bianche e perfette

Pare un buon segno al cuore

che, tra i vasi, 

il rosmarino, la lavanda, l’elicriso,

due uova bianche, piccole, 

perfette,

siano d’una coppietta di colombi.

Lui grigio, un po’ indeciso nell’attesa,

lei tenera di bianco

e già solerte nel saper che fare.

Han fatto un letto di legnetti,

dove posare quel perfetto bianco

e attendono pazienti,

ed io con loro,

che il miracolo si ripeta

allegro.

 

cominciamo dalla sfera il divagare

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Materiale composito poroso, bianco. Ottone brunito e piombo. Legno invecchiato dalla luce del tempo, castano scuro. Una sfera, un peso da stadera, una credenza. La sfera è cava, sembra fatta al tornio per le irregolarità delle rigature concentriche, probabilmente è fusa e poi rifinita a mano. È uno spandi profumo acquistato anni fa, il materiale e la forma sono molto efficaci all’uso: l’essenza non ha lasciato macchie sulla superficie e l’aria attorno ne è piacevolmente pervasa. L’odore agrumato si è ben fuso con quello del legno e sente di far parte di quella mistura indefinibile che è il profumo di casa. Credo sia per questo che la sfera sembra molto compresa nel suo lavoro: la sfericità è concentrazione. Rappresenta un’autosufficienza monodica, che trae la polifonia dal riflesso, è come per il gregoriano che si avvale degli echi e della fusione delle voci per acquistare una sostanza inattesa, colora il buio, s’alleggerisce nella luce, ma alla fine torna a sé, punto di partenza e di arrivo.

La mia sfera bianca non ha altra fungibilità che essere ciò che è e sembra cosciente e orgogliosa di servire solo a quello per cui è stata fatta. Chi ama la geometria, nella perfezione di questa sfera potrebbe trovare una sottile bellezza, con quelle rigature che non toccano la forma. Volendo investigarne qualche esoterico significato dovrei trovare dei numeri.

S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, d’ambo i lati calpestio rimbomba 4/3 pigreco erre tre.

Calcolarne il volume e poi cercare lettere rivelatrici che la mettano in relazione con me. La Kabbala fantasiosa delle coincidenze suggerirebbe l’espandere delle previsioni sullo status e sulla coscienza di sé. Una scelta inconsapevole di forma e utilizzo che porta verso il profondo, l’intimo. Cosa molto emblematica nel passato: non a caso la sfera orna i frontali dei palazzi storici della città e si ripete negli appoggi, nelle volute delle scale. Discreta e presente, col suo rappresentare rammenta il coincidere di coscienza e perfezione del proprietario: Non nobis Domine, ma sappiamo chi siamo. Dovevano scrivere così sul timpano delle porte, bastava la prima parte il resto si vedeva.

Nonostante la spocchia che gira oggi, anche nella forma delle cose, comunque la sfera è un po’ negletta, troppo severa e rigorosa per essere un simbolo attuale, sembra arcaica nella sua perfezione, e sopratutto porta al meditare per superare il mito dell’innocenza e trovare l’autosufficienza. Oggi nessuno persegue l’autosufficienza e la gara è tra l’essere sul transatlantico oppure finire sulla zattera della medusa, la dimensione è l’apparire più che l’essere sufficienti a sé. La sfera sfugge allo schiacciamento della bidimensionalità che evoca la facilità del pressapoco. Aborre l’imprecisione, accetta di essere messa da parte piuttosto che ridimensionata. Il suo cercare l’equilibrio e la profondità ricorda che si perde spessore nell’approssimazione. È più facile toccare, assaggiare piuttosto che sentire e gustare a fondo, ma lontana dalla ricerca dello spessore anche la libertà è compromessa e nell’homo aeconomicus, lo diceva, anche Marcuse, ci si appiattisce e si perde orizzonte proprio perché manca lo spessore e la varietà che conteniamo dentro, e in esse la libertà e il riconoscere l’altrui dimensione, possibilità e libertà. Ma chi si ricorda più di Marcuse e di tutta la Scuola di Francoforte? Che poi mica parlavano di sfere ma di rapporti umani e di spessore necessario alla loro crescita. Ma torniamo alla nostra sfera, oggi negletta al pari di altre forme geometriche: il cono (algida a parte), la piramide, ad esempio, tutte poco frequentate, anzi dimenticate a favore del più banale parallelepipedo. Il loro essere generose e incuranti dello spreco di spazio le ha ridotte a curiosità nella nostra consuetudine di vita. Provate a cercare attorno quanti coni e piramidi vedete e anche nell’abitare osservate quanto poche siano le forme che non sono ritte e piane. Pensiamo tanto allo spazio ma solo perché si compra non per la sua utilità o bellezza, pensate al piacere di avere un bow window, alla luce che attornia da più lati. La sfera sarebbe perfetta per questo e le cupole geodetiche ne sono una bella approssimazione, peccato che non abbiano preso piede come modalità del costruire, avrebbero cambiato pensiero e percezione del vivere.
E se ci si pensa davvero si capisce che la bellezza non ha molta relazione con lo spazio, ha bisogno di compiutezza per cui essa si può realizzare nell’infinitamente piccolo, oppure nel senza limite per grandezza. Tra una reggia e una casa ci può essere la stessa sensazione di bellezza se c’è unità della proporzione e dell’armonia, del genio del rappresentare icastico ed evocativo e insieme la semplicità della linea. La sfera si pone alla bellezza come esempio arduo, difficile e compiutamente conclusa in sé, si approssima, si usa, è esercizio di profondità ma non si potrà mai rinchiudere nel costo dello spazio.
E la mia piccola sfera di materiale composito poroso bianco cosa c’entra con tutto questo? Nulla se non per la sua capacità di generare pensiero, di far emergere le sue sorelle di cristallo immerse tra solidi trasparenti nelle vetrine, di far proseguire il racconto verso il conoide della stadera, ma questa è un’altra diversa storia che continuerà il divagare.

