La chiesa del Servi è una chiesa bella e strana. Parallela alla via Roma, una delle strade importanti del centro cittadino, ha la facciata romanica chiusa tra case, in vicolo corto e ortogonale senza il piazzale che contraddistingue l’accesso alle chiese. Ha un bellissimo e largo porticato, sopraelevato rispetto alla strada, contraddistinto da archi leggeri, sorretti da dieci colonne esili di marmo rosso che provengono dalla chiesa del Santo. L’ingresso principale è proprio sotto questo portico e quindi laterale rispetto alla navata. Questo mi ricordo che varcavo, accompagnato da mia nonna, il giorno di san Valentino. Di certo non guardavo il meraviglioso crocifisso ligneo di Donatello, neppure notavo gli affreschi o l’altare maggiore, perché lo scopo era di far benedire una piccola chiave di alluminio o bronzo, molto strana perché aveva una testa trilobata che non vedevo in nessuna chiave, e che mi sarebbe stata appesa al maglione per qualche giorno. L’altare presso cui avveniva la benedizione è un altare imponente e incongruo rispetto alla chiesa. Barocco, di grandi dimensioni, proprio in corrispondenza della porta laterale e che per questo sembrava l’altare principale, come se chiesa fosse un pensiero disordinato, privo di equilibrio. Guardavo le statue, l’affollarsi di bambini, nonni e mamme, i ceri accesi, le colonne tortili e aspettavo finisse perché il premio sarebbe stato qualche dolciume prima di tornare a casa.
Per molti anni mi sono chiesto cosa significasse quella piccola chiave, perché chiaramente era un simbolo e ciò di cui mi parlava mia nonna non era cosa che conoscessi: san Valentino proteggeva dal mal caduco. Non si parlava di innamorati, quelli vennero poi, e non sapendo di quale male si parlasse, semplicemente accettavo il tutto come una delle ritualità magiche che costellavano l’educazione di un bimbo in quegli anni. Poi ho capito che il male era l’epilessia e che il dialetto era molto esplicito, riferendosi al cadere a terra convulso. Però restava l’enigma della chiavetta e quello l’ho collegato poi, alla povera terapia immediata del popolo perché si metteva una chiave tra i denti della persona in crisi epilettica per evitarne il soffocamento.
Passando sotto al portico dei Servi, riflettevo, qualche giorno fa, sulla potenza dei simboli. Ne ho parlato con mio figlio, che non ha nessuna di queste esperienze, e capisco che con la mia generazione si chiude un’epoca. Non riguarda solo una religiosità popolare che pervadeva di processioni, reliquie e miracoli, città e campagne, ma di un modo di intendere la vita dove magico, religione e speranza interagivano con la vita quotidiana. Di fronte all’impossibilità e al mistero, non restava che il miracolo, il rito e la protezione del simbolo. Non rimpiango nulla, capisco solo che è finita e che ciò che era vivo ora si trasferisce nei testi di antropologia.
Certo, non è così lineare il ragionamento religioso ufficiale, c’è altro se due santi, uno anche dalla mia città, sono stati portati a Roma, proprio per riconoscere che il rapporto con il mistero non ha un canone, non c’è una regola, anzi si riconosce che il popolo si costruisce una sua religiosità che deve trovare riscontro in quella ufficiale sennò semplicemente si tiene la sua. Questo mi farebbe pensare a un relativismo ufficiale, da parte di chi lo ha sempre rifiutato agendo attraverso il dogma, e quindi un capire, un ammettere il dubbio e il diverso nel proprio terreno. Alla buon’ ora per chi, come me, non ha dogmi, ma principi, non ha religione ma rispetto e dubbi per ciò che non capisce, ma non è questo che mi fa riflettere. È il senso di un mondo che c’è nelle persone e che cerca nei simboli comuni. Un mondo che reinterpreta la paura e l’insicurezza ma non collega, e ha una cultura fatta di singolarità. Servirebbe De Martino per capire cosa ci sia dentro la società fluida e come essa sia nei gesti e nelle credenze di tutti i giorni. Io avevo una maestra , mia nonna, che mi trasmetteva un passato con riferimenti tangibili, mio figlio questo lo può avere solo attraverso i libri o dei ricordi. Finisce un’epoca, per l’appunto, i ricordi sono passato quando non interagiscono col presente, e l’irrazionale non può essere controbattuto. Ho l’impressione di una povertà senza nome, e un rimpianto, non di un’epoca o di riti, ma di qualcosa su cui ragionare e differenziare le vite avendo un senso comune.
Scusami Will se ti dico solo questo:
mi piacciono moltissimo e mi inteneriscono tanto i racconti di te piccolino.
Sono pezzi di storia personale che contengono grande amore e importantissimi ricordi familiari, ma sono anche importanti tasselli di storia e tradizione locale, da ricordare e da scrivere, per mantenerli nella memoria comune e per evitarne l’oblio.
Grazie poichè ero ignorante a riguardo.
Fa che sia una bella giornata, Will
ciao
con un sorriso
Ondina 🙂
Grazie Ondina, i ricordi sono un modo per riconnettere presente con il passato, considerare come ci si pone oggi. Buona settimana 🙂
Pingback: san Valentino e il mal caduco | cafeaulivre