qualsiasi cosa pensi

Da qualche giorno ho una urgenza di scrivere, sono inizi di pensieri da sviluppare, cose che si svolgono nei particolari che vedo, nella mia testa, in quel momento che ha durate sue, e che precede il sonno. Riempio pagine di appunti, cerco significati, misuro coincidenze. Il che non basta per considerare che si possa passare all’atto pratico e sensato di mettere in fila i pensieri. Sono porte che si aprono, necessità di mettere ordine.

Ad esempio se penso al Natale lo sento come una nascita che mi riguarda, un guardare in avanti che chiede un nuovo modo di vedere il mondo. Si sono accumulate tali e tante delusioni in questi anni che l’essere parte di una comunità divenuta sempre più indifferente, ha fatto smarrire il senso del procedere nell’umanità collettiva. Come si è uomini tra gli uomini?

Certo, la caduta dei miti, delle ideologie, ci ha lasciato soli. Uso il plurale perché penso ai molti che hanno speso le loro vite cercando di realizzare una piccola parte di utopia, senza interesse venale ma per una passione che spingeva verso l’eguaglianza, il giusto, il vero. Non posso pensare a quelle vite come inutili perché scomparire be la speranza, ovvero il motivo per resistere a tutto quello che mina la sopravvivenza del bello, dell’equo, della vita stessa. Quindi penso che chi ha vissuto parecchio, ha fatto esperienza di sé e del mondo e ancora crede nell’uomo debba raccogliere la piccola luce che possiede, quella grande di chi l’ha preceduto, è guardare con nuovi occhi se stesso e il mondo.

Nascere ora è questo essere nuovi perché muta la percezione, il sentire, il fare la nostra piccola realtà. Penso che la sera I pensieri che si accumulano e che urgono, debbano contenere la nostra giornata che seguirà. Il nostro nuovo farsi e fare è ciò che con pazienza, altri hanno fatto di loro stessi prima. Senza raccontarci storie, mettendo al bando inanità e tristezze, riprendere il nostro posto, con ciò che pensiamo nella realtà.

una corsa verso l’indeterminato

Tre ragazzi seduti sulle scale si alzano a fatica per lasciar passare. Neppure alzano gli occhi, uno mormora un “buonasera”, si sostano appena e proseguono le chat sugli smart phone. Sono annoiati più che infastiditi dal passaggio, si risiedono. È un condominio modesto, abitato da pensionati e da persone che un tempo avevano un reddito medio, tutti ora vivono dei risparmi passati, di lavoro e pensioni, rispettando il minimo di festa. Un eterno presente costellato di ricordi, rimuginati in qualche angolo di casa, poltrone, tv da risintonizzare, ninnoli, storie importanti in più lingue. Quando i libri erano molto più che una merce, ci sarebbe stata una miniera di fatti ed emozioni da raccontare, ora ascoltano se stessi. I ragazzi sulle scale sono saliti su un treno di tempo che corre verso l’indeterminato. Tirano avanti, fumano, fanno le cose che tutti i ragazzi fanno, anche i Bangla che sono ovunque nel quartiere. Uno di l’ora, un giovane bengalese nato in Italia, ne ha tratto un film e una serie Netflix, belli per la dolcezza del sentire e colmi di una normalità che mescola l’età con la difficoltà di avere un lavoro che non sia occasionale.

L’ascensore sociale non funziona più, anche se qui la spinta a vivere con una prospettiva supera l’uggia del sentirsi oggetto da usare. Vite normali, senza i risultati attesi e poi senza attesa. Eppure attorno c’è un brulicare di negozietti, di piccolo commercio che apre e chiude. Tutti vendono le stesse cose cinesi o vietnamite, tutti non hanno orari.

Quando esistevano le classi sociali che distingueva o secondo aspettative, reddito, lavoro, la differenza era netta. Anche nei pensieri oltre che nelle scelte. Ora esistono i poveri, gli impoveriti, i precari, gli isolati dalla società, ma non contano e quindi sembra non abbiano un pensiero comune. Sono isolati in monadi e lo strumento di primo approccio sociale è il silenzio o la carità. La società dei due terzi si è trasformata nella società del 50%, metà viene tutelata e metà è precaria e invisibile. La solidarietà che si esercita è una toppa su un vestito liso che non copre più, che non muta la situazione. Sarebbe complicato descrivere qualche scenario a cui dovrebbe corrispondere coscienza e cambiamento, ma così non va perché il futuro è risucchiato dal presente.