cuore di stagnola

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C’è un piccolo cuore di stagnola che attende nel vicolo. Luccica nel buio, si sta attenti a non pestarlo e nessuno lo raccoglie. Neppure gli spazzini l’hanno toccato: chi sposterebbe un cuore?

E’ un notturno urbano, molto italiano e poco americano, con le finestre che guardano la notte e un alito di vento incostante che muove gli oleandri, tra scrosci brevi di pioggia. Fuori dalle case il buio si separa da quello delle stanze. Luci diverse, piccole quelle di casa, grandi e sguaiate quelle di strada, ma pozzanghere di nero mostrano la forza della notte. Quella che solo i sogni rendono giorno. Assieme a quel piccolo cuore di stagnola.

Tutto dorme fino al canto dell’allodola, poi ci sarà lo stridio del nibbio che cerca nella luce ciò che può ghermire.

E ciò sembra dimostrare che non è nei sogni che alberga la violenza.

fatto di cronaca

Nel vicolo dove abitava mia cugina, era accaduto qualcosa di terribile. Lei ne parlava a bassa voce, voleva proteggerci, noi bambinetti, più abituati alle favole e le corse che alla realtà. E poi il fatto non era accaduto nel vicolo, ma in montagna. Nel bosco.

La montagna e il bosco, per me, bambino di città, erano una illustrazione di sussidiario, un manifesto di vetrina invernale. E la fotografia che c’era sul giornale la vedemmo quasi di sfuggita. Era una di quelle foto di allora, fatte di pallini con tonalità di grigio, che mostrava delle lenzuola bianche stese a terra, tra quelli che si intuivano alberi. A lato, il bordo di un’auto, poi il titolo, quello che mia cugina aveva solo sussurrato, attutendolo: Ragioniere stermina la famiglia e si suicida.

Loro abitavano in fondo al vicolo, in una villa con giardino protetta da un cancello oscurato da lamiera grigia. Noi giocavamo spesso lì vicino, era il luogo dove non destavamo preoccupazioni e il cancello faceva da porta per il calcio. Ogni tanto l’auto arrivava, suonava il clacson, il cancello veniva aperto da un cameriere, l’auto entrava e tutto si chiudeva. Quando accadeva, noi ci fermavamo, attratti da quella vista preclusa, ma alla fine della villa conoscevamo solo la forma di casa squadrata, la ghiaia del cortile, i grandi alberi dello sfondo, il cameriere con quella buffa giacchetta a righe e lui che guidava. Ci pareva anziano: non aveva neppure 50 anni quando si suicidò dopo aver ucciso tutti.

A quei tempi le notizie erano pudiche, il suicidio peggiore dell’omicidio, mia zia parlò di dissesti finanziari. Disse proprio così: dissesti finanziari e fece seguire il commento esplicativo: el se gera rovinà (si era rovinato). Non capivo bene quella parola, che evidentemente era stata letta sul giornale, ma già il fatto che qualcuno si fosse rovinato sembrava più una ferita grave a sé che qualcosa che avesse a che fare con il denaro. Mio zio aggiunse: el gera falio (era fallito). E così finirono i discorsi, nessuno rispose alle nostre domande e non se ne parlò più. Anche tra noi non ne parlammo più, però rimase un’aria di sospensione su quel luogo e facevamo fatica ad andare a giocare sul fondo del vicolo, così spostammo i giochi verso il Prato, sotto il portico.  

