camminare la vigilia

Ogni giorno correvo verso i giochi, anch’essi fatti di corse, cadute, polvere e rincorse. Ogni mattina camminavo, mia Nonna mi accompagnava a scuola e d’estate dove si poteva correre. Ai giardini o nelle piazze di sera, con lei, mano nella mano potevo andare ovunque.
La sua mano era bella, appena più grande della mia. Era fragile e tenace, regalava la sicurezza e ciò che mi era necessario.
Con mia Nonna ho imparato a camminare, ad amare il cammino come modalità del vedere e del sentire. Molte volte all’anno il camminare assieme diventava speciale e due di queste erano consegnate alla sua religiosità, le vigilie di Natale e di Pasqua che avevano itinerari fissati e duravano l’intero pomeriggio.
La vigilia di Natale si andava a vedere i presepi, la vigilia di Pasqua erano i Sepolcri i protagonisti. Mia nonna aveva abitato sempre dentro le mura cittadine, e le Chiese erano quelle storiche della città, con qualche digressione per luoghi che ho imparato ad amare con lei.
Le chiese erano grandi, spesso altissime ma tutte particolarmente buie, gli altari coperti di panni violacei sembravano tolti all’esistere, solo al centro della navata o in una cappella importante, era tracciata una grande croce a terra fatta di candele e fiori. Le persone si inginocchiavano, alcuni sostavano a lungo, altri un segno di croce e qualcosa mormorato a fior di labbra.
Mia Nonna sostava poco, guardava e io facevo lo stesso, confrontando mentalmente quello che vedevo con la cura di altri Sepolcri già visti. Non riuscivo a collegarli al racconto della Passione che avevo ascoltato il giovedì, le mie preghiere erano quelle di un bambino e in latino, imparate perché in quei luoghi si dovevano usare.
L’altare dove andava mia Nonna era quello della Madonna, lì si fermava e accendeva un cero. Le donne di casa avevano una particolare devozione per la Madonna, credo la sentissero una persona con cui si poteva parlare e che capiva sia i problemi da risolvere che la loro condizione. Una vicinanza che era confidenza, da Lei poteva venire consiglio e comprensione.
Ho visto, da adulto, che accadeva lo stesso in altre donne e non importava in cosa credessero ma il rapporto con la Madonna c’era ed era tanto più forte quanto più era appartato. Un bisogno di confidenza e una certezza di ascolto.


Mia Nonna non aveva avuto una vita facile, ma l’ho sempre sentita serena e amorosa, con me in particolare, nei giorni della Pasqua qualche parente veniva a trovarci e lei ne era felice.
Ne parlavamo camminando, di solito era già arrivato a casa e il giorno dopo avremmo pranzato assieme, ma quel parlarci era fatto dalle mie domande e dalle sue risposte che spesso erano memorie. Tempi che risalivano verso l’inizio del secolo e oltre, storie di casa e poi di migrazione, di un abitare distanti, tra lingue sconosciute in bocca a persone come noi, solo che questi uomini e donne avevano il potere di accettare o rifiutare chi arrivava per abitare e lavorare. Un potere immenso perché essere rifiutato implica a una solitudine e un timore ancora più grande e allora serviva coraggio, silenzio e dignità e lei e il nonno ne avevano ben più che a sufficienza per farsi rispettare. Le chiese erano i luoghi comuni, la lingua era il latino, le immagini dei santi, della Madonna, del Cristo, le stesse, li si poteva andare senza timore. Mia Nonna l’ho conosciuta così sin da piccolo: coraggiosa e fiera della sua libertà, con una vita difficile che non faceva pesare su nessuno e che aveva trasformato in amore per mio Padre e per me.