Il governo, dopo aver molto promesso in campagna elettorale, allarga le braccia e premia chi già è tutelato. Non si sente reazione forte, ma cova l’indifferenza che muta in rabbia. Inane è inefficace nella protesta, se non in piccole parti della politica. Si fatica a descrivere ciò che può accadere perché ad ogni privazione, caduta di reddito viene proposta una giustificazione. Le Cassandre non sono amate da nessuno, neppure dai poveri, ed è difficile parlare di futuro tacendo la crescita delle diseguaglianze e della precarietà.
Oggi si pensa al Natale ma la povertà e la precarietà dura tutto l’anno e quello che emerge non riguarda i ristoranti, le località di villeggiatura, ma un sistema che non regge più, che si fonda sul nero, che non guarda a ciò che produce e neppure ai bisogni di chi lavora. Ci saranno i ricchi e i miseri, dove ricco significa garantito da chi ha il potere e il come non importa, basta essere solvibili economicamente e socialmente. E voi vi aspettate che questa società aspetti il Natale serenamente, senza covare uova di serpente? Pensateci e pensiamoci, sapendo che sarà un cammino lungo verso il cambiamento della società, ma bisogna uscire da una dissipazio che toglie speranza e solo consuma, cose e vite.

il tango del tempo

Per scoppi, come se nel ventre oscuro s’accumulasse un’infinita bolla che deve uscire, così lo specchio nero del mondo sale. Per vie oscure sublima in rocce polite, in creste taglienti, il mondo ci attraversa lo sguardo e l’anima, è indifferente, guarda sé, neutrino che segue un pensiero senza limite. Non si cura, non ascolta se non per sue vie che radicano infinite, che non fanno domande, non si voltano e procedono mentre attendono un passo da noi, indecisi su dove andare.

Mai è il suo nome mentre interroghiamo il caso, seguiamo la possibilità e la chiamiamo speranza. Mentre parliamo al suo posto, mettiamo in bocca le battute al mondo e attendiamo parli, finché il silenzio diventa insopportabile e allora di nuovo la parola, la nostra, riempie un luogo, risuona nelle nostre orecchie. Miracolosa la parola fino a un nuovo silenzio, fino ad un’abitudine interrogante che tace e rapprende il poco che resta nell’aria e in noi.
Così il silenzio accompagna a lungo e quando trasuda in timore significa che non è finito a tempo debito per carenza di ascolto, di empatia.

Il tempo non ha debiti, casomai crediti e chiede conto mentre, in disparte, s’accumula il non fatto o ciò che dev’essere ripensato e ripreso nell’ interminabile gioco dove ciò che si scarta è sempre maggiore di ciò che si sceglie e però, il tralasciato, non scompare, sta quieto in attesa.

Di grandi coni d’infiniti grani è fatto ciò che resta in disparte. Ne vidi di enormi nei porti, si stagliavano contro il cielo, limitati solo dalla gravità e dall’attrito tra particelle. Potevano essere zolfo, e allora il colore giallo riempiva l’aria d’indebita allegria, oppure erano carbone lucente e grasso che assommava all’aria, polvere e piccoli mulinelli, che tingevano cupi il cuore, o erano minerali di ferro, rame e manganese che beffardi riflettevano la luce in caleidoscopi rivolti al cielo,  o ancora coni di rottami tagliati da trance impietose, ridotti a parvenza di ciò che erano stati funzionanti, ma ancora vivi nelle tracce dei colori che li avevano vestiti. Erano arlecchini di passato, e mentori e presaghi, indicavano ciò che il desiderio sarebbe diventato.

Quei coni enormi, nati da benne indifferenti, erano acquattati in attesa d’un nuovo essere. Così è il tempo che non si compie, che non ha fine e linea di percorso: è granuli e gravità che rotola in nuovi equilibri e leviga le forme. Capsule d’attesa in un porto e possibilità scartate prima che divengano rimpianti.

Anche il cuore è un cono che si staglia verso il cielo e ha innumeri grani che danzano nel silenzio d’una musica d’attesa: un tango per il tempo che promette, accenna e non si compie.

il tango del tempo

Perché ora ti fidi, hai detto che non finiresti più.

Forse era la sfrontatezza sicura di chi attende,

o la luce che sorride dell’ignota possibilità

e del segreto d’una scaramanzia in attesa d’avverare.

Allora, nel suo fidarsi, il corpo s’è disteso: 

dismessa l’arroganza il seno 

il viso interrogava in attesa d’espressione,

e intanto, in un silenzio sorridente, hai porto la guancia,

perché era ora d’andare.