Non ho mai capito quelle morti, mi sembrava tutto così assoluto e relativo, come esistesse un mondo parallelo in cui quelle cose avvenivano e però non era il mio. Mio padre, tempo dopo, parlando d’altro, disse che ci si uccideva per onore. Sembrava che questo, nei dissesti, riparasse i debiti, ma non salvava la famiglia dalla miseria. Registravo ciò che mio padre diceva, come fanno i bambini che tacciono finché la testa lavora e collega, e il pensiero tornava sul vicolo. Quei due ragazzi, la moglie, le lenzuola della foto sul giornale. Mi pareva tutto sbagliato: non gli era stato chiesto nulla, qualcuno aveva deciso per loro ed erano spariti dalla realtà pur continuando ad esserci nel pensiero.

Anche adesso, e accade spesso, quando passo davanti al vicolo, il pensiero torna e ho la sensazione di una ferita nel giusto, di aria che manca. Poi il pensiero va altrove, ma una lapide che ricordasse quelle morti ingiuste io la mettterei.

cinema italia

Non riuscivo più a riconoscere l’edificio, come se la memoria mi tradisse e le cose non fossero dove dovevano essere. Poi ho visto il cartello in cantiere: lo stabile era un fabbricato residenziale in trasformazione. Allora ho capito.

Di certo hanno parlato a lungo con i preti, il cinema Italia era loro. Immagino le trattative, prima in canonica, poi in quegli studi bellissimi, dietro al duomo, con i libri rilegati di rosso, e l’odore di legno vecchio, ma le pareti candide e luminose. Non più quel ristagnare d’aliti di digestioni difficili, ma i veri manager della proprietà. Colloqui circospetti, molti sorrisi, un parlare per cerchi concentrici e alla fine il prezzo: quasi immodificabile e niente di conveniente davvero, ma se piaceva per la posizione e il vicolo tranquillo, ci doveva pur essere un giusto vantaggio per chi vendeva. Queste trattative le conosco per cognizione diretta, sono simpatiche, lunghe e affidabili, se si conclude sono cari, ma senza bidoni.

Comunque chi ha comprato c’ha visto oltre quel cinema strano, chiuso da 40 anni, e ha intuito uno spazio che prima non esisteva. Sì perché il cinema Italia, era tutto fuorché un immobile normale. Neppure un cinema era, così stretto e lungo e multisala senza saperlo, ante litteram. La sala era divisa in due dalle colonne centrali e le file di sedie di legno erano al più 8 per fila, per 12-13 file. Otto da una parte e otto dall’altra, con due schermi affiancati sul muro di fondo. Si vedeva lo stesso film in entrambi, con un leggerissimo sfasamento e qualche particolarità. Non si potevano vedere film in cinemascope perché gli schermi erano troppo piccoli, però lì passavano tutti i classici, nonché i generi (telefono bianchi, western, noir francesi, cicli austriaci, ecc. ecc.) fatti tra le due guerre e i prodotti delle cinematografie squattrinate del sud america. Il biglietto era differenziato, a sinistra costava il doppio, perché il proiettore era solo da quella parte e si vedeva bene, a destra si vedeva la stessa immagine con un gioco di specchi, solo che per strada perdeva definizione e impaccava il colore. Se si pensa che allora al cinema si poteva fumare e a destra andavano i più poveri, il film, da quella parte, era immerso in un alone azzurrognolo da nazionali e alfa e il pavimento ricoperto di bucce di arachidi e di semi di zucca. Con l’altra particolarità che il suono veniva solo da sinistra e questo aumentava l’effetto di stranezza perché si sentiva con un solo orecchio. Ed era tutto un crocchiare di piedi, un guardare di sguincio, con quelli che chiedevano: cossa galo dito (cos’ha detto), al vicino e gli altri che zittivano, assieme a chi rideva o parlava d’altro, insomma una baldoria. Non c’era molto da vedere, si andava al cinema Italia perché era caldo d’inverno e per fare casino. Già il nome prefigurava un giudizio sul Paese, ma noi non lo sapevamo ed erano 50 lire ben spese la domenica pomeriggio, giorno in cui realizzava il tutto esaurito. Era un cinema di poveri in un quartiere di poveri, il prete regalava i biglietti per i ragazzi più devoti, ma regalava anche il pane e il fruttino alle quattro del pomeriggio agli altri. Insomma una sua funzione l’aveva, sia il prete che il cinema: definiva un’appartenenza a un luogo, anche se era un luogo povero e molti di quelli che ci abitavano avrebbero voluto star meglio. 