Il nostro giro continuava nel pomeriggio della vigilia, che riempiva le strade. Le vetrine sfavillavano di carte colorate, di uova di cioccolata, di focacce piene di mandorle e anche chi vendeva abiti o scarpe per la nuova stagione aveva uova in vetrina. Noi entravamo ed uscivamo dalle grandi chiese, dall’oscurità alla luce, finché queste si equilibravano e si accendevano i primi lampioni. Allora era tempo di tornare, un dolcetto per me e le caramelle al latte e i pescetti di liquerizia da mettere in un cartoccio in tasca ed estrarre per gustarlo e succhiare piano.
La sera, a casa, avrebbero cotto e colorato le uova con il caffè o con altri misteriosi colori pastello, servivano per il mattino seguente e per chi veniva in visita. Da qualche parte un uovo con sorpresa mi aspettava per il pranzo del giorno dopo, la cena già aveva novità in tavola e i discorsi leggeri della festa, poi a letto, sentivo le donne di casa che andavano alla messa di mezzanotte. Ogni volta mi ripromettevo di attendere sveglio per chiedere cosa c’era di speciale da vegliare così a lungo, ma ogni volta m’addormentavo e mi svegliavo nella festa.

un lento ritorno

I gesti inutili hanno un senso come i giardini delle case in cui non abita più nessuno.

Dietro al cancello, stretto da una catena di ruggine, crescono erbe, alberi, fiori. Seminascosti stanno oggetti abbandonati che ricordano qualcosa; quieti aspettano d’essere anch’essi piante e rifugi d’animali. Davanti al cancello infiniti ritorni, passi che rallentano, visi ricchi di ricordo che guardano e si soffermano. Una mano stringe l’inferriata, ne prova la mobilità, ma è un posizionare il corpo verso una visione più attenta, gli occhi scorrono e cercano ciò che in realtà un tempo era condiviso. Una mano nella tasca a scaldarsi, parole inesauribili e la sera che calava nelle strade mentre luci e nebbia preparavano la notte. Ci sono luoghi che portano dentro a un vortice in cui si sovrappongono i sensi e l’accaduto. Un profumo particolare, l’aria sul viso, un saluto inatteso, la voglia di essere ovunque e insieme sapere che quello è un luogo di magia.

Chi si ferma toglie la mano dal ferro e si guarda attorno, intimorito da ciò che sente e che pare essere voce che narra attorno, d’altro tempo e speranza e vita, poi tutto si è costruito come doveva, ma quel luogo è rimasto dentro.

Nell’attesa che qualcuno si soffermi, il giardino respira, pensa, accoglie gatti e uccelli, tiene da conto lo sbattere d’una imposta mal chiusa, ricorda parole che sono state dette, quelle sussurrate, le piccole falsità, le certezze maturate sulla pietra d’una panca poco distante. Attende, il giardino, ciò che non ritorna, che forse è stato, ricorda il bello che è sembrato, gli pare ci sia stata una porta sbattuta, il silenzio, le risposte vaghe, ma questo era d’altri e i volti si sovrappongono. Ora non riconosce nessuno e tutti, pensa alle scie che lasciano i gatti, al cibo che viene loro dato attraverso l’inferriata, togliessero almeno la plastica dei contenitori. Toccherà a lui, assieme al sole e all’acqua, decomporre, togliere il colore dai cartocci, far crescere erba che nasconda e s’alimenti.

Più distante dal cancello, davanti alla porta della casa, c’è la pietra tenera che era sedile e gioco, ora il giallo è diventato grigio ma le impronte di infinite sedute di bimbi e adulti si vedono nel muschio. Attorno l’erba è alta, il vento la muove con dolcezza attenta e indaga, chiede delle crepe nel vialetto, nella tazza della fontana dove ristagna l’acqua ormai verde di tempo.