E di scoprire almeno il poco e l’importante

di ciò che s’era trascurato nel mettere da parte.

limiti

La complicazione mi respinge perché non riesco a penetrarla a sufficienza in poco tempo. Tutto attorno va verso la semplificazione, ma senza quel processo di analisi e di vaglio che porta a una comprensione profonda. Piuttosto le cose vengono presentate come assiomi e come tali da accettare. Viene tolto tutto quello che potrebbe generare il dubbio e l’approfondimento, così resta solo una parte dei ragionamenti.

Le mezze verità che non solo non aiutano a capire ma comprendono la fatica di essere smontate perché sono mezze falsità. La fatica è accettare ciò che viene detto senza discernere, mentre per troppi ormai la tendenza è delegare ad altri il comprendere.

Il processo che comporta sciogliere la complicazione è anzitutto rendersi conto che essa è un insieme di forze che producono effetti. Chi semplifica deve scartare ciò che non serve, ma fa parte di ciò che accade e questa apparente inutilità sta nell’ombra e pesa con la sua presenza. La complicazione costringe a rimandare comprensioni profonde, complica anche altre parti della vita, esonda in territori che dovrebbero esserle preclusi. Il rimandare comporta l’accumulo e l’accumulo porta al non governo. Ovunque. La complicazione toglie il governo delle cose, non è solo questione di comprensione, è il pensiero che qualcosa andrà chissà dove e noi con lui, senza poterlo mutare.

oggi è l’anniversario dei morti sul lavoro alla Tyssen

Oggi è l’ anniversario dei morti nella fonderia della Tyssen di Torino. È stata definita una tragedia. Lo è stata certamente per i loro familiari, per chi ogni giorno rischia la vita nel luogo di lavoro, per chi non può fare a meno di continuare a lavorare in condizioni precarie e malsane.

Ascoltando la voce di due donne, l’ una moglie e l’ altra madre di due operai morti bruciati, ho pensato al fatto che questo dolore per loro non ha fine. Ho pensato a una giovane amica che si occupa di trovare lavoro a chi non ce l’ ha, ai compagni del sindacato che fanno fatica a far capire che lavorare non deve uccidere. Ho pensato alla Fornero che non sapeva cosa volesse dire stare su un tetto con il mal di schiena a 60 anni e forse nessuno lo sa in parlamento, a chi si alza all’ alba o va a letto a quell’ ora per lavorare. Sono gli stessi che lavorando restano poveri, non riescono ad arrivare alla fine del mese e non pensano più alla pensione. Ho pensato alle fabbriche che ho visto, agli operai che ho conosciuto e all’ inquinamento che c’era ed è tornato nei luoghi di lavoro. Ho pensato che è cambiato poco, quasi nulla e che spesso ora si sta peggio, tanto che un buon padrone è quello che paga a fine mese non quello che ti dà un lavoro dignitoso.
È triste questa Italia dove qualcuno si può vantare della precarietà generata dal job act e dalle tante leggi che favoriscono chi ha il potere di dare un lavoro ma non chi lo compie. Ho pensato a cos’è oggi il lavoro, alla sua funzione, alle sacche di privilegio che si sono allargate e a chi paga le pensioni a chi ha lavorato. Ho pensato a tutti questi anni inutili in cui i diritti si sono affievoliti e non hanno fermato l’emorragia di giovani che vanno  all’estero e non hanno creato nuovi posti di lavoro sani e stabili, con nuove competenze.

Nei notiziari si enumerano i posti di lavoro che crescono, non si parla di come si lavora e comunque in questa corsa si tace di quelli perduti e del lavoro sottopagato

È  triste pensarlo in questo giorno che ricorda chi è morto perché hanno risparmiato sulle manutenzioni alla Tyssen e che altrove ancora accade perché questa indifferenza verso che lavora non è mutata e questo Paese ancora attende un piano che ne definisca la crescita e nel quale chi lavora e chi trae profitto da quel lavoro siano davvero alla pari.

mettiamo le cose al singolare plurale

Penso, a volte, che se anche ho poca acqua, non sono un pesce da fango, che le cose non mi vanno bene così, che se sono un privilegiato perché nato nella parte privilegiata del mondo e negli anni in cui c’era un ascensore sociale e si poteva avere un lavoro che assicurasse dignità, non mi basta essere di sinistra per tacitare le domande. Un tempo aiutava non poco l’ideologia, ed anche i comportamenti conseguivano; c’era un futuro condiviso, si discuteva sul presente, e pur non bastando le sole chiacchere, il futuro sembrava amico. Adesso non basta essere di sinistra, occuparsi di qualcosa, pensar bene e poi attendere.