Adesso ci ricaveranno una casa da ricchi o un paio di appartamenti. Però mi piacerebbe che i muri che si sono imbevuti di tutta quella umanità, di tutte quelle immagini, conservassero ancora qualcosa e che magari nel silenzio del vicolo, la sera, ci fosse qualche crocchiare di piedi, il resto della voce di John Wayne, qualche risata soffocata, lo sguardo di Jean Gabin. E chi ci abiterà, allora chiedesse a chi sta vicino: cossa gheto dito, ma non per far paura, solo perché buttare via tutto è sempre una perdita.

stanotte, credo, ancora pioverà


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Ho lasciato i vetri al furia di stravento e le gocce: tic, tic, tac, tic, tracciano sentieri d’acqua nel buio. Stanotte, credo, ancora pioverà. L’acqua dai coppi luccicanti correrà verso lo scuro vicolo, in un gorgo sordo di lamiera. E leggerò quel romanzo inutilmente lungo, finché gli occhi passeranno su una frase quattro, cinque volte senza capire. Perché non c’è più niente da capire, solo spegnere e ascoltare la pioggia scivolando nel sonno. C’è un grande equilibrio nell’acqua che scende, una pace del dovuto e se il senso delle cose è ancora da scoprire, la pioggia dice che c’è tempo, lavando l’ansia della fretta.

Non c’è più niente da capire stanotte, solo sentire, ascoltare e talora provare, lasciando che tutto trovi la sua importanza domattina.

soprattutto

Stanotte la pioggia scroscia sul tetto e poi scende per la grondaia con un suono di toboga che si perderà nel sonno. Sento la casa calda, il libro che aspetta paziente, la molta strada fatta oggi. Sembra  tutto scivoli dalle estremità del corpo, mentre l’acqua, che entra con gentilezza, lava i pensieri sporcati nei contrasti e scioglie le arroganze del giorno. 

Se ascolto con attenzione, nel silenzio del vicolo sento il rumore di gorgo dei chiusini e delle grate che porta via utile ed inutile.

Via, soprattutto, verso il sonno e poi il giorno.

un gigante nel vicolo

Nello scuotere improvviso, c’è un singulto di stupore e di paura, poi la comprensione subitanea: terremoto. Dei pensieri successivi, parlerò, ma l’immagine che si forma in testa, e che si ripeterà nella scossa successiva, è quella di un gigante, ben piantato nel vicolo, che con le sue mani enormi ha abbrancato le pareti, e comincia a scuotere la casa. Chissà perché lo fa, c’è stupore, forse vuole misurare la sua forza, forse, oppure vuol far cadere qualcosa per sé, o ancora è per allegria sua. E’ l’una di notte, nel vicolo c’è il solito silenzio notturno e quel frullo che si sente ed accompagna la scossa, è un ansito soffiato del gigante, è il suo alito sulla nostra paura. Nostra? Mia, che sono in piedi a quest’ora e sento il pavimento scorrere, libri cadere e guardo inutilmente il soffitto alla ricerca di lampadari oscillanti che non ci sono. Ho messo faretti dappertutto, e adesso mi mancano i lampadari, come servissero i segnalatori di terremoti, guardo la pendola: si è fermata e l’altra,  ferma, si è messa in moto, ma intanto il gigante si è stancato.

Ci sono troppi libri in questa casa, è il pensiero principale adesso, pensiero aiutato dai tonfi delle cadute dei volumi sul legno. Questo pensiero mi assorbe, distoglie dalla sensazione di vuoto che sentivo sino a poco fa. Intorno non accade nulla, c’è un senso di sospensione calma, e l’inquietudine si rintana, è quella che attende la scossa successiva, quella che non arriva. Sono determinato a stare in casa. Ragiono sui 4 piani di scale da correre, troppi se c’è un disastro, e sull’età della casa: è vecchia quel tanto da aver visto e sentito altri terremoti. Queste sono case tirate su con quello che c’era, in anni di ricostruzioni dove c’erano i bravi e le canaglie, posso solo sperare che chi ha costruito non abbia unicamente recuperato materiali più antichi, ma sapesse cosa faceva. Concludo che non è l’ora, né per lei, né per i miei amici dei piani inferiori: possono continuare a dormire, loro. Non si muove nessuno. Guardo le finestre attorno, è tutto bujo, a parte il solito nottambulo cinefilo che si è affacciato. Solo io e lui siamo svegli, questo mi fa sentire più sicuro sull’entità del terremoto, ma sono anche, inequivocabilmente, solo nella notte. Guardo su internet e già ci sono le prime notizie: l’epicentro è vicino a Verona, la scossa è stata forte, ma senza danni.