Nulla è stato invano ed è nulla che diventa aria e verde e guarda la mano che s’allunga, strappa uno stelo per farne suono d’erba tra le labbra. E’ un gesto che conosce, d’allora antico, che canta una canzone. E’ più un pensiero che melodia di suono, ma è il senso che ciò che trascorre è nuovo.

omeostasi

“Bisogna davvero riuscire a conservare in sé qualche traccia inestirpabile di ciò che si è stati prima di quella grande disfatta che si chiama maturità”
Romain Gary

L’omeostasi ovvero il nostro muoversi verso ciò che permette la vita include dove e ciò che siamo, come lo sentiamo, chi siamo. Tutto separato e frammischiato come si pescassero i numeri dal sacchetto della tombola perché il gioco è unico come il suo fine. Per il corpo è importante stare bene, per lo spirito o la mente, meno ma star male non piace all’omeostasi. Quindi tutto si tiene, si conserva e si evolve e del passato si può parlare bene anche solo per il fatto di essere vitali e attempati.

Però di quegli anni le parole non danno misura, sono immemori della dimensione dei giorni e delle notti, delle passioni che le animavano e le rendevano brevi e infinite di connessioni continue. C’era una dolcezza diffusa, anche i profumi erano diversi, e questo manca, come la reversibile pazzia degli unici amori, delle attese senza fine, del palpitar sognando. Su tutto imperava una agitazione allegra che faceva cantare con la voce e con il corpo. Il tempo non passava mai e sfuggiva tra innumerevoli impegni, doveri, piaceri.

Difficile dire a posteriori che si era felici, ha ragione il poeta, ma la quantità di sensazioni che si ottenevano vivendo era smisurata. Prima tra tutti la consapevolezza di vivere un tempo irripetibile che ci mutava in persone differenti da prima di allora.

Imprudenza nel credere e nel lasciarsi prendere, eppure L’omeostasi funzionava, ma gli scenari che traccia vano le sensazioni nella mente erano così ricche e alternative da considerare vitale la vita complicata, l’assenza, la delusione assieme all’innamoramento, alle felicità improvvise, le presenze totalizzante.

L’età matura fa emergere l’intelligenza della conservazione, porta verso il caldo, il buono, il dolce ma con parsimonia d’entusiasmo, è questo che permette le vite e scatena altri scenari dove le sensazioni oscillano tra il ricordo e un nuovo legato al possibile.

La linea del possibile è la misura di ciò pensiamo di noi e su questa linea danza il tempo nostro.

Tre pezzi facili 2.