L’oggi ha dei vantaggi, ma c’è una idolatria del presente e questo mondo dà occupazione ad un sacco di persone, mai come adesso accanto a qualche diritto individuale esiste una diseguaglianza crescente sia tra chi un lavoro ce l’ha e spesso non gli basta per non essere povero e ancor più tra chi il lavoro non l’ha proprio. Pare sia più difficile occultare la realtà però la si può manipolare con facilità, basta avere il controllo dei media e spesso le non verità diventano parte della realtà. Una meta realtà a cui le persone vengono spinte a credere, tanto nessuno è in grado di verificare la massa di informazioni che vengono immesse. Il mondo è sempre più Orwelliano ma non emerge con forza una ribellione, la stessa democrazia contiene il germe per la sua negazione quando ciò che viene offerto all’elettore non solo è una meta realtà , ma anche emerge l’idea che non sia possibile mutare la propria condizione né avere un futuro migliore diverso e comune.

Un tempo chi andava in un paese che aveva leggi giudicate barbare considerava folclore guardare le teste mozzate, la legge di quel paese era sacra e ciascuno si teneva le sue abitudini. Oggi si pensa di esportare la democrazia. E’ una balla perché l’asservimento all’economia è tale che ad ogni azione corrisponde un interesse e chi è ricco diviene straricco con un buon uso della “democrazia” in punta di baionetta. Solo se si guarda alle parole e non agli interessi, qualche passo verso l’uomo s’è fatto, ci sono persone che non sono indifferenti, che capiscono che l’ingiustizia non può essere il metro per preservare il benessere. Quando penso ai maggiori diritti attuali, naturalmente lo faccio per differenza rispetto ad un prima di 70 anni fa e non mi sogno di pensare che questo sia il migliore dei mondi possibili. Eppure mai come adesso l’ingiustizia emerge, circola, le differenze sono acute, il male fa più male a chi lo sente. Mi chiedo quale via esista oltre il capitalismo, per dare un senso al cambiamento, quale direzione prendere, cosa fare per non sbagliare troppo.

In questi giorni, nel mio territorio, tagliano alberi, 116 questa volta. Un bosco. Gli abitanti hanno raccolto 30.000 firme, la giunta è di centro sinistra. Allora le persone pensano, ci ascolteranno se diciamo che abbiamo già dato, che siamo la città più inquinata d’Italia, basta! E hanno ragione, anche se la vita media è cresciuta, da 40 anni respiriamo aria inquinata. Se poi a questo si aggiunge alla quarta linea dell’inceneritore che rovescerà altre tonnellate di CO2 in ambiente, oltre a PFAS e altro, sembra logico che un bosco in città sia risparmiato, visto che sono alberi di 18 metri, che li tagliano per mettere un terrapieno e una barriera antirumore. Che pazzia pensare che sia più efficace un terrapieno che un bosco, ma è così e stamattina all’alba li hanno tagliati tutti. Ecco che emerge la rabbia, altri protestano, l’opposizione non fa il suo mestiere, ma neppure quelli che dovrebbero difendere la diversità di un agire politico che comprende la salvaguardia dell’ambiente lo fa. Emerge la necessità che i fatti siano preceduti dal consenso, così la politica, l’impegno, e la realtà generano la differenza, perché non tutto è uguale e il futuro e il presente sarà diverso a seconda delle scelte compiute. Non è possibile dire mi oppongo e basta, pensare che poi la soluzione riguarderà altri. Non basta votare, bisogna controllare le promesse, arrabbiarsi se si è stati presi in giro.

C’è una linea che vedo ogni volta che mi sposto in l’Africa. E’ la linea dello sporco, sotto quella linea si devono abbandonare le abitudini, i concetti di pulizia personale, i cibi e la loro confezione diventano precari. E’ la linea della diarrea, degli anticorpi che mancano, ma non è questo il mondo che voglio, non penso allo stato di natura come l’età dell’oro. Quella linea c’era anche in Europa, anche in Italia negli anni ’50, faticosamente si è spostata verso il basso. La civiltà è stata fatta coincidere con la pulizia, con una cura diversa dell’abitare e del vivere, come bastasse importare sapone e detergenti, ma non è solo così; civiltà sono le abitudini che mutano e il darsi da fare, l’ intraprendere sé stessi, prendere il mano il proprio futuro per un progetto condiviso.

