’altro: non capirà mai la complessità. Le parole sono complesse e semplici. Non rispondere subito di sì è quasi un negare che dev’essere dissipato. E se non lo è, il silenzio assente o nega? Usare il silenzio come frase corta.
Un tramonto è un tramonto eppure è colore, nubi, atteggiamento, attesa, nervosismo, stato d’animo, distrazione. Nel fotogramma c’è tutto quello che non si vede, c’è l’atteggiamento del non vedere. Parlare d’altro, del poco attinente, dei progetti tra un’ora, di chi non c’è.
Attenersi è linguaggio burocratico. Immagine di foglio A4 legal, un solo argomento per comunicazione. Paura di confondersi, di mischiare il messaggio. La realtà resta fuori delle pagina, è interpretazione. Per questo le cose non si ripetono uguali e c’è una direzione nei fotogrammi che permette ai particolari di entrare e uscire, di aggiungerne di nuovi, di avere nuove vite mentre nulla si sa delle precedenti. Dove esse siano finite, dove riposano o si dissolvono.
Scrivere frasi corte e rispettare la sezione aurea. Qual’è il posto del particolare nella sezione aurea. E dove il ricordo? Finire con una domanda che ha la risposta nell’incipit. Tu dove sei in tutto questo? Ridurre la frase a tu e non sapere di chi si parla.
Tu.