La vita era molto piena, non ci si annoiava mai. Era diretta e allusiva, furba per galleggiare tra gli sfottò dei saputi o degli appena grandi, era fragile dei rimproveri sconosciuti, delle inabilità a fronte dei talenti degli amici, era competitiva e tenera, dura e molle a un complimento. Resisteva alle lacrime ma non all’indifferenza. Era una vita di maschi e femmine che stavano insieme solo in alcune occasioni, che divergevano e si congiungevano nei desideri, nei pensieri, nelle canzoni.
L’innamoramento era alle porte, anzi era dentro casa, urgeva tra il timore e lo sfrontato. Sceglieva percorsi arzigogolati per un incontro che di fortuito non aveva nulla, solo scuse sciolte in sorrisi. Passare da Vivaldi a Messiaen, ascoltare rapiti dal calore della mano nella mano il Quatour pour la fin du temps. E poteva finire il tempo in quel calore, purché fosse eterno. Tutto era eterno, scivoloso e fulgido, si stampava nel pensiero mentre il resto regrediva. Non c’era altro, tutto al servizio, passioni, tempi, esami, giustificazioni, una gloria fatta di assenza e incontro, sino alle parole che segnavano il prima e il dopo.
Era facile percorrere le notti, essere vigili e sovra pensiero, non tornare a casa, non dormire, mangiare il necessario per non provocare domande e lavarsi per tenere il proprio odore puro, sapendo che poi si sarebbe mescolato con il suo e non se ne sarebbe andato dalla testa.
Quante parole possediamo per definire uno stato di grazia? Parole convincenti e piene di significato che si riducono a nuovo sentire, parole insufficienti, eppure colme. Poche e assolute, racchiuse in geodi di tiamo, da maneggiare con cura, da assaporare in assenza e da pronunciare piano in presenza, mentre tutto è tumulto e rossore.
A casa dicevano poco, capivano molto, chiedevano il necessario con una tranquillità che esasperava e che accettava tutto, i silenzi e le mezze ammissioni. Si arriva a capire quando si vuol bene e non si chiede, ma si osserva tra l’apprensivo e il divertito, riandando indietro e ricordando altri propri innamoramenti, difficoltà, timore di perdere e di ottenere rifiuti e gloria di cieli azzurri. Tiepolo e i suoi trionfi racchiusi negli occhi con quelle nuvole così bianche, così, gonfie di benevolenza del cielo, una gita, un palazzo, un pranzo in osteria, sotto una pergola, raccontato come un’avventura piena di sorrisi. Mai sentita, mai più udita, un dono di un passato felice, immemore di ciò che sarebbe venuto poi. Vita, solo vita.
E tutto continuava tra assemblee e comunicati, occupazioni, cortei, bandiere, braccia strette, lacrimogeni da schivare e, per fortuna, bombe distanti nel tempo se non nello spazio. Bastava poco, bisognava preservare se stessi e chi si amava con la sublime incoscienza di chi non conosce il nero ovvero di quello che è assenza di tutto, che tutto sottrae e fa diventare scura la notte. Scegliere se andare soli o in compagnia, viaggiare attendendo il ritorno. O in compagnia oppure giorni sovrapposti a giorni che si frantumano tra le dita e scivolano via. Attese, nuove attese in un percorso circolare che non si esaurisce.
Com’era la città per un cuore nuovo e felice? Immensa e accogliente, ristretta in nuovi particolari che dilatavano ciò che prima era conosciuto e distratto. Bisogna scegliere un amico o un’amica quando si è innamorati per raccontare quello che trabocca, quello che deve uscire perché non siamo fatti per tenere dentro l’universo. Con parole che appena dette sono già insufficienti, si spiega e al sorriso si racconta l’incontro, il sentire l’altro come assoluto, ci si abbraccia e ci si sente parte di qualcosa che riguarda la vita. Può bastare così per un bel po’ perché poi tutto deve rimanere dentro, essere il silenzio più allegro e felice mai conosciuto e alimentarsi di trepidazione e assoluto che assorbe la realtà. Che fine aveva fatto la vita da maschi che giocavano a carte fino a tardissimo, le bevute, il cantare nel coro, la gioia di correre senza motivo, ebbene c’era tutto ma diverso e altrettanto preparatorio e pieno di vita. Prevaleva la voglia di essere tutto e insieme sciolto in quella sensazione di pienezza mai provata.
Se tutto fosse stato riassumibile in una sensazione, mi rendevo conto che ero a uno spartiacque del vivere e che ora il futuro non era atteso, ma era nelle mani di una ragazza e nelle mie, unito da quel desiderio di viverlo assieme.

Così finiva quella che era un’età verticale che già allora non esisteva più e coincideva con un’idea della giovinezza che apparteneva alle generazioni precedenti. Noi saremmo stati, ricchi di amore, passioni, di fare e di essere, immersi in problemi nuovi e in cambiamenti inusitati, come mai prima. La vita si attraversava assieme e in quell’assieme c’erano contenuti nuovi, poco discutibili con chi ci aveva preceduto. Ciò che era divisione verticale nelle stagioni della vita, diventava orizzontale, sedimentava e si sovrapponeva entro ciascuno, con un accento nuovo, accelerando e mescolando la percezione dell’età, il mondo, la tecnologia, i sentimenti e le vite che non avevano nulla di comune e non erano spiegabili se non attraverso un primato dell’esperienza che era insieme libertà, vita, amore. Si entrava così nelle età divenute numeri e non condizione, con la stessa forza con cui il primo rompighiaccio libera la rotta alle navi imprigionare dai ghiacci nel porto di San Pietroburgo e con questa scia dà ufficialmente inizio alla primavera.