Quando penso a uno sviluppo differente, compatibile ovunque, senza spostare le lavorazioni nocive dove non protestano, penso ad uno sviluppo che riguarda il pianeta, non il singolo territorio. A che mi serve non avere centrali nucleari se queste sono appena oltre le alpi? E ora siamo nei guai perché quando l’energia costava poco, si poteva sprecare, ma perché spreco energia, perché le case si sono costruite senza criterio, usando materiali energivori quando già 40 anni fa esisteva l’alternativa? E’ l’uso dell’energia che posso gestire come deterrente per le centrali nucleari e contro l’incremento di combustibili fossili, cosa di cui tutti ora si dimenticano e che sono causa del disastro climatico. Il nemico non è l’impresa o la globalizzazione, ma è l’uso di accumulare cose che non servono, praticare la bulimia del possesso che contribuisce a far prevalere la parte deteriore di questo mondo e lo incentra sul profitto senza limite. Scordo tutto quello che mi sta attorno, ed è giusto sia così per gran parte del tempo, ma se comincio a cambiare le mie abitudini effettivamente il battito d’ali, mio e di molti, causerà un uragano. Rallentare ed usare diversamente il tempo, proprio perché me lo posso permettere, è cambiare, moderare, fare senza rinunciare al lavoro. Ripensare il lavoro e le politiche che lo rendano un diritto che dà dignità, riprendere in mano l’utopia perché senza di essa le cose non migliorano, la diseguaglianza cresce e non si sogna più, ma neppure si può star meglio. E soprattutto devo ricordarmi di credere che un mondo diverso è possibile e che dipende anche da me. Da noi.

Nuove resilienze

La pioggia ha concesso una tregua, avremo tre giorni di sole e poi di nuovo pioggia. Questa lunga stagione di calore e siccità ha accumulato un’enorme energia, distribuendo nel mare e sulla terra. Non tutto riceve con la stessa gratitudine, il mare è troppo caldo e i granchi non diventano moeche, la terra si raffredda prima, l’aria lo racconta bene ma tutto interagisce col mondo vegetale e animale, che restano indecisi sul da farsi. L’autunno e l’inverno erano stagioni di quiete, ora i delicati sensori della memoria delle specie cercano di interpretare i segni, novelli auspici, per essere meno confusi sul futuro.

La pioggia forte ha sconvolto i piani, dopo tanta siccità il desiderio d’acqua rende fragile il terreno, gli argini, noi stessi. La fragilità in cui tutti viviamo dovrebbe costantemente preoccupare e far chiedere atteggiamenti conseguenti, lo capiscono anche alberi e insetti, e questo dovrebbe essere chiaro alla politica e a chi amministra, ma non è così.

Si invoca la resilienza, parola prestata dalle proprietà dei materiali, trasferita all’uomo, messa persino negli affari e nelle questioni sentimentali, declinata nel solo significato positivo, ovvero la capacità di ritrovare se stessi dopo un evento traumatico.
Ma esiste una parte che non viene esaminata, ovvero se ciò che ha determinato l’evento fosse o meno evitabile. Sembra strano che ciò influenzi la resilienza? No, se pensiamo che non siamo metalli o pezzi di plastica, se non pensiamo che le popolazioni che traversano mari e deserti poi alla fine arrivino uguali a chiedere asilo e vita, se per noi stessi non crediamo che tutto ciò che ci accade non ci cambi dentro, non muti, gli amori, le gioie, la specie.

Per questo nelle dichiarazioni di chi è investito dalle bufere di questi giorni o dalla possibile perdita del lavoro, fa emergere accanto alla resilienza, la rabbia o lo sconforto, o la rassegnazione. Tutte emozioni che non solo modificano la resilienza, la sua positività nel ricominciare, ma cambiano l’animo delle persone, la percezione di essere comunità e subentra una rassegnazione al degrado.