Ho troppi libri, e giornali e carta, è la mia bulimia che ha accumulato e che non so come affrontare senza un dolore di perdita. Il terremoto, anzi il gigante, ha rimesso in evidenza questo problema di oggetti e spazi a disposizione. E qui comincia una riflessione sul mio modo di vivere, non riesco a fermarla neppure a letto, è un sonno difficile, con l’ inconscia attesa della prossima scossa. Non so che arriverà il giorno dopo alle 16, sono vigile, potrebbe esserci subito e più forte. Eppure tra “troppi” libri, terremoto incipiente e casa vecchiotta, il sonno arriva, segno che alla fine prevale la fiducia. Tanto che posso fare?

Del senso ironico del tempo della terra che si scuote, capisco il giorno successivo: è il nostro fragile umano tempo cronologico in discussione, la terra si muove di continuo. Le nostre serie storiche, limitate dalle nostre attese di vita, sono cronologie ridicole per il mondo. Sono ben attento a non scivolare nel relativo: ciò che vediamo e sentiamo è il nostro reale, siamo noi che scriviamo le storie che la terra scrive altrimenti. La sensazione della nostra pochezza annichilirebbe le sconsiderate volontà del costruire sul poco e sul breve e proiettare all’infinito, toglierebbe voglia di futuro all’uomo. Non è un gran valore, ci occupa di grandi personali considerazioni il tempo, ma è la nostra incauta misura, com’ è misura il ricordo, le serie storiche dei terremoti in val padana, rari per gli uomini, molto frequenti per la terra. Del resto non conosco forse, fin da bambino quell’abside interrotto di santa Sofia, rimasto incompiuto, dopo che un sisma aveva raso al suolo i resti dell’impero romano nella città. 800 anni sono un batter di ciglia per la terra, uno sbadiglio nei suoi milioni di anni fatti di brividi che noi annotiamo diligenti nelle nostre storie. Come fossimo osservatori di un’altro pianeta, attenti a questa palla color blù e fango, ma anche distaccati conservatori d’altre memorie.

E i miei affetti, i miei libri, le mie cose, mi riportano a me, al contingente che dilata nel tempo, non voglio vivere solo nell’attimo per fuggire il senso di morte che questo porta con sé, voglio il giorno come un mantice di fisarmonica che si dilata e suona, perché questa è la mia musica, la mia vita, di cui fa parte anche il terremoto e il rispetto per il gigante che mi lascia vivere, ma mi ricorda che qualche conto, non con lui, ma con me devo rinegoziarlo.

E magari saldarlo.

zelig

Usa sempre le stesse espressioni e parole, le virgole, i punti con la medesima cadenza. Anche le sospensioni nel discorso, sono uguali, come leggesse ad alta voce il solo libro letto più volte in italiano. Lo recita, senza nominarlo, nei contesti più vari. E la tristezza diventa speranzosa, l’allegria color lavanda. Ad ascoltarlo, muta l’umore, il senso del discorso prende strade imprevedibili. Sorridendo gli ho proposto Calvino e lui, serio, m’ha detto:è bello come Pinocchio?

lettere al vicolo 1

La coppia ugandese con bambino, non c’è più e tu, caro vicolo, sei più silenzioso.

A me piacevano gli ugandesi: erano allegri, salutavano e quando hanno fatto festa per il compleanno del piccolo, mi hanno invitato.

Come sai, qui siamo un gruppo di scombinati, ci salutiamo senza sapere bene quali stranezze mettere in comune. Arriviamo a casa a tutte le ore, facendoci con simpatia gli affari nostri. Quasi tutti, vicolo, perchè al tuo inizio, verso la chiesa, c’è chi conosce morte e miracoli di tutti. Ma questi signori, i miracoli non li fanno, li sanno solo, sarà per questo che ritengono, adesso ci sia più classe nel vicolo. Chissà cosa vuol dire classe? A me pareva che gli ugandesi, insieme ai gay e al trio etilico ci rendessero finalmente umani e socievoli. Tu cosa ne pensi del nostro futuro di classe?

Dentro di me credo tu sappia leggere, vicolo. Metterò queste righe nella cassetta vuota degli ugandesi, fammi sapere.