la ricerca del tesoro

Oltre i portici, dietro le case che si appoggiano l’una all’altra, ci sono rettangoli di terra. Sono antichi orti di città, separati da muretti di mattoni, alti secondo l’amicizia tra vicini. Alcuni con gli spazi per appoggiare i gomiti e conversare, altri di tale altezza da occludere la vista e irti di cocci di vetro destinati a ipotetici ladri o gatti stranieri. Abitavo in una di quelle case del centro che un tempo era appena fuori le prime mura medievali della città.

La città dei Veneti, poi romana, era diventata bizantina come tutte le città vicine alla costa dell’Adriatico. Per  la sua importanza era stata il baluardo di difesa a nord dell’esarcato di Ravenna, dopo che Aquileia e le altre città della decima legio erano cadute sotto dominio longobardo. Intorno al 598 accaddero fatti straordinari e gravi, i due grandi fiumi che difendevano la città, per forti inondazioni e sconvolgimenti naturali, cambiarono corso spostandosi dal sito consueto. Si doveva capire che i presagi non erano buoni e infatti due anni dopo, la città fu cinta d’assedio dai Longobardi; rifiutò d’arrendersi e resistette 10 anni, poi capitolò. Ne parla Paolo Diacono, dicendo che l’intera città fu distrutta dandola alle fiamme e abbattendo le mura e gli edifici principali. La rovina fu proporzionata alla fierezza dei difensori e talmente severa che gli abitanti si ridussero a poche migliaia da quasi settantamila che erano prima dell’assedio. Restavano pietre ed erba dove c’erano stati porti, anfiteatri, terme, edifici imponenti, ville, case, ed ora sulle vie consolari pascolavano le pecore e si viveva nelle capanne. La sede vescovile fu soppressa per due secoli e spostata a Monselice. Si era tornati agli albori della storia, quando gli euganei popolavano di palafitte i fiumi, si raccoglievano in villaggi, avevano lingua, scrittura e forza militare. Accadeva ben prima che Roma nascesse e questi allevatori di cavalli, artigiani e guerrieri commerciavano con gli Etruschi, correvano i fiumi e raccoglievano e vendevano il sale della laguna.

La mia casa aveva un notevole riquadro di terra all’interno, si coltivava l’orto, c’erano alberi da frutto, spazio per correre e giocare. Non distante da dove abitavo era stata scoperta una villa romana, una piccola parte ma significativa. Era emerso un grande pavimento a mosaico e con figure colorate di uomini e animali, contornato da fregi intrecciati, era parte di una delle stanze, quale non si capiva. Era stato estratto intero e portato al museo. Si diceva che, per certo, la villa fosse ben più grande e che non si riuscisse a perimetrarla semplicemente perché le case le erano state costruite sopra, e altri pavimenti erano sotto cantine, strade, od orti. Questo racconto, unito alla vista quotidiana di quel mosaico che era sulla strada per andare a scuola, l’avevo udito in casa e aveva acceso la mia fantasia. Così d’estate, con la scusa di curare l’orto, scavavo buche a casaccio, aiutato dal cane di casa. Emergeva di tutto e nulla di quello che volevo, pensavo che anche in quella terra lavorata da millenni, ci fossero tracce di antichi manufatti. Mi accompagnava la curiosità interessata del mio cane, gran seppellitore di ossi, che però, oltre a riempirmi le scarpe di terra, non aveva gran utilità nella ricerca.