Così c’è anche una resilienza negativa che appartiene a chi ha il potere o detiene privilegi fondati sull’appropriazione di beni comuni, una resilienza che tiene strette le sedie occupate e rende impermeabili alle priorità della realtà, indifferenti al clima e alla guerra altrui, supponente sul mondo e sulla verità. Una resilienza che si nutre di parole e non fa nulla di concreto oltre far finta di esserci prima di tornare al sicuro, professionisti di ogni prima emergenza prevedibile. Sono i resilienti confacenti alla vischiosa gestione di un presente fatto di promesse. Fa cosi specie sentire l’annuncio del possibile rischio dei prossimi giorni  da parte di chi governa che ci si chiede chi doveva introdurlo nell’agenda delle priorità. Quando si capirà che gli eventi accidentali non sono in gran parte tali, allora la resilienza positiva consentirà di cambiare il modo di vedere il mondo di chi lo governa, di chi specula sulle disgrazie, di chi non fa bene il compito a cui è chiamato. E chi fa informazione questo dovrebbe capirlo, prevedere ciò che accadrà e dire chi ne è responsabile. Ogni giorno perché gli eventi hanno radici nel non fare e di questo bisogna parlare chiedendo non le scuse ma la decenza del silenzio di chi ha governato lasciando che la fragilità crescesse, cambiasse i ritmi vitali, diventasse tragedia per molti. E si dovrebbe pure dire che il denaro potrebbe cambiare le cose, che produrre, mangiare, muoversi, rispettare diversamente il mondo cambierebbe la storia e i conti in banca di chi continua a devastare e consumare ciò che è di tutti. Allora la resilienza potrebbe fare il suo lavoro ed essere amica del giusto vivere, non del sopravvivere.

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Il caffè, un biscotto caramellato, il cielo si scurisce e poi, inopinatamente, lascia sfuggire un raggio di sole, come una contentezza, una ilarità improvvisa tra pensieri cupi. Inopinatamente è la parola della giornata, bisogna lasciare che faccia la bambina allegra che si nasconde, che trova da ridire quando non te l’aspetti, che sembra sonnecchiare in momenti importanti.

Di topico non c’è niente da queste parti, il topicida ha sterminato le parole ratto, tutto sembra scorre come il tram che s’incrocia sempre allo stesso punto con il suo omologo in senso avverso. Anche l’avverso del tram mi piace, include un incontro, due parallele che possono al più salutarsi, scontrarsi verbalmente ma fisicamente mai. E nella fermata di scambio dall’una e l’altra parte scendono passeggeri, mamme con carrozzina, extracomunitari, anziani con bastone, studenti che hanno ”bruciato” e ora non sanno che fare del tempo, donne con le borse della spesa, sfaccendati che si guardano attorno perplessi, badanti moldave che parlano al telefono.

Vengono dall’una e dall’altra parte della città, e ciascuno ha un motivo per scendere o salire. Qui ed ora. Hic et nunc, come un amore che urge, un desiderio da soddisfare subito. Come l’amica che andò in chiesa e disse chiaramente: caro santo, voglio un innamorato, qui, subito, adesso. E il bello è che questo arrivò sul serio, poco dopo che era uscita. Qualche problema l’aveva: sposato, quasi separato, diceva lui. Il vantaggio era che abitava lontano, tutto di corsa. Era o non era un ferroviere. Il resto l’ avrebbe sistemato presto, ma con calma. Forse fu per questo che la cosa non accadde. Però era innamorato e furono mesi di passione assoluta, prima di stemperarsi nell’abitudine. Il santo aveva fatto il possibile, con quello che offriva il mercato attorno alla chiesa, eppoi lei mica era stata così chiara.

L’ inopinato era accaduto, un miracoletto di serie b. Ecco la definizione di inopinatamente: uno stupore per qualcosa di possibile che non ci si aspettava, e invece era tra le cose che potevano accadere. Un miracolo tascabile che magari non dura, ma che serviva per dirci che la vita è anche sorpresa, non solo abitudine e routine. 

Le persone scendono e salgono alle due fermate contrapposte, guardano attorno, come fosse un appuntamento, uno dei tanti, con la piccola storia personale, la storiella giornaliera. E infatti sembra non accadere nulla, le teste sono immerse in pensieri propri, però il raggio di sole alza gli sguardi al cielo, qualcuno nota i buffi campanili della chiesa, altri le nubi squarciate, qualcuno vede la ragazza alla finestra che parla al telefono e si liscia i capelli. E’ un momento, poi tutti sciamano, seguendo pensieri differenti: supermercato, farmacia, bar, tabaccaio, pasticceria, portici, chiese. Solo il vecchio ucraino si ferma vicino al supermercato e s’appoggia al bidone cilindrico delle piccole spazzature da passeggio. E’ curioso quel bidone, sembra l’ogiva di missile, con la punta a cono per evitare che qualcuno si sieda sopra, lui appoggia il gomito, sorride e neppure stende la mano, attende, qualcuno qualcosa gli darà.  

Gloria all’inopinato e alla fiducia.