Ma io cosa cercavo? Credo mi aspettassi di trovare un tesoro sepolto da qualche abitante prima che la città capitolasse, magari una pentola di monete od oggetti preziosi di una casa patrizia sfuggiti alla devastazione dei longobardi. Oppure un pezzo di mosaico, un vaso, un’anfora come quelle che si vedevano nella casa accanto. Insomma qualcosa si sarebbe trovato. Per non tirarla troppo in lungo, nelle ripetute campagne di scavo, venne fuori una quantità industriale di radice di cren, ottimi vermi da pesca, non pochi ossi di manzo e prosciutto riseppelliti con solerzia dal cane Poldo, un notevole assortimento di pezzi di vetro e di ceramica, una monetina dello stato pontificio della fine del 1500, pezzi di marmo che attribuii a colonne spezzate, un paio di capitelli che lasciavano ben sperare, molta stanchezza serale. L’orto non fu mai così ben vangato come in quell’estate e a settembre chiusi la campagna di scavo.

Mi è tornato a mente quel tempo, così ricco di attesa, perché è una buona metafora della ricerca dentro di noi. E cioè, una fatica notevole, idee confuse, poca sistematicità nel cercare, la fortuna che latita, ritrovamenti che sembrano incongrui e che vengono scartati rispetto al grande risultato atteso, stanchezza finale. Allora avrei dovuto seguire la pista della monetina, insistere sui marmi e sui capitelli, cercare i collegamenti tra le cose e invece volevo il tesoro. Volevo cioè dimostrare che la ricerca produce un cambiamento radicale e immediato. Ho capito molto dopo che nel cercare dentro si trovano un sacco di cianfusaglie, che ciò che appare è la superficie scambiata per il profondo. E ho anche capito che serve metodo e silenzio, pazienza e acume. Tutte cose di cui siamo dotati, ma che  se applichiamo nella ricerca in profondità, diventano difficili da gestire su un risultato, ovvero portano dove vogliono loro.

Ho capito con molto ritardo, che non si trova ciò che si cerca, ma ciò che ci cerca ci trova e che questo, quasi mai è piacevole e non risponde al risultato atteso, però è in grado di cambiarci un poco, di attivare nuovi percorsi di vita, di farci scoprire legami inattesi. In fondo ciò che c’è sotto ha un suo fascino e si riallaccia a me. È la mia storia, non come me la sono raccontata, ma come si è creata facendo interagire la resistenza alla conquista, la punizione conseguente, la volontà di creare il nuovo, la capacità di non dimenticare nei secoli bui del cuore, chi ero. E questo processo, ne sono convinto, è quello che percorriamo tutti se cerchiamo qualcosa. Per questo non smetto di cercare e sono convinto che il sotto non smetta mai di dialogare con il sopra, attenda paziente di essere scoperto e di rivelarci il tesoro della conoscenza che non si esaurisce. Cari colleghi che non vi accontentate della superficie, buona ricerca e che gli dei del profondo ci aiutino.

fratture

Bisogna rendersi conto che esiste la frattura. Nelle cose è facile ammetterla, persino porvi rimedio, più complessa è la sua gestione nei rapporti tra persone perché dolorosa nel sentire e perché traccia un prima e un dopo, senza ponti. Resta il ricordo. Dovrebbe essere ripulito dalle nostre scorie, riportato a fatto, essenza pura. È più facile ricoprirlo di indifferenza, di rancore, togliere lo smalto a ciò che è stato perché ora non è più. Questa mancata persistenza, ferisce, questo genera il rancore. Sapere di essere sbiaditi, non più importanti, cancellati, tocca nella considerazione di sé, ma c’è altro su cui si fonda la ferita. Nella rottura, qualunque essa sia, l’uno scriveva ancora una pagina e immaginava ce ne fossero altre, l’altro, sia esso umano o oggetto, ha già chiuso il rapporto. È una tazza che cade e si frantuma, un libro perduto, un treno di cui si vede l’ultimo vagone, comunque sia accaduto: è finita una storia. E chi usa lo scrivere dovrebbe sapere quando è tempo di concludere perché ogni ulteriore passo è nel nulla.

Chiudere porta con sé un silenzio, differente per ogni caso. È quello della scopa che raccoglie i cocci, rumoroso e costernato. È quello della banchina svuotata della stazione ricca di voci estranee, o, nella consuetudine, quello della mano che si ferma e non cerca più il contatto. La mente è divenuta consapevole, ha capito che è finita la storia e ora c’è il momentaneo vuoto che porta ad altro. Questo altro non esiste ancora, ma esisterà e non sarà uguale, non rimpiazzerà nulla di ciò che si è frantumato, sarà altro e nuovo.
Per questo, forse, neppure un saluto è necessario, per sancire dentro che quanto ha avuto una sua bellezza non è recuperabile. Deve restare solo il bello nel ricordo.

viene il nuovo

Viene il nuovo,
che matura nel cuore dell’inverno,
come frutto acerbo della passata stagione.
Viene senza chiedere,
segue occulti sentieri,
e abbiamo bisogno d’auguri,
di frecce nel cielo,
di vividi fuochi per piegare presagi.
Ciò che ancora non è
si fonde con ciò che è già stato,
ma è solo timore del cuore.

Per questo vi auguro amici difficili e sinceri,
hanno anime a cui parlare,
e il loro affetto non ha dubbi.
Vi auguro passioni
che travolgono abitudini,
nel mostrare realtà ardue
ed esaltanti.
Vi auguro passi misurati ed infiniti,
direzioni prese con il cuore,
ritorni senza rimpianti.
Vi auguro simmetrici amori,
dolcezze silenti,
fortuna d’occhi che parlano
e le carezze che sentono.
Vi auguro serenità nel giorno che si farà,
libri che scandaglino il profondo,
pensieri nuovi, mai prima usati,
e inusitato sentire.
Nuove abitudini, vi auguro,
che diano piaceri quieti,
preparino imprese inattese
e diano piacere al vivere.
Per noi vorrei il cuore che vede il mondo,
l’intelligenza che si dona, senza risparmio,
la pace che si conquista assieme.
Che sia un anno possibile,
dove il buono ci faccia bene,
il bene e la giustizia siano di tutti,
senza tema d’essere eque, forti
e nate da buone volontà.
Che ci sia pace, senza sofferenza,
abbracci che cancellano vicendevoli mali e un vento nuovo che percorra il mondo,
a scuotere le bandiere
che sembravano perdute,
ma sono l’anima dell’umanità.

ancora sul dono

Sul dono e su ciò che ne resta

Sul fare o non fare regali a Natale, quanto questi siano un obbligo e quanto un piacere, se essi debbano rispettare i gusti del ricevente o viceversa, se si possa trovare un utile compromesso, se i doni debbano essere misurati sull’importanza, ecc. ecc. ; su questi temi credo che tutti si siano esercitati.

Ho trovato un po’ di chiarezza, dopo anni di insoddisfazioni, che se da un lato ha ristretto i doni a chi conta per me, dall’altro cerca di continuare attraverso il dono un dialogo, un interesse reciproco e profondo.

Hai letto Coriandoli nel deserto di Alessandra Arachi ?

No, di che parla?

E’ una sorta di lettera d’amore molto bella. Tieni te lo regalo.

Ma mi hai già fatto un regalo.

E te ne faccio un altro. Vedrai ti piacerà.

Ma non è che era destinato a qualcun altro e l’aveva già letto ?

Qui il dialogo potrebbe finire, ed è finito, il libro tornare nel sacchetto e una amicizia avere un po’ di sana sospensione per capire ciò che davvero ci tiene uniti. Avevo detto la verità; l’avevo visto in libreria e comprato perché sapevo che di lì a poco ci saremmo incontrati. Una giustificazione non dovuta perché, a volte, bisogna sopportare le distorsioni mentali, le battute infelici, i difetti che emergono, anche negli amici.