Posted on willyco.blog 16 gennaio 2015

vicoli che accolgono l’anima

Avevo diverse cose da dire, pensieri che si rincorrevano seguendosi e poi tornando daccapo. Nel mio scrivere circolare in fondo torno sempre sui miei passi, come faccio in città cercando vicoli e percorrendoli fino in fondo.

Abiti in un vicolo, direte, allora sarà per questo, e invece no, è la tangibilità del limite che m’interessa, la costrizione a guardarsi attorno, in alto perché avanti non si può andare. I vicoli nascono per qualche abuso perpetrato chissà quando: qualcuno ha deciso di mettere una casa dopo un giardino, di chiudere una strada. E qualcun altro gliel’ha lasciato fare. La città ne ha molti, alcuni dopo portoni altosonanti, altri anonimi e solitari.

Quella del vicolo è una bella metafora di ciò che sta accadendo attorno a noi: si chiudono strade che prima portavano pensieri, diversità, saperi e chi potè (o può), vi installò la sua casa facendo proprio un percorso aperto. È l’arteriosclerosi della società che mentre rende facile il viaggiare rende difficili i cammini individuali e interiori. Guardavo il vicolo dove abitava mia zia, neppure quello era un vicolo perché prima era una strada: strada vecchia. La vecchia toponomastica  ancora affissa lo dice: vicolo vecchio, già strada vecchia. Adesso c’è un cancello di ferro e neppure il vicolo non si può più percorrere, anche la vista verso l’alto è stata preclusa. In fondo a quel vicolo c’è una villa e un altro cancello impermeabile alla vista. Lo so per averci passato giocato vicino nei pomeriggi d’estate. Poi ci fu un fatto terribile, che accadde quando ero ragazzino, il proprietario della casa durante una gita in montagna, uccise i figli e la moglie e poi si suicidò. Dissesti finanziari, dissero in casa, ma c’era molto pudore nel parlarne. Non credo che quanti abitano nel vicolo, ora divenuto un cortile, sappiano di queste cose. Arrivano, aprono un cancello col telecomando, poi una saracinesca di garage con un altro telecomando e salgono nelle case con il loro esterno fatto di pensieri, sensazioni che si adegua al vicolo chiuso, alla casa: ora sono prigionieri e protetti. Un tempo in quella strada giocavamo in parecchi, in tutti questi anni in cui guardo sotto il portico di accesso, non ho mai visto un bambino che gioca oltre l’inferriata. Tutti adulti prigionieri.

Per rifarmi la vista, allora, ho percorso un altro vicolo vicino. Misterioso come il suo nome, tabacco, però stretto e corto come quelli del monopoli. In fondo ha il solito cancello di banale lamiera, senza la creanza d’un fabbro e gli alberi, che spuntano oltre i muri con i cocci di bottiglia, sembrano guardare oltre. La strada scivola tra muri e usci che danno sull’acciottolato antico, fatto di sassi della Piave, come si diceva un tempo, è tutto così stretto che le case s’inerpicano a cercar aria. Questo è un vicolo che rende inutili i cartelli di divieto di sosta, però il guardar alto rivela un ponte tra case, pietra traforata e una stanza di passaggio: hanno tentato di chiudere il cielo e non ci sono riusciti e così ne è venuta una continuazione del portico sul corso. Una finta, insomma, e pure riuscita a mezzo. Ovunque giardini pensili in queste minime strade, e subito la sensazione di essere arrivati al fondo dell’orizzontale.

Camminando con intenzione curiosa, mi accorgo che la città che ho in testa non è la città reale. La mia è una città di fatti, di relazioni, di presenze che si conoscono, che scambiano e confrontano; quella che vedo è una città che fugge da sé. Non la città dei futuristi, che sale verso un nuovo, sferragliante avvenire e neppure la città storica, pur così presente in queste strade, ma è una città che si chiude, che gira il capo e non ascolta.

Ora serve l’eccezionale per smuovere le spalle, per far girare i passi, mentre è il quotidiano, così pregno di realtà, che dovrebbe portarci in un vicolo dell’anima, costruito con pazienza e aperto dentro di noi, per riflettere su dove si sta andando, guardare in alto e attorno, riconoscendo con meraviglia che non sappiamo dove siamo. E in fondo, nel giardino segreto, si potrebbero coltivare le piante che fanno bene, un orto dei semplici da aprire a chi bussa, un condividere per aprire una strada oltre noi che abbiamo capito il concetto del limite. E allora anche un vicolo avrebbe un senso e uno scorrere che accoglie ed è parte del fluire verso la città comune. Le parole non hanno mai un senso a caso.