E non è una questione di sincerità, o di buona educazione, ma di come ci si pone di fronte a un regalo. Non è necessario contraccambiare, ad esempio, l’imbarazzo non dovrebbe esserci, casomai l’emozione, e allora dovremmo chiederci perché un dono, che non è altro che un dono, dovrebbe generare un’asimmetria? Questo apre un discorso infinito che riguarda ogni rapporto “amorevole”, restiamo al contesto, un dono è un darsi, un’attenzione oggettivata, un reiterato modo di dire che si vuol bene. Se chi lo riceve pensa altro, mette in discussione l’intenzione, abbiamo sbagliato persona, perché anche se fosse un regalo riciclato, il rapporto e il dare non sarebbe sminuito in quanto tra molti si è scelto a chi dare. Questo mi fa pensare che i regali si possono sbagliare, ma bisogna darli alle persone in grado di riceverli. Chi non sente che dietro un dono c’è chi lo fa, oppure lo banalizza, semplicemente non lo merita. E neppure la nostra attenzione sentimentale merita.

parole friabili come biscotti

Nei sentimenti pare funzioni così: Se mi do a te per amore, tu devi preservarmi come ciò che è più prezioso per te, accettare la mia diversità, far sì che essa diventi, con la tua, elemento unico e comune.

Qual è la natura dell’amore che entra dove non sai di esserci, che imbeve ogni impermeabile ricordo, che rompe il tempo e si trasforma in friabile pietra di sogno. Come agisce l’amore che cambia ciò che si vede, si tocca, si sente e mentre si sparpaglia attorno diventa punta acuminata che scrive e sanguina o lenisce il cuore. Sapere di cos’è fatto e poterlo un po’ per volta raccontare, come fanno i poeti che ad ogni ultima parola aprono una porta anziché chiuderla.

Sapere per intuito la dolcezza che tiene assieme l’attesa del bacio e il suo abbraccio alle labbra. essere consci che ci sono tanti abbracci e altrettanti baci, infinite attese e felicità sconosciute e ognuna è differente, ognuna ha una persona, un momento, genera un ricordo che riassume una vita nel suo amare.

Lasciare che i pensieri volino, incertezze nell’aria, assieme alle foglie in questo autunno che non finisce, che non sbocca in un gelo che stringe assieme i corpi. Guardarsi attorno e vedere che nessun passo va ancora di fretta e sentire che le parole sono lente, il pulsare è fatto di sguardi, di mani strette che cercano la punta delle dita, di cappotti troppo gonfi di piuma, di voli d’uccelli sconosciuti che cercano altrove rifugio.

Depositare nel cuore le attese, lasciare che ogni dolcezza maturi e affidare a ciò che cancella se stesso, ma non noi, non la pazienza e la passione, non la richiesta, il bisbiglio della cura e del desiderio. Trasporre tutto questo in parole friabili come biscotti e disseminarle in luoghi fatti di distrazione e inconsistenza, dove solo gli uccelli prestano attenzione.

la sublime inutilità di questo luogo lo rende poetico:
è un mandala costruito con la pazienza dei giorni,
le intemperanze e il ribollire dello sdegno,
nessuno t’obbliga, è vero,
ma forse tutti siamo gatti curiosi,
e le vite altrui sono meraviglia, banalità, carezza leggera.
Un soffio che si spande
e fa girare il capo,
come qualcosa che ci riguarda
ed è già sfuggito.

lo scialo d’amore

Altrove gli occhi,

nubi ed erba bruciata d’autunno,

distratta la mano nell’acqua,

raccoglie,

spartisce,

ascolta il pensiero che rattiene lo sciogliersi,

per furia il vestito, i capelli 

e poi tutta,

seguendo lo scialo d’amore che preme.

Dispera il sentire,

ma la mente ribelle ricuce,

rammenda il racconto di sé

e ora l’acqua stringe nel freddo

e rilascia la mano,

come se il cuore,

nel battere vivido e netto,

fosse mordere di nuovo la vita.

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