asylum interiore

Dentro un dolore senza limite. Fuori una tranquillità assoluta: questo era il campo di concentramento, l’ospedale, il carcere, la caserma. Luoghi terribili, non confrontabili perché generatori coscienti di sofferenza indifferente. Asylum è asilo o luogo di sofferenza, a volte assieme l’uno e l’altro. Esistono altre prigionie meno evidenti e organizzate, quella dell’io, ad esempio, che non trova canali di comunicazione, che non riesce ad esternare la diversità ma la porta dentro a gonfiare la coscienza. Quell’io che tenta di uscire, di dirsi, ed è respinto dal poligono di forze che lo costringe, è certamente altra cosa, ma è sofferenza che esiste ed è battaglia quotidiana.

Nelle tante sensibilità che ciascuno può avere, e che mutano con il tempo perché il tempo aggiunge conoscenza, spesso fornisce risposte a domande che aprono altre domande più difficili, la sensibilità di essere permeabili all’esterno, al dolore che circola per il mondo, si mescola con la nitida coscienza di sé. Della propria incapacità nel relativizzare le cose rimettendole al loro posto, si comprende che la differenza è il sentire, le sue modalità e gradi di penetrazione negli strati più profondi dell’essere e che questo rende afoni e soli.

La leggerezza che deriva dall’affidarsi, è una meta. Una fede enorme nell’altro, nelle cose per come accadono, nel lasciar scorrere la vita senza cercare di modificarne il corso ma restando dentro a quell’alveo che ciò che si è diventati per virtù propria e per costrizione altrui, ha costruito. Estraniarsi significa vedere, cogliere la bellezza, interpretare il tempo, ma anche rinunciare al pensiero, alla razionalità per dare spazio alla ragionevolezza.

Ah, il limite, che è il piacere e il confluire dello sforzo volto a togliere pensiero traboccante, eccedente le possibilità per affidarsi ai sensi, cioè alla percezione e alla fede che ci sia una cura che ci riguarda. Cura come espressione di amore, di confluire dell’attenzione verso l’accogliere, il comprendere. Se mi sento dentro l’attenzione, la cura, esco dall’asylum che ho costruito, capisco che esiste una porta che farà uscire il buono e il peggio accumulato, che consentirà di vuotare i pensieri quando sono diventati ferita infetta.
Esiste quindi una speranza che libera nell’affidarsi, Esiste un modo di usare il tempo che fa uscire dai suoi obblighi. Stamattina pensavo a una conversazione sulle piccole sorelle di Focault, sul lavoro, sul tempo per se e sul tempo per gli altri. Conversazione difficile per un agnostico, ammirata per la forza della semplicità che mette assieme chi ha fede nel dare una concretezza a questa fede e che non pensa a chissà quale salvezza ma alla presenza. Nel naufragio che ogni solitudine contiene c’è una zattera che con difficoltà può essere usata, un equilibrio tra l’interiore che vorrebbe esprimere se stesso e ciò che all’esterno è in grado di accoglierlo. L’errore comunicativo, ovvero il rivolgersi alla persona sbagliata, sentirne la carenza di attenzione, è prevalente perché mancano crivelli sicuri che seguano l’evolvere del nostro accumulare consapevolezza, percezione, elaborazione, sensibilità e che aiutino a scegliere. C’è chi non sceglie, fornisce gesti di cura e un livello di empatia che aiuti a renderli importanti, preziosi. Questi incontri non risolvono le vite, come la bellezza non riesce a riportare ordine nel pensiero e nella vita interiore, sono elementi salvifici non definitivi che consegnano a noi una possibilità di riordinare, di rompere legami inesistenti o nocivi, che portano verso l’accettazione di sé e il pensiero leggero che ne consegue. Affidarsi, rinunciare all’onnipotenza, accettare l’errore, ricombinare la vita.

Guardavo il finocchietto selvatico che a novembre ancora vuol fiorire. E così fa la rosa che si ostina a emettere radi boccioli in cui mettere ogni sua forza, contro l’inverno del cuore, contro la disperazione del mutare. C’è più forza e rifiuto del pensiero negativo in un vegetale che in molte considerazioni che attanagliano lo spirito. Vivere e pensare leggeri, uscire dalla caserma, dal luogo della costrizione perché si sono rotti i fili che tenevano imprigionati, compiere piccoli gesti di gentilezza verso di sé e verso chi conosciamo o non conosciamo. Rompere i fili e togliere il pensiero quando è la percezione a chiedere di essere accolta. Ascoltare e guardare, con ogni